LETTERE NAPOLITANE From the Social Science Review of London 1 December 1865
LETTERE NAPOLITANE
Del marchese Pietro cavaliere Ulloa, Presidente del Consiglia de’ Ministri di 8. M. il Re delle due Sicilie. ()
È questo il titolo di una collezione di lettere, che il cavaliere Ulloa ha dirette a parecchi eminenti uomini politici di Europa, e colle quali denunzia al l’universale le presenti condizioni d’Italia. Egli deplora la sorte della dinastia, dei Borboni di Napoli; biasima il modo in cui si è costituito il Regno d’Italia; vitupera il governo di Vittorio Emanuele II; taccia di tradimento il ministero Spinelli che fu l’ultimo sotto Francesco II; loda il brigantaggio, come l’espressione del sentimento nazionale delle province meridionali verso il loro legittimo re; confida nel l’avvenire e nella ristorazione dei principi italiani spodestati.
L’autore in questo suo lavoro prende le mosse dalla caduta di Gaeta, che è solo l’ultimo atto e la catastrofe del dramma borbonico. Noi faremo un rapido apprezzamento del l’opera del Presidente del Consiglio dei Ministri dell’ex-Re delle due Sicilie, incominciando dal ristabilire la cronologia degli avvenimenti secondo che la verità della storia richiede.
Sul finire del secolo passato fiorivano nei domini! continentali del mezzogiorno d’Italia le lettere greche e latine, e quegli abitanti, educati da esse al culto delle libere istituzioni, comunque soggetti a governo monarchico assoluto, ricordavano con compiacenza ed erano gloriosi di aver avuti a loro avi i Greci, e per padri i Romani.
Di ciò avvenne che le nobili inspirazioni ed i grandi principii della prima rivoluzione francese in nessuno degli Stati Italiani fossero stati così bene accolti, e caldeggiati, come nelle provincie napolitane. Crescevano a questo modo dall’un lato i sospetti e le paure, che rendevano tutti i giorni più feroce il potere, e dal l’altro progredivano le idee liberali a traverso di ogni maniera di pericoli. Trionfarono quest’ultime, e proclamassi la Repubblica Napolitana. Ma indi a poco soggiacque alla forza, ed anche ai più vili e bassi tradimenti. I patriotti già in possesso dei castelli della città, dai quali avrebbero bene potuto difendersi, capitolarono coi regi, e fu loro promessa solennemente la salvezza della vita.
Però Ferdinando IV, che di poi nel 1815 prese il nome di Ferdinando I, forse, per nascondere l’infamia, di cui si covrì nel 1799, ruppe i patti convenuti, e giurati, mandò a morte gran numero di quei prodi ed egregi uomini, fece scorrere immensi torrenti di lagrime, e di sangue per tutte le terre napolitane.
Nel 1806 riparava egli codardamente in Sicilia, ed i Francesi conquistavano i dominii continentali del mezzogiorno d’Italia. I conquistatori, col l’alteriggia della vittoria, e col prestigio della spada di Napoleone I imposero ai napolitani le loro istituzioni, le loro leggi, gli uomini loro, due re francesi. Non pertanto quel governo raggiunse il suo compilo, esercitò una immensa missione civilizzatrice sulle province napolitane, le condusse sopra tutto alla libertà mercè il Codice Napoleone: e comunque avesse avuto il grave torto di non aver voluto opportunamente dar loro una Costituzione, cadde pure desiderato, e compianto.
In questo tempo il primo Ferdinando Torniva ancora singolar prova di sua ferocia.
L’infelice Re Gioacchino Murat, uno degli anzidetti due re francesi, credendo potere riconquistare il regno, che gli avean tolto i trattali del 1815, sbarcò con pochi uomini nel Pizzo, in Calabria: fu fatto prigioniero, incompetentemente giudicato e fucilato. Se non più dovevasi in lui rispettare la qualità di re, certamente non si avrebbe potuto negargli quella di Maresciallo di Francia, e però da un Consiglio di Marescialli, non già da un ordinario Consiglio di Guerra avrebbesi dovuto giudicare. Si dice ancora, e generalmente si crede in Napoli, che lo stolto e barbaro Ferdinando I fece recidergli ii capo, e. portarlo a lui per accertarsi della identità della sua vittima: e che poscia conservò sempre nella sua stanza da letto quel teschio in un vaso di cristallo ripieno di spirito di vino. Tiberio, Nerone od altro mostro non saziò mai; la sua vista di sì atroce spettacolo!
Sopravvennero le riscosse del 1820 e del 1848. Ferdinando I, il, suo figlio Francesco I, e Ferdinando II suo nipote, concessero due volte; le franchigie costituzionali due volte le spergiurarono, e due volte punirono con la morte, col carcere, e cogli esigi» coloro che avean credute leali e sincere quelle concessioni…
E le decisioni, che in quei giudizii politici si pronunziarono da carnefici, che indossavano la toga di magistrali, furono con apposito lavoro lodate dal cavaliere Ulloa.
Dal 1820 al 1860, il governo dei Borboni fu dispotico, diffidente, sanguinario, corrotto, e corruttore. In tutte le amministrazioni dello Stato, e sopratutto nell’armata di terra, e di mare, fu stabilito fra i capi un sistema di spionaggio: i superiori spionavano gl’inferiori, e viceversa. Agli stessi ordini religiosi fu imposto di spionare le coscienze de’ cittadini, e denunziarli al potere. Questo si collegò specialmente co’ Gesuiti e, colla più empia ipocrisia, abusò della stessa religione per meglio opprimere lo Stato. Così il governo divenne un partito, una fazione di tristi reazionari!, che dichiarò guerra ad ogni progresso sociale, alle probità, ed alle capacità dal paese..
Era questo lo stato delle cose quando moriva Ferdinando II, lasciando di sé esecrata memoria. Tutti speravano un migliore avvenire nel governo del suo figliuolo Francesco li. Però esso, col suo programma governativo, dichiarò sante le opere paterne, e se ineguale a seguirne l’esempio. Sognò quel giorno l’estrema rovina della dinastia. La promessa di uno Statuto, e la ripristinazione, ch’egli fece di poi, della Costituzione del ’1848, furono accolte dal popolo, meno con indifferenza, che con disprezzo.
A traverso di un periodo così triste com’è quello che abbiamo solo accennato per sommi capi, si compì la rivoluzione morale delle provincie meridionali, passò dal pensiero bel fatto, e scoppiò nel l’eroica Palermo. S’incarnò poscia in Garibaldi, ricevé da esso l’indirizzo unitario Italia e Vittorio Emmanuele, ed in poche settimane rovesciò, quasi per incantesimo, l’antica dinastia di Carlo III. La dinastia borbonica non cadeva dunque per l’opera; di sette, di cospirazioni e di tradimenti, come asserisce I il cavaliere Ulloa; ma per le sue gravissime colpe, perpetrate nel corso di oltre sessant’anni. E però tutt’i suoi alleati, tutt’i suoi amici, tutta 1 armata di terra e di mare, tutte le popolazioni a lei soggette, l’abbandonavano, quasi fossero state un uomo solo. Sicché le provincie meridionali, aiutate dalle rimanenti parti d’Italia, e dall’incomparabile ardire di Garibaldi e dei suoi mille, compivano il loro risorgimento ().
