Liberali sabaudi contro i sostenitori dell’indipendenza napolitana e della dinastia borbonica come i partiti nazionali punisti contro i separatisti siciliani (II)
Per il popolo napolitano chi erano veramente i stranieri? I Savoia o i Borbone? Saranno i primi ma l’élite filo-padana li costringono a credere alle favolette unitarie. In un momento in cui spunta all’improvviso la verità accade il contrario, deludendo tutti i coloro che sono intenti a ricercarla per continuare a dimostrare il possesso del proprio amore verso il popolo di appartenenza.
Solo i napolitani subirono tale ingiustizia praticata maggiormente dall’opinione pubblica italo-padana, dal giornalismo denigratorio e dal governo razzista? Naturalmente non furono gli unici a essere soggetti di quel crimine di fatto impunito dal diritto internazionale, poiché a loro fianco c’entrano pure tutti i popoli preunitari che dovettero farsi sottomettere alla propaganda filo-padana ma non si sentono soli grazie con le sue associazioni sociali e con i suoi legittimi movimenti politici identitari, tra cui i siciliani. La Sicilia, come nel resto dell’insorgenza napolitana, era centro di numerose rivolte che assunsero i caratteri sociali e nazionalistici, come i Vespri del 1282, in cui gli abitanti isolani cacciavano gli Angioini dall’isola per costituire un nuovo Regno indipendente, affidando la nuova corona a Pietro III di Aragona, che vivrà per 134 anni in seguito alla rinuncia della corona isolana da parte della regina Bianca che accettò il titolo regio di Navarra, nonostante che i baroni isolani non fecero nulla per salvare l’indipendenza dell’isola. Successivamente la sua sottomissione vicereale avrà termine con l’incoronazione di Carlo III di Borbone a Palermo ma proclamerà Napoli la capitale di un nuovo Stato napolitano con la piena indipendenza, determinando un’illusione al baronaggio isolano. Dopo anni di vendette e di atti del disordine fomentati dai baroni per riavere i suoi privilegi socio-economici e parlamentari, sarebbe stato facile per l’isola finire nel progetto protettorale degli inglesi, anch’essi intenti a proteggere le sue terre. Ma nella Sicilia prima filo-baronale e poi duosiciliana con la garanzia della sicurezza nelle strade pubbliche e private, con l’istituzione del porto franco di Messina, con la non applicazione della leva militare, con la diminuzione delle poche tasse, con l’istituzione di due organi che dettero un impronta autonomista nel sistema amministrativo delle Due Sicilie (i quali furono il Ministero per gli Affari di Sicilia nel 1821 e Il Ministro Segretario di Stato per la Sicilia e i ripartimenti ministeriali nel 1833) e con la fondazione delle industrie tessili o di diversa materia si può notare che l’isola era interamente autonoma nell’ambito politico ed economico. Quel che è certo è la violazione della pace sociale e pubblica da parte delle forze baronali, aiutati dalla massoneria e dalla diplomazia britannica, che istituirono i brevi e dittatoriali governi nel 1820 e nel 1848 ma ebbero la fortuna di riprendere i suoi privilegi tolti dai Borbone solo nel 1860 e vengono ereditati dai politici razzisti e dai mafiosi nella attualità. Nei suoi confronti non mancava assolutamente il dissenso del popolo siciliano che non voleva subire altre ingiustizie sia dai baroni stessi sia dai piemontesi. Nella fase di ribellione i siciliani, a differenza dei napolitani, non misero in atto le reazioni antiunitarie ma inscenavano dei veri scontri a fuoco contro le truppe piemontesi, assieme alla popolazione civile e alle bande di soldati sbandati e renitenti di leva. Il 16 e il 22 settembre 1866 riuscirono a far scoppiare una rivolta non identica a quella baronale del 1860, perché a Palermo la popolazione fu partecipe per convinzione e non fu nemmeno costretta a prenderne parte. Inoltre i siciliani palermitani furono sostenuti da pochi borghesi e nobili pentiti, di idee repubblicane e borboniche ma sposarono la causa indipendentista, che costituirono un nuovo Comitato rivoluzionario a fianco del popolo isolano. La rivolta indipendentista si verificò solamente nella provincia di Palermo ma si tentò inutilmente a diffonderla in tutti i comuni siciliani per l’intervento delle truppe piemontesi guidati da Raffaele Cadorna, informati dell’evento accaduto, che pongono fine la rivolta con un bombardamento sanguinario alla genovese del 1849 e alla americana del 1943 e con le feroci repressioni che i Borbone non li commisero sui fedeli del governo filo-baronale durante la liberazione dell’isola nel maggio del 1849. Dalla rivolta dei sette e mezzo vorrei discutere sui fatti del 1943 legati ad un nuovo sentimento di ribellione dei siciliani che riprenderà l’indipendentismo isolano. Nel settembre del 1942 il