Non postiamo pertanto dissimulare, né scusare le colpo del governo italiano che il cavaliere Ulloa magnifica, c snatura a suo modo. Tutt’i gabinetti italiani che si sono succeduti, da quello del Conte di Cavour sinoggi, hanno umiliata, sgovernata, e non poco demoralizzata l’Italia, la mercé di un governo partito, e di un patriottismo di calcolo. Ma nonostante cotesti errori degli uomini, che deggiono in parte considerarsi ancora come le necessarie conseguenze di un profondo movimento rivoluzionario, l’Italia compirà i suoi alti destini. Gli uomini che non han saputo governarla, né rispettarsi, cadranno, senza speranza di più risorgere, sotto il peso dell’opinion pubblica, o passeranno col tempo. Ma le istituzioni, basate sulla libertà, e sulla giustizia, staranno incrollabili, ed eleveranno la nazione italiana a vera grandezza.
I principii profondamente immorali, e demoralizzatori, in cui aveva suo fondamento il governo borbonico, non sono, né possono essere quelli del presente reggimento italiano. Basterebbe questa sola osservatone a dimostrare h radicata differenza tra i due governi. Il cavaliere Ulloa fa pure tre addebiti al governo d’Italia. Asserisce la flagrante violazione del principio del non intervento; dice che il brigantaggio, che tutt’i giorni combatte e vince la truppa Italiana, è, la manifestazione più sicura dell’avversione del Napolitano al governo piemontese;, ed afferma che il plebiscito, da cui esso procede, non è altro, che l’opera della violenza, e dell’intrigo.
Il cavaliere Ulloa probabilmente ignora che nelle conferenze diplomatiche tra il governo borbonico, e l’Imperatore Napoleone di cui, il primo domandava la protezione, fu discusso e ritenuto, che il principio del non intervento non poteva applicarsi al. Piemonte, come quello che non era straniero in una questione italiana.
Quanto al brigantaggio è ancora ben conosciuto che organizzato in Roma da Francesco II, benedetto da Pio IX, e favorito, 0 tollerato da Napoleone III, ha devastato, e tuttavia devasta le provincie napoletane, disseminandovi la desolazione, e la morte. Esso è dunque la dimostrazione di quanto avvi di più vile, ignominioso, e contrario alla ragion delle genti, non mica la manifestazione di uni sentimento spontaneo di un popolo, che rimpiange il suo re.
Il plebiscito in fine fu la sincera e libera esternazione della volontà delle provincie meridionali, che costituite in istato di poter scegliere nella pienezza del loro diritto tra la dinastia de’ Borboni, di cui per oltre sessanta anni avevano patita, ogni maniera di soprusi e di arbitrji, e quella di Vittorio Emanuele, re costituzionale, prescelsero senza esitare quest’ultima.
Il cavaliere. Ulloa accusa di tradimento il ministero Spinelli, e ne chiama soprattutto complice Liborio Romano, Ministro del l’Interno e della Polizia. Il Ministero Spinelli fu costituito ai 25 giugno 1860; e Romano non ne fece parte prima del giorno 14 del successivo luglio. Nell’una, e nell’altra epoca la Sicilia era irreparabilmente perduta. Tradirono dunque anche i precedenti Ministri, tutti fedelissimi; non meno a Francesco II, che a Ferdinando II?
Scrive il cavaliere Ulloa che non crede che una maggiore energia avrebbe potuto arrestare la rivoluzione; e soggiunge che ove Ferdinando II si fosse trovato in mezzo a tale frangente, avrebbe potuto aggiornare, non evitare la crisi. Ora se la catastrofe era inevitabile, non può farsene addebito al l’asserita mancala energia, né al preteso tradimento del Ministero Spinelli. E chi furono i veri traditori della dinastia? Quanti sovrani ella aveva suoi amici, ed alleati in tutta Europa; quanti erano gli abitanti delle due Sicilie. Giova ascoltarlo dallo stesso cavaliere Ulloa, che in tale proposito scrive così: «Ma fa sopratutto sorpresa l’abbandono dell’Europa che lasciò la monarchia napolitana alla tempesta già sollevata, e presta a sommergerla, fino al momento in cui ella vide i rottami del trono strascinati dal torrente».
Sono ancora sue parole quelle che seguono: «Era riserbato al regno di Napoli di offrire il maraviglioso spettacolo di una nazione, che tollera l’invasione, e l’insurrezione al momento stesso, in cui il suo re gli largiva una libertà, forse troppo larga ed estesa».
E dopo coteste confessioni del signor-cavaliere, chi non vede eh’ egli medesimo era convinto che non eravi Ministero al mondo, che avesse potuto salvare una dinastia già sepolta sotto il peso delle proprie sue colpo, e definita da tutta l’Europa civile la negazione di Dio eretta in sistema? Non ostante cotesto triste stato di cose, in cui versava il potere, il Ministero Spinelli compì ogni suo debito verso la dinastia. Conservò l’ordine nel paese, insisté per la lega col Piemonte, e provvide alla difesa dello Stato, sì quando Garibaldi era in Sicilia, sì quando sbarcò sul continente, e sì quando accampava delle pianure di Salerno. Imperciocché assicurò i mezzi necessarii alla sussistenza dei quattro corpi di armata che stanziavano in Sicilia, in Calabria, in Salerno, ed in Napoli. Se poi la indecisione, e la diffidenza del Re, la rotta disciplina dell’armata, e l’opinione dei Generali che dicevano inutile ogni resistenza, neutralizzarono la consigliata difesa; se la lega col Piemonte mancò, sì perchè non si voleva da esso, come perché era avversato dalla rivoluzione, ohe ardeva intatta Italia, non si deve dar colpa al gabinetto Spinelli, e chiamarlo responsabile di fatti che gli sono del tutto stranieri.
Il più grave-addebito che fecesi a Liborio Romano, fu quello di avere accettato il potere sotto Garibaldi, dopo essere stato: Ministro di Francesco II, e da esso il cav. Ulloa deduce la precedente intelligenza, tra i due primi ed il tradimento dell’altro. L’odio personale, che ha spinto il cavaliere Ulloa a far rivivere’ a danno di Romano una calunnia, divulgata dai borbonici, ripetuta dai suoi nemici politici, e già le mille volte smentita, deriva dall’avere il secondo scoverte e rendute vane le cospirazioni reazionarie, che di continuo si ordivano nella reggia, sotto le inspirazioni dello stesso Ulloa. Altro motivo di cotesto odio personale è il seguente.
Il cavaliere Ulloa ha cangiato tre volte la sua fede politica: è stato da prima fiero repubblicano, di poi ardente costituzionale, ed infine devoto al potere assoluto! Borboni accettarono i suoi servigi ed il nominarono Consigliere della Cassazione di Napoli, che era il più alto grado nella magistratura.
Di ciò istruito Garibaldi, e conoscendo altresì che l’Ulloa aveva di sua volontà seguito Francesco II in Gaeta, con decreto del 17 settembre 1860, sottoscritto dal solo Dittatore, il destituì dall’officio di Consigliere in omaggio alla pubblica opinione. Di cotesta umiliazione l’.Ulloa ha cercato vendicarsi contro Romano, che fu uno dei membri-del gabinetto della Dittatura di Garibaldi, in Napoli.
Noi non vogliamo che i nostri lettori si diano da pena di leggere questo nostro, lavoro, perchè facciano, giusto concetto del merito intrinseco delle lettere del cavaliere Ulloa; non perchè egli perori d’innanzi al l’Europa la causa d’un governo caduto, e che è stato di già giudicato, non perchè dobbiamo giustificare, od accusare gli individui, a cui egli fa allusione, ma soltanto perchè il periodo di cui esso ragiona è della più alta importanza storica.
L’Italia non sarebbe stata, né la dinastia di Savoia sarebbe divenuta italiana, se Napoli. non si fosse annessa al Piemonte, compiendo in un momento di generale entusiasmo un atto, che è stato assai mal compreso sotto i ‘rispetti de’ sagrifizii che costava. I secoli avvenire ammireranno i meravigliosi avvenimenti dell’epoca presente. Due regni, che formano la metà più considerevole della Penisola, e che comprendono le ricche provincie del Sud, di cui la superiore bellezza tentava i Greci a lasciare, la terra de’ loro Dei, i guerrieri i loro campi, gli uomini di stato i loro consigli, e gl’imperatori a cercarvi la soddisfazione de’ sensi, che non offrivano gli altri climi; cotesti due regni volontariamente discesero dalla loro condizione di stati indipendenti, per divenire semplici provincie d’una nazione, ch’esisteva nell’ideale, innanzi che per la loro abnegazione l’idea divenisse una realità. Senza che alcun trattato fosse stato conchiuso od alcuna promessa fosse stata loro fatta, i popoli delle due Sicilie si univano ad uno Stato men grande, il quale tutto aveva à guadagnate, laddove i primi tutto avevano a perdere. Cotesto movimento mostra la più grande forza morale, l’abnegazione, il sagrifizio alla causa comune, funa fede vivissima nel l’avvenire. Ed innanzi alla sublimità dell’idea, stava pure la grandezza dell’esecuzione. Coloro che han saputo compierla, e che con la inspirazione di un momento han fatta opera che durerà secoli, sono le figure che la storia separerà dalle masse per collocarle in tale splendore, che col decorso degli anni diverrà sempre più luminoso e più chiaro.
Fra coteste rimarchevoli figure scorgesi quella di Liborio Romano, che costituito in una posizione difficile, Grondato da mille pericoli, ed inceppato nella sua. azione dalla forza degli avvenimenti, somigliava a quel pilota, che sta saldò sul navilio, in cui l’acqua penetra a traverso di grandi fessure, e che con rara abilità, e con più raro coraggio il salva dal naufragio. L’immensa rivoluzione, che ha rinversato un’antica dinastia, e fatto passare due regni da uno ad un altro reggimento, si è compiuta, senza perturbazioni, senza che una sola goccia di sangue fosse stata versata, senza che avessero avuto a deplorarsi gli effetti di una sola delle numerose mene della reazione, che doveva essere il segnale del saccheggio, e della rapina. In quel momento di supremo periglio Liborio Romano fu colui, che il popolo denominò, e denominerà sempre il salvatore del suo paese.
Romano fu imposto Ministro a Francesco II dalla rivoluzione, ossia si fece ricorso a lui quando, la dinastia era minacciata da gravi pericoli, sperando che poteva essere sostenuta dal credito di un uomo, di cui la popolarità era l’effetto di tutta una vita consacrata alla causa della libertà. Egli servì il Re come Ministro costituzionale dal 14 luglio al 6 settembre 1860, nel quale periodo diede due volte le sue dimissioni, che furono accettate, ma intanto rimase al potere, perchè non potè formarsi un nuovo gabinetto.
Alle ore 6 ½ antimeridiane del giorno 7 settembre 1860, Garibaldi scrisse da Salerno un telegramma a nella sua precedente qualità di Ministro dell’Interno e della Polizia, col quale gli diceva, che si re Napoli, appena sarebbero arrivati in Salerno il Sindaco e il Comandante della Guardia Nazionale di Napoli. Intanto egli raccomandava la tutela dell’ordine e della tranquillità del paese.
Poteva Romano in quei supremi istanti abbandonare agli eventi l’uno e l’altra, che per lo innanzi erano state in cima d’ogni suo pensiero? Poteva egli onorevolmente non obbedire ai voleri del Dittatore? No, al certo.
Giunti in Salerno il principe d’Alessandria Sindaco di Napoli, ed il Generale de Sauget Comandante in capo della Guardia Nazionale, e discusso con Garibaldi sul modo della sua entrata in Napoli, il secondo domandò ai due primi chi era l’uomo più popolare bel paese, ed eglino risposero essere Liborio Romano.
All’arrivo di Garibaldi in Napoli, Romano compera suo dovere, gli andò incontro alla stazione della via ferrata per rendergli conto delle condizioni del paese confidato alla sua tutela—Indi lo accompagnò alla Cattedrale, ov’egli recessi a ringraziare Iddio del compiuto successo della stia intrapresa.
Nell’uscire dal Vescovato, Garibaldi invitò Romano a sedere a canto a lui nella sua carrozza, e lungo la via che conduceva alla dimora destinata al Generale gli applausi divennero più fragorosi di prima ripetendosi unitamente i nomi di Garibaldi, e di Romano. Fu allora che il Dittatore rivolto a lui gli disse: «lo la felicito della popolarità di cui gode, bisogna continuare a servire il paese». Romano rimase perplesso, e nulla rispose a tale proposizione. Onde giunti al palazzo di Angri, destinato a ricevere il Dittatore, quivi egli rinnovò ancora a Romano le premure perchè accettasse il potere. Romano rimase tuttavia dubbioso ed indeciso tra la sua personalità, che gli vietava di essere Ministro di Garibaldi dopo esserlo stato di Francesco II ed il debito di buon cittadino, che gli comandava di continuare a servire paese.
In questo molti amici politici del Romano, istruiti della sua esitazione a rimanere in officio, si recarono immantinenti da lui, e gli osservarono che conoscendo e meglio di altri le condizioni del paese, non xxxxxxxx a prestar l’opera sua al Dittatore, perchè potesse governarlo. Che la generosa, e nobile anima di Garibaldi fioxxxxxxxxx essere di leggieri abusata d’un partito xxxxxxxx una amante di libertà e che spinta ad esso ad imprese troppo rischiose, potevano esserne tratti a compiuta rovina i destini d’Italia ().
Che infine la storia straniera e patria forniva degli esempii di Ministri, che avevano servita successivamente due dinastie, senza che perciò la loro riputazione ne rimanesse adombrata.
Per queste ragioni, e non essendo facile resistere all’ascendente di Garibaldi su tutti gli uomini che amano la patria, Romano, con assoluta abnegazione di ogni sua personalità, consentì a rimanere in officio.
Però nol ritenne a lungo, puniche confirmato nella sua carica di Ministro dell’Interno e della Polizia con decreto del 7 settembre 1860, dopo tre soli giorni, cioè ai 10 del mese stesso diede unitamente ai suoi colleghi le sue prime dimissioni, colle quali dichiarò francamente che gli straripamenti della Segreteria della Dittatura, spingevano il paese all’anarchia. Tali dimissioni, non accettate dal Dittatore, furono una seconda volta ripetete ai 22 settembre, e più alla distesa esposte le cose precedentemente ragionate. E da ultimo con una Relazione del 22 del mese stesso, il ministero, ritenendosi già dimissionario, faceva al Dittatore il quadro più luttuoso del modo con cui la sua Segreteria governava le provincie napoletane, mentre era egli occupato della guerra sul Volturno. Cotesti tre documenti, che furono pubblicati da parecchi giornali di quel tempo, fra quali dal Nazionale del 4 ottobre, mostrano luminosamente la rettitudine delle vedute del Romano, e la sua leale condotta nel corso dei quattordici giorni in cui rimase al potere sotto la Dittatura.
Le calunnie in tale proposito inventate a fin di denigrarlo, procedono pare dalla confusione delle idee xxxxx un paese poco abituato a comprendere la differenza tra il Ministro di un governo costituzionale ed il Ministro di un Re assoluto. Il secondo è del tulio sommesso ai voleri del sue signore, laddove il primo dee rispondere di tutti i suoi alti verso il paese, né diviene incapace a servirlo, ove il sovrano fosse deposto por contravvenzione allo Statuto, o condannato per tradimento Per aver diversamente compreso tale dovere Lord Stafford perdè il capo sul palco. ()
Romano allorché non di sua volontà, ma dalle condizioni del paese fu imposto Ministro a Francesco II assunse un compito assai difficile e complicato. Doveva reprimere le tendenze anticostituzionali della casa regnante, ed infrenare la rivoluzione nei limiti legali. Esistevano in Napoli in quei tempo due Comitati, l’uno col nome di Comitato di azione, e l’altro con quello di Comitato dell’ordine. Militava il primo sotto le inspirazioni di Garibaldi, ed il secondo sotto quelle del Conte di Cavour. Romano, rispettando il diritto di associazione, e la libertà individuale, stette saldo tre essi: vietò recisamente che l’uno avesse inviato armi e munizioni a Garibaldi in Sicilia, e che l’altro avesse con le sue mene turbato l’ordine e la tranquillità, del paese.
Romano, non poteva ancora tradire la dinastia senza il concorso e la cooperazione de’ suoi colleghi; che avevano servito il Re per molti anni. E di qual tradimento può mai ragionarsi, se al tempo in cui Romano fu nominato Ministro la Sicilia era definitivamente perduta, e la dinastia fatta cadavere? Rimaneva solo a salvare l’ordine, e la tranquillità del paese; e Napoli, ricorda con riconoscenza di essere stata per Romano salvata dal saccheggio dei lazzaroni, e dalla guerra civile.
Il cavaliere Ulloa alleato della reazione, e delle cospirazioni; che si ordivano nella regia, cerca negarne l’esistenza, e discredita il nome di Romano, che di continuo intese a scovrire ed a reprimere quelle funeste macchinazioni.
«Romano», dice egli, «spaventando continuamente il Consiglio, ed il pubblico co’ fantasmi della reazione prendeva sempre misure contro ogni movimento realista, e non vedeva il tenebroso lavorio della rivoluzione. Nella notte teneva abboccamenti co’ Comitati, con Alessandro Dumas; emissario della rivoluzione, con l’Ammiraglio Persano, con tutti i reduci emigrati, e sopra tutto, coi militari.»
La rivoluzione, progrediva in quei giorni palesemente, non già nelle tenebre, né potevasi arrestare. Romano trovavasi in mezzo a due contrarie correnti, che in senso diverso minacciavano immergere il paese nell’anarchia, e nel sangue. Cosa gli rimaneva a fare? Destreggiare abilmente, il torrente rivoluzionario, e render vane le cospirazioni borboniche contro. il regime costituzionale, ohe la casa regnante aveva l’obbligo di rispettare. A traverso di cotanto disastrosa situazione non era facile aprirsi un cammino sicuro; ed a raggiungere questo scopo Romano adoperò tutt’i mezzi ch’erano in suo potere. Nelle sale del Ministero, ed in sua casa egli trattava alla scoverta con gli uomini di tutt’i partiti, e di tutte le gradazioni politiche, ma non cospirava con alcuno. I Ministri suoi colleghi affermano ancora, che quando egli credeva utile abboccarsi con le persone più sospette, ne consultava preventivamente il re, e di poi non solo riferiva a lui, ma benanche al Consiglio de’ ministri quel che aveva raccolto da tali conversazioni, circa lo spirito pubblico, perchè l’uno e gli altri meglio avessero provveduto a quanto esigeva la, situazione.
A formar giusto concetto delle cospirazioni che tendevano a distruggere la Costituzione, che il re doveva mantenere, gioverà riferire due, o tre fatti narrati dallo stesso marchese Ulloa, riducendoli alla loro verità storica. Scrive egli:
«Un francese esaltatissimo il signor de Sauclières pubblicò per le stampe un consiglio al re, con cui lo esortava di prendere le più energiche misure contro la rivoluzione. Il ministro di polizia Liborio Romano s’impadronì di questo fatto privo di importanza, per esagerarlo a suo talento, ed accrescere l’allarme del paese.»
Tal fatto privo d’importanza, come asserisce il cavaliere Ulloa, era tale che ove non fosse stato vigorosamente. represso da Romano avrebbe condotto il paese alla guerra civile.
Nel 15 luglio, giorno che seguiva quello, in cui Romano fu nominato Ministro dell’Interno, e della polizia, ai vide la Guardia Reale alla stessa ora scorazzare nei diversi quartieri della città, sopra tutto per Toledo, ed in parecchi villaggi intorno a Napoli, manomettendo i pacifici cittadini e mortalmente ferendoli. Cotesta reazione partiva dal clubo, che teoevasi nel reale appartamento: del Conte di Trapani, e di cui faceva n parte principale la camerilla, il cavaliere Ulloa, ed il generale Cutrofiano.
Romano, cui era nota l’origine del male, non mancò di rivelarla al re, e di domandate che i colpevoli si punissero. Tale dimanda rimase in vero senza effetto, ma in avvenire la reazione militare non più fecesi a turbare il paese.
Continuava nondimeno nel l’inferno della reggia il lavorio degl’inimici della Costituzione, e del trono.
La Cospirazione del Conte di Aquila fu di tanta gravità contro il paese, ed i diritti del re, che il Consiglio dei Ministri unanimemente deliberò che immantinenti conveniva allontanate da Napoli quel principe; e cotesta deliberazione, approvata dal re, fu eseguita nel giorni 14 agosto 1860, secondo che leggesi nel giornale costituzionale di quella data.
Il de Sauclières non diede mica un semplice consiglio al re, pubblicandolo per le stampe, come asserisce il cavaliere Ulloa: fu invece l’agente d’una larghissima cospirazione parimenti ordita nel clubo del Conto di Trapani.
Egli, il de Sauclières mise a stampa, fece affiggere alle mura della città, e distribuì in gran copia, sopra tutto alla truppa, un cartello incendiario col titolo di Appello di salvezza pubblica, coi quale invitava il popolo alla rivolta per sostenere la causa del Re tradito da’ ministri, e quella della religione, che si voleva distruggere, di unita alla monarchia.
Di tale cartello incendiario si trovarono nella stamperia Ferrante, posta nel largo di S. Anna di Palazzo ottomila esemplari, ed altri due mila se ne rinvennero nella casa di abitazione del de Sauclières (Albergo di Pietro lennes Largo S. Teresa a Chiaia n, .6). Nell’abitazione anzidetta si ritrovarono parimenti un opuscolo intitolato Naples et Ics journeaua révolutionaires, diretti ai consoli napolitani dimoranti all’estero, ed una lettera del 29 agosto 1860 all’indirizzo di un frate di Roma non per anco speditagli. Cotesta lettera rivelava che il de Sauclières era adoperato dal Conte di Trapani a scrivere la corrispondenza di taluni giornali di Francia, e vi si leggevano fra le altre queste parole:
Io penso che il re perverrà a sormontare gli ostacoli che in tutti i giorni gli si parano innanzi per perderlo. Ma questo non sarà senza effusione di sangue. La sua truppa è fedele, ed animatissima contro i garibaldini. Essa vuol farne una spaventevole S. Barthelemy. Se Iddio ne seconda, vi saranno molle vittime; e ciò potrà essere fra pochi altri giorni».
Questi ed altri fatti risultano dal processo a carico del de Sauclières, che avrebbe potuto essere fecondo xxxxxxxinti rivelazioni, ove fosse stato seguito dal corrispondente giudizio; ma Garibaldi concesse amplissima, di cui il cospiratore francese dichiarò di voler approfittare, e ritornò impunito al suo paese ().
Ulloa rimprovera ancora al Ministero Spinelli e abbandonato il re nel maggiore suo bisogno. Ed è il signor cavaliere, che è tipo di fedeltà, a di affezione verso il suo sovrano, non accettò di comporre un nuovo ministero, il 24 agosto quando aveva a sua disposizione tutte le forze della dinastia, che al certo, erano xxxx volte superiori alle forre, materiali di Garibaldi? Perxxx le condizioni: del paese all’interno ed all’esterno erano tali che rendevano impossibile la difesa, e poiché contavano i realisti che Garibaldi, mancando di cavalleria e artiglieria, sarebbe stato seppellito in un torrente di fuoco sotto Gaeta, e che il re ritornerebbe in Napoli preceduto dai patiboli e dal terrore.
Romano in un documento passato oramai nel dominio della storia, sottoscritto da lui solo, e sotto la sua responsabilità espose al re il vero stato delle cose in Napoli (). Gli ricordò le severe verità che i re ascoltano soltanto troppo tardi, g|i mostrò: che un, lungo sistema di sgoverno aveva dai suoi fondamenti minata la dinastia, e con nobili e forti parole lo scongiurò a non lasciar di essa un ultimo ricordo di sangue.
Così compiuto il dovere del ministro, e ritiratosi il re in Gaeta, Romano ritornò libero cittadino a servire la causa, cui aveva consacrata tutta la sua vita, e per la quale aveva nella sua giovinezza patito il carcere e l’esilio, né aveva cessato di difenderle nella qualità di Ministro di Francesco II, col continuo pericolo del suo capo, tuttavia minacciato dalla reazione sua nemica. Ed avrebbe egli pure continuato sotto il nuovo governo a servire il paese, che aveva sì ben regolato nella crisi più pericolose, se avesse potuto farlo con indipendenza di azione. Laonde si ritirava dalle successive piccole pugne con la dignità d’un uomo, che non desiderò giammai per lui medesimo, né giammai lo impiegò pel privato vantaggio.
I suoi concittadini gli diedero la più grande di stima quando, col suffraggio di 45,000 elettori lo proclamarono deputato in nove collegi, ed in altri venne in ballottaggio co’ cittadini più eminenti provincie napolitane ().
Finalmente il cavaliere Ulloa confida nella restaurazione dei principi Italiani spodestati; e noi non vorremmo distruggere cotesta consolante illusione, se i mezzi che i reazionaria adoperano, valessero a giustificare tale speranza. Continuando a cospirare nell’esilio, e ripete le sanguinarie tradizioni del passato, non può Francesco II raggiungere il suo scopo.
Le; orde brigantesche che ora egli spedisce nel Napoletano, come ve le spediva nel 1799, e nel 1806 Ferdinando IV suo bisavo, non valgono a riconquistare un regno perduto col delitto, e con la codardia (). Né col calunniare i nomi più onorevoli, ed onorati del paese, il Presidente del Consiglio dell’ex-re raccomanda bene la sua causa alle simpatie dell’Italia e dell’Europa.
in inglese
NEAPOLITAN LETTERS
By the Maveliere Pietro Cavaliere Ulloa, President of the Council of Ministers of His Majesty the King of the Two Sicilies.
The above is the title of a collection of letters addressed by M. Ulloa to several eminent political men in Europe, and forming the vehicle of his denunciations against men and things as they exist at present. He laments the fate of the Bourbons, of Naples, complains of the manner in which the Kingdom of Italy has been constituted, vituperates the government of Victor Emmanuel II, casts the charge of treason on the Spinelli Cabinet, the last under Francesco II, and highly commends the brigandage, as a proof of loyal feeling in the Southern provinces towards their rightful king. Finally M. Ulloa expresses a lively faith in the future, and in the restoration of the deposed Italian princes.
The author commences with the fall of Gaeta as the first act of the Bourbonian tragedy, whereas it was only the catastrophe; and it is necessary before remarking upon several passages in the work of the President of the Council of Ministers of the ex-King of the Two Sicilies, to re-establish the true chronological order of events as they are recorded in the history.
At the close of the last century the study of Greek and Roman literature was especially cultivated in the Continental dominions of Southern Italy, and thus the people, although under the yoke of a despotic government, were trained to respect free institutions, and to recall with pride that Romans had been their ancestors and Greeks their predecessors.
It followed that the principles of the first French revolution were in no part of Italy received so warmly as in the Neapolitan provinces, and while mistrust and fear rendered the Government daily more ferocious, liberal ideas made rapid progress in proportion to increasing obstacles and perils. Their brief triumph caused in 1799 the proclamation of the republic in Naples, which fell conquered by force and treachery. The patriots, who were in possession of the castle and the city, and might have defended themselves, capitulated on condition that their lives should be spared.
Ferdinand IV, who in 1815 took the title of Ferdinand I, in order to cover the infamy which had branded his name in 1789, broke his most solemn promise, sent to the scaffold many brave and distinguished men, and inundated the wretched country in tears and blood.
In 1806 the same king, panic stricken, fled to Sicily, and the French took possession of the Neapolitan provinces. In the pride of victory, supported by the prestige of the sword of Napoleon I, they imposed on the inhabitants their laws and institutions, their persons and two French kings; yet it cannot- be denied that they accomplished a civilizing mission; the code of Napoleon led to liberty, and although the grave error was committed of neglecting to give the people a free constitution, the government of the French was, with good reason, regretted when it fell.
Ferdinand then found fresh opportunity to display the natural cruelty of his disposition.
The unfortunate king, Joachim Murat, hoping to reconquer the kingdom, landed with a few men at the Pizzo, in Calabria; he was captured, illegally tried, and shot. Had his claim to royalty been denied, at least he was entitled, as a French marshal, to be tried by a council of marshals, and not by an ordinary council of war like that which condemned him. Ferdinand, to be assured of the victim’s identity, ordered the head to be brought to him, and he afterwards kept it in his bed-chamber, in a crystal vase, preserved in spirits of wine. Could Tiberius, Nero, or the most celebrated tyrants of antiquity, have satiated their eyes with a more atrocious spectacle?
The revolutions of 1820 and 1860 succeeded Ferdinand I. His son Francesco I, and Ferdinand II, twice ratified the constitution and were twice perjured, inflicting death, imprisonment or exile on those who had believed in the sincerity of their concessions. M. Ulloa approves the sentences pronounced at these mock political trials by executioners in the garb of magistrates, and he has published a book tor the express purpose of justifying them.
From 1820 to 1860 the Bourbon Government continued its career, despotic, diffident, sanguinary, corrupt and corrupting. In the administration of the state, and especially of the army on land and sea, a system was introduced by which superiors and inferiors became spies upon each other. The religious orders were spies over he conscience of the citizens, whom they denounced to the authorities with which they were in league, and the Jesuits, conspicuous in this work, with impious hypocrisy abused the name of religion the better to oppress the state; by this course the Government sunk to the position of a party, at war against all social progress and against all jnen who possessed probity and capacity in the country.
This was the state of affairs when Ferdinand II died, leaving his memory to execration, and the hope of a better future under the new reign—a hope withered by the first words of Francesco II.; in his governmental programme the latter declared that his father’s acts were holy, and that he was not equal to follow the paternal example. On that day Francesco II. signed the ruin of the dynasty; his subsequent promise of the statute, and the restoration of the violated constitution of 1848, was received by the people with indifference and contempt.
Throughout the long and melancholy period to which we have briefly referred, the moral revolution in the meridional provinces was carried through and accomplished. Passing from thought to action, it found Vent in the heroic outburst at Palermo, became personified in Garibaldi, received from him its direction, “Italy united under the constitutional sceptre of Victor Emmanuel and, as if by enchantment, overturned in a few weeks the ancient dynasty of Charles III. The Bourbon dynasty did not fall, as Ulloa represents, by the work of secret societies, conspiracies or treason, but by the accumulated crimes of sixty years, when all its allies, its friends, the army on land and sea, the entire population under its sway, abandoned it as if they had been one man, and, aided by the rest of Italy, the final victory in the Southern provinces was achieved by the incomparable boldness of Garibaldi and his thousand.
We would neither dissimulate nor excuse the faults of the Italian Government, magnified and distorted by M. Ulloa. All the Italian cabinets, from the time of Cavour, have humiliated, misgoverned and aided to demoralize Italy. They have been marked by party spirit and by narrow and interested motives rather than by enlightened patriotism. But the errors of individuals, in part to be attributed to the schools of the revolution, will not prevent Italy from accomplishing her high destiny. The men who have not known how to govern or respect her, will fall never to rise again in public opinion, or they will pass with time; the institutions, based on liberty and justice, will endure and elevate the kingdom to its true greatness.
The profoundly immoral and demoralizing principles which were at the foundation of the Bourbon government, neither are, nor ever can be, possible under the present rule. This consideration is sufficient to point out the radical difference between the two governments. M. Ulloa makes three statements to the prejudice of the Italian Government. First he accuses it of flagrant violation of the principle of non-intervention. Next, he asserts that the brigandage, which openly fights and conquers the Italian troops, is but a demonstration of the hatred of the population to that Government; and finally, he affirms that the Plebiscite, the vote of the people to which it owes its authority, was nothing more than the work of violence and intrigue.
On the first count, M. Ulloa probably forgets that in the diplomatic conferences between the Bourbonian Government, the Emperor Napoleon III and the other powers, from which the former demanded protection, it was discussed and agreed that the question of non-intervention could not apply to Piedmont, that State not being foreign in reference to the Italian question.
The brigandage, it is well known, organized by Francesco II, and blessed by the Pope, favoured or tolerated by Napoleon III, is a scourge that has fallen upon the Neapolitan provinces, spreading devastation and death; it is a demonstration of all that is most vile, ignominious and contrary to the rights of men, and by no means a spontaneous expression of the people’s regret for their king.
On the third point, no one but M. Ulloa doubts that the Plebiscite was the free and sincere expression of the will of the people, Legally empowered to chose in the plentitude of itsrig hts, between the dynasty of the Bourbons, under which for sixty years it had suffered every abuse of arbitrary rule, and that of Victor Emmanuel, constitutional king of Italy, it elected the latter without hesitation.
M. Ulloa charges the Spinelli Ministry with treason, and implicates in this crime the Minister of the Interior and of Police, Liberio Romano. The Spinelli Cabinet was installed on the 25th of June, I860, and Romano entered it on the 14th of the following July. Before the first of these dates Sicily was irreparably lost, but M. Ulloa brings no accusation on that account against the preceding Ministry, acknowledged to have been as faithful to Francesco II as it had been to Ferdinand.
M. Ulloa states his belief, that with greater energy the revolution might have been arrested, but adds, that even Ferdinand II could only have adjourned, not avoided the crisis. This confession of the inevitable character of the catastrophe destroys the charge of want of energy or of treason on the part of the Spinelli Ministry. Alas, the true betrayers of the dynasty were as many as there are sovereigns in Europe; its allies and friends, as many as there were inhabitants in the Two Sicilies; M. Ulloa himself thus writes:— “But more astonishing than all was the utter abandonment of Europe, which left the monarchy opposed to the tempest that menaced its overthrow, until it beheld the throne borne away by the vast torrent.”
And, again:— “The kingdom of Naples was destined to present the extraordinary spectacle of a nation tolerating invasion and insurrection at the very moment its king had accorded liberty, perhaps in a measure too extensive.”
Such admissions are sufficient to convince the unprejudiced that no Ministry in the world could have saved a dynasty already sinking under the weight of its own crimes, and condemned by civilized Europe as “The negation of God established as system.” Notwithstanding the adverse state of things on its accession to power, the 8pinelli Ministry performed its duty in the interest of the dynasty. It preserved order in the country, insisted on the league with Piedmont, and counselled measures of defence when Garibaldi was in Sicily, when he disembarked on the continent, and when he reached the plains of Salerno, and for this purpose concerted the means necessary for the subsistence of three bodies of troops, besides those in Sicily; one to be stationed in Calabria, one at Salerno, and the third in Naples. But the indecision and mistrust of the King, the broken discipline of the army, the opinion of the generals, who declared useless any attempt at resistance, neutralized the councils for defence. The league with Piedmont failed because that Power had no will towards it, and it was opposed to the revolution then raging throughout Italy. Thus the responsibility of circumstances altogether beyond its control cannot be laid to the charge of the Spinelli Ministry.
The particular fault attributed to Liberio Romano is, that he accepted office under Garibaldi, after having been Minister of Francesco II.; a proof, according to M. Ulloa, that he had previously, and while in the service of the King, held correspondence with the rebel chieftain. The personal animosity which has induced M. Ulloa to revive against Romano a calumny, first spread by the Bourbonists and his political enemies, and perfectly refuted, arose from the perseverance of the latter in detecting and defeating the re-actionist conspiracies, constantly originating in the palace, under M. Ulloa’s inspiration, and it was increased by another motive, equally personal.
M. Ulloa has changed three times his political faith; he has been in turn a fierce Republican, an ardent Constitutionalist, and a blind devotee to absolute power. The Bourbons accepted his services and named him councillor of the Court of Cassation in Naples—the highest dignity in the magistracy.
On Garibaldi’s arrival he was informed of these precedents, and also that M. Ulloa had followed Francesco II. to Gaeta. Consequently, on his own judgment, and by a decree bearing his signature only, on the 17th September, 1860, he dismissed him from office, stating that he had done so “in deference to public opinion.” For this humiliation M. Ulloa sought to take vengeance on Romano, then member of the first cabinet under the dictatorship of Garibaldi in Naples.
We do not trouble our readers with a review of M. Ulloa’s work on account of its intrinsic merits, nor because he presents before Europe the plea of a fallen government already judged. Nor do we cite the names of individuals mentioned by him for the sake of their justification or otherwise; but the period to which these letters refer is one of high historic importance.
Italy would not have been Italy, nor the dynasty of Savoy Italian, had not Naples given itself to Piedmont, accomplishing in a moment of universal enthusiasm an act that has been little understood, at the price of sacrifices but little appreciated. Future generations will admire and wonder at the marvellous events of this epoch. Two kingdoms, forming the larger half of the peninsula, and comprising the rich provinces of the South, whose exquisite beauty tempted Greeks from the land of their gods, soldiers from the field, statesmen from their councils, and emperors to lap themselves in a luxury of sense unknown to other climates. These two kingdoms voluntarily descended from their rank as an independent state to become provinces of a nation existing only in idea, until their act confirmed it a reality; yielding up their crowns without bond or promise to the direction of a lesser Power, which, materially, had all to gain, while they had all to lose. There must have been then called forth a powerful moral force, self-abnegation, devotedness to the common cause, an immense trust in the future, —but beside the elevation of the idea was the magnitude of its execution. They who effected this, who wrought from the impulse of an hour a work that will endure for ages, are the figures history will separate from the mass, and place in that light of hers which renders every object clearer and grander in the distance.
Amongst the most remarkable of these figures will be that of Liberio Romano. In a position of great personal risk, harassed and fettered by circumstances in his course of action, he stood like a pilot on a leaking ship, and with rare skill and rarer courage, rounded the point on which the general safety depended. The great change that overturned a dynasty, and transferred a kingdom, passed without the slightest disturbance of public order, without the shedding of a drop of blood in Naples, without the springing of one of the many mines of the re-action which was to have been the signal for sack and plunder, fire and the sword. In the moment of supreme peril, Liberio Romano was what the people still call him, the saviour of his country.
Romano had been imposed upon Francesco II, as his minister, by the revolution; or rather, Francesco, menaced by the revolution, had recourse to Romand, hoping to be sustained by the credit of a name whose popularity had been gained by life-long adherence to the liberal cause. Romano served the King as constitutional minister from July 14 to September 6, 1860; he twice tendered his resignation, which was accepted, but he remained in power, because it was impossible to form another ministry.
At half-past six on the afternoon of the 7th of September, 1860, Garibaldi sent a telegram from Salerno to Romano, addressing him by his previous title -of Minister of the Interior, and announcing that he should leave for Naples as soon as the Syndic and Commander of the National Guard reached Salerno. In the mean time he committed to Romano the care of maintaining order and tranquillity.
Romano could not have refused with honour to obey the command of Garibaldi, nor abandoned to chance the safety of the country which had hitherto absorbed his thoughts.
On the arrival at 8alerno of the Prince of Alexandria, Syndic of Naples, and of General Sanget, Commander-in-Chief of the National Guard, Garibaldi consulted them upon the manner of his entry into Naples, and inquired who was the most popular man in the country; he was answered, Liberio Romano.
When Garibaldi arrived, Romano, as it was his duty to render an account of the state of affairs confided to his direction, met the Dictator at the railway station, and afterwards accompanied him to the Cathedral, where he returned thanks to God for the success which had crowned his undertaking.
On their return from the church, Garibaldi invited Romano to sit beside him in the carriage, on the way to his appointed residence. The applause of the people redoubled, and their voices mingled the name of Romano with that of Garibaldi, who, turning towards him, said, “I congratulate you on your popularity; you must continue to serve the country.” He made no reply to the proposition, which, at the Villa Angri, Garibaldi renewed. Romano still hesitated, doubtful whether, as a former minister of the King’s, he ought to accept; or whether, as a good citizen, he ought to refuse this offer.
His political friends rallied round him, representing that no one was so well qualified by knowledge of the condition of the country, to co-operate with the Dictator in forming a good government; and that Garibaldi’s generous nature might be over-influenced by a party whose excess of patriotic ardour endangered plunging him into rash attempts that would be ruinous to the hopes of Italy.
They also argued, that history famishes examples of ministers who have served successive dynasties without leaving a stain upon their reputation.
Induced by these arguments, and swayed by the ascendancy possessed by Garibaldi over the minds of those who love their country, Romano, putting aside all personal considerations, consented to retain office.
However, his tenure of power was not long; confirmed in the office of Minister of the Interior and of Police by a decree signed September 7, 1860; on the 10th, only three days later, Romano and his colleagues sent in their resignation, alleging as their motive the extravagances of the secretary’s office, which were plunging the country into a state of anarchy. This resignation, which the Dictator then refused to accept, was renewed on the 22nd of September with more exact details in support of the previous reasons; and, finally, on the 25th of the same month, Bomano, holding himself as dismissed, laid before Garibaldi the fullest statement of the manner in which the Neapolitan provinces were governed from the secretary’s office whilst he was occupied by the war on the Volturno. These three documents, published in the journal of the period, amongst others in the Nationals of the 4th of October, prove sufficiently the rectitude of Romano’s views and conduct during the fourteen days he held power under the dictatorship.
The calumnies invented on this occasion, and more, the necessity for vindicating the right of the Minister of the late kingdom to accept office, under a new order of things, arose from the confusion of ideas existing in a country not habituated to distinguish the difference between a minister of state under a constitutional government, and the minister of an absolute king: the latter professes allegiance to his master only, but the first is responsible to the country, and is not incapacitated from serving her, even after the removal of a sovereign, condemned for treason against that higher sovereignty of the national laws and constitution, which it is the duty of the minister to respect and maintain. It was for having otherwise construed this duty that in England Lord Stafford lost his head.
Romano, when made, by circumstances rather than by his own will, the minister of Francesco II, had before him a hard and complicated task; he had to suppress the anti-constitutional tendencies of the royal house and at the same time to hold the revolution within its legal bounds. There existed two committees in Naples, the committee of action and the committee of order, the one led by the inspiration of Garibaldi, the other by Cavour. Romano respected the right of association and of individual liberty, but with even-handed justice prevented the committee of Garibaldi from sending arms and ammunition into Sicily, and the committee of Cavour from disturbing by its agitation the public peace.
It would not have been possible for Romano to betray the dynasty had he wished, without the compliance of the other Ministers, who had long served it and were sincerely devoted to the King; but Sicily was already lost, the dynasty already dead, there remained only the care of preserving the tranquillity of the country; and Naples recalls with gratitude that Romano saved her from the pillage of the lazzaroni and from civil war.
M. Ulloa, the ally of the reaction and of the conspiracies originating in the Palace, affects to deny their existence, and to discredit the name of Romano, who was continually occupied in detecting and suppressing these dangerous intrigues.
“Romano,” he writes, “perpetually terrified the Council and the Republic with the phantom of re-action, and adopted energetic measures to arrest every movement on the part of the Royalists, whilst remaining blind to the dark labour of the revolution. In the night he had interviews with the committees, with Alexander Dumas, the emissary of the revolution, with the Admiral Persano, and all the returned emigrants, and, more important still, with the military.”
The revolution was then indeed proceeding, but openly, and not in darkness, nor was there any means of arresting its course; Romano, placed between opposing currents, which threatened in different directions to overwhelm the country with anarchy and bloodshed, had, on one side to stem the force of the revolutionary torrent, on the other to destroy the plots of the Bourbonists, aiming to overturn the constitution, to which the reigning house was bound to conform. It was not an easy task to clear the way through the network of intrigues of different parties, and to be able to effect this Romano sought information by every means in his power. Either in the ministerial chamber or in his own house, he conversed with men of all political shades and gradations, but he conspired with none. His colleagues bear witness that whenever he thought expedient to grant an interview to suspected persons, he first consulted the King, and afterwards communicated to him and to the Council of Ministers whatever knowledge he had obtained calculated to throw light upon the state of public feeling and render better understood the exigencies of the time.
One or two circumstances mentioned by M. Ulloa will afford the best illustration of the true character of these plots, emanating from the place against the constitution the King had sworn to maintain. We are under the necessity of supplying various details, omitted or misrepresented by the author.
“A Frenchman of exalted imagination,” writes M. Ulloa, M. De Sauclières, published a counsel to the King, in which he exhorted him to adopt the most energetic measures against the revolution. The Minister of Police, Liberio Romano, availed himself of this unimportant circumstance —exaggerated with his usual talent—to increase the alarm of the country.”
This shadow, according to M. Ulloa, belonged, however, to a substance of sufficient weight to collect around it all the fearful elements of a civil war, averted only by the bold and vigorous action of Liberio Romano.
On the 15th of July, the day following his nomination as Minister of the Interior and Police, detachments of the Royal Guard were scouring the different quarters of the city and the neighbouring villages at the same hour, attacking and wounding mortally the unarmed and peaceful inhabitants. It was the outbreak of a conspiracy in connection with the clubs which assembled in the royal apartment of Count Trapani, constituted chiefly by the Camarilla, the Chevalier Ulloa, and General Catrofiano.
Romano, aware of the origin of this attempt at re-action, denounced it to the King, and demanded the punishment of the guilty persons. This demand indeed remained without effect, but at least the military re-action hid its diminished head and re-appeared no more.
But in the interior of the palace the enemies of the constitution, the truest enemies of the doomed King, continued active.
The conspiracy of the Count di Aquila so seriously compromised the interests of the country and the rights of the sovereign, that the Council of Ministers unanimously pronounced the decree of banishment against the royal prince, which, approved by the King, was executed on the 14th of August, 1860, and recorded in the constitutional journal of Naples of that date.
De Sanchdres did not limit his devotion to the printing of a simple piece of advice to the King, as M. Ulloa asserts: he was the agent of an extended conspiracy, also concocted in the club of Count Trapani.
An incendiary placard, headed Appeal for the Public Salvation, appeared on the walls of the city, and was liberally distributed, especially amongst the troops, inciting the people to revolt in support of the King, betrayed by his Ministers, and of religion, as well as the monarchy, threatened with destruction.
Eight thousand copies of these placards were found at the printing-office of Ferranti, Largo di St. Anna di Palazzo, and in the private house of De Sauclières were discovered 2,000 more, and a pamphlet, called Naples et les Joumaux Revolutionaires, addressed to the Neapolitan consuls abroad. A letter found on the same occasion, written, but not sent, to a monk in Rome, furnished evidence that De Sanch&res was employed by a royal prince, Count di Trapani, for the purpose of corresponding with several French journals. It contained the following extract:
— I believe the King will succeed in surmounting the difficulties which expose him daily to imminent peril, but not without effusion of blood. The troops are faithful and animated against Garibaldi; they desire a terrible St. Bartholomew. If God helps us, many victims must perish, and the event may happen in a few days.”
These and other facts were brought forward at the trial of De Sauclières, which might have been the occasion of many important revolutions had it been pursued; but Garibaldi granted an amnesty for all political offenders, by which the French Legitimist profited to return unpunished to his own country.
M. Ulloa reproaches the Spinelli Ministry with having abandoned the King in his hour of need; but why did he, the type of loyalty, refuse to form an administration on the 21st of August, when holding at his disposition the forces of the dynasty, which were at least a hundred times superior to those of Garibaldi’s? Because the feeling and condition of the public mind, both externally and internally, rendered it impossible, and the last hope of the Royalists was that Garibaldi might be sepulchred under a torrent of fire at Gaeta, and the King return to Naples, preceded by the scaffold and the reign of terror.
Romano, in a document which is now historical, had placed before the King, on his own responsibility, and signed by his own name only, a clear and bold statement of the real position of affairs. He pointed out to him the bitter truths to which kings listen only when it is too late, showing how by a long system of misgovernment the foundations of the throne had been sapped before Francesco II came to mount it, and conjuring him in strong and noble words not to drench in blood the last record of his ancient dynasty.
The duty of the Minister was accomplished. The King withdrew to Gaeta, and Romano resumed his liberty as a free citizen, to serve the cause to which his whole life had been devoted; he had paid to it in his youth the tribute of exile and imprisonment; he had upheld it as Minister of Francesco II at the daily and nightly risk of assassination, openly threatened and actually attempted by his enemies of the re-action; and he would still have laboured under the new government for the country he had guided through its most perilous crisis, had he not found himself enclosed in an arena which gave no scope for independent action. He withdrew from the struggle with the dignity of a man who had never coveted power for its own sake, nor employed it for his own advantage.
The esteem of his countrymen was expressed by the votes of 45,000 electors, which proclaimed him deputy in nine electoral colleges, whilst in many others he was balloted beside the most eminent citizens of the Neapolitan provinces.
M. Ulloa expresses his firm confidence in the restoration of the deposed Italian princes. We would not dispel the consolatory illusion, but the present means adopted by their partisans is far from justifying the forlorn hope. It is not by continuing in exile the plots of the re-action, and repeating the sanguinary traditions of the past; it is not by aiding* Francesco II to send from Rome in 1865, as Ferdinand IV sent from Sicily in 1799 and 1806, his brigand hordes, in the vain attempt to recover a crown which crime and cowardice have lost; nor is it by calumniating the most honoured and honorable names in the country, that the President of the Council of the ex-King will commend his cause to the sympathy of Italy and of Europe.
* M. Michel di Sangro, Duke of Casacalenda, on the 25th of June, 1863, writing from Zurich to Ulloa, deplores the impoverishment of Francesco’s fortune by the expenses of the brigandage, and the choice of foreigners to conduct it.—(Popolo d’Italia, 12th August, 1861.)
fonte
Che tristezza! Se e’ cosi’ facile denigrare la propria patria vivendo altrove vuol dire che non l’ha mai sentita sua e non la conosce veramente nel profondo: non la ama e non la merita.. a Londra sta sicuramente meglio!… caterina ossi