liberale sicilianista Andrea Finocchiaro Aprile fondò il Comitato per l’Indipendenza della Sicilia con lo scopo di autoproclamare la Sicilia come Nazione indipendente e libera da ogni forma di dominazione straniera, tra cui l’Italia padana. All’interno del gruppo politico-culturale facevano parte Antonio Canepa, professore universitario di Catania e politico socialista, Attilio Castrogiovanni, proprietario terriero, Concetto Gallo, fervente nazionalista siciliano, e Antonino Varvaro, di posizioni progressiste. Il CIS non ebbe in tempo di evolversi per la presenza della dittatura fascista finché sarà fondato il Movimento per l’Indipendenza della Sicilia. Assieme ai politici indicati c’era Lucio Tasca Bordonaro, un barone dell’ala destra dell’indipendentismo ma rimase complice di aver favorito l’intromissione della mafia nel movimento separatista. Dopo lo sbarco dei soldati anglo-americani nell’isola, in Sicilia si iniziò a scrivere un racconto storico identico ad un romanzo, dove in effetti il separatismo sembra ad essere il protagonista del malcontento popolare mentre i partiti nazionali nascenti che i lettori forse li conoscono e li voglio citare mediante la seguente parentesi (Democrazia Cristiana, Partito Comunista Italiano e Partito Liberale Italiano) sono i veri antagonisti del popolo siciliano in quanto avevano ripreso non solo la Trattativa Stato-Mafia “interrotta” negli anni venti e trenta con le operazioni poliziesche di Cesare Mori ma l’ingiustificato razzismo unitario che perseguitava i napolitani, i sardi e i siciliani. Proprio con quest’ultimi che i partiti del razzismo unitario cominciano ad apparire nella scena pubblica come i suoi nemici per un fatto storico che coinvolse l’isola: la rivolta del nun si parti. L’anno dell’evento storico si riferisce alla “campagna di liberazione d’Italia” e per tale motivo che la storiografia ufficiale non ha avuto il tempo o il coraggio di inserirlo sui libri di storia, come la Regione di statuto speciale che non ha dedicato nessun monumento ai cittadini promotori e partecipi della rivolta popolare. Tutto cominciò il 14 dicembre 1944 quando a Catania un gruppo di giovani, di estradizione popolare, manifestavano davanti al Municipio e, dopo che i militari intervenuti hanno cominciato a sparare nei suoi confronti, lo assaltano per distruggere documenti che inflissero gravi condizioni ai siciliani catanesi, tra cui quello dell’imposizione della leva militare per ordine decretale di Alessandro Casati, Ministro della Guerra. La motivazione principale di tale tensione si lega all’obbligo dei giovani siciliani di presentarsi ai Distretti militari per arruolarsi nell’esercito italo-padano per fronteggiare i tedeschi posizionati nelle Alpi, senza che il Casati comprendesse le reali condizioni dei primi. Oltre a tale antica ingiustizia, i catanesi si sono ribellati in risposta alla Strage del pane avvenuta il 14 ottobre a Palermo con l’uccisione di 24 persone. I siciliani, inizialmente speranzosi di ottenere dal nuovo governo i possibili benefici necessari per migliorare le proprie vite e il proprio lavoro, si sentivano presi in giro per l’ennesima volta, come sempre, e si oppongono al CLN prendendo esempio della protesta dei picciotti catanesi. Niscemi, Barrafranca, Erice, Termine Imerese, Capo d’Orlando, Villalba, Calascibetta, Palazzolo Acreide, Aidone, Comiso e Piana degli Albanesi furono le principali città artefici del nun si parti e favorirono la partecipazione maggioritaria della popolazione civile, affiancata dagli attivisti e dai politici separatisti dopo l’abbandono volontario dei partiti filo-padani per la non condivisione dei loro ideali. Separatisti e abitanti locali assaltarono i municipi e le caserme e resistettero ai duri interventi delle forze dell’ordine, subendo le ulteriori perdite con morti e feriti. A Comiso e a Piana degli Albanesi si costituivano le brevi repubbliche con la pratica di attività di volontariato attraverso la distribuzione dei viveri senza imporre un determinato prezzo. Purtroppo anche in questi due comuni avvenne la resa imposta dall’esercito italo-padano che eseguì arresti ingiusti verso un popolo che non si arrendeva per amore della sua terra. Il nun si parti stava raggiungendo la sua fine, tranne il separatismo che serpeggiava nei cuori dei picciotti isolani ma riceveva repressioni, critiche e tentativi di corruzione da parte di Cosa Nostra. Prima di voler parlare delle intenzioni della mafia isolana, vi voglio citare le seguenti critiche dei partiti del razzismo unitario nei confronti del separatismo dei picciotti siciliani che vanno al di là della realtà dell’isola per adattarsi al meglio alla denigrazione, in eredità dei predecessori politici servi dei Savoia. In particolare prendo spunto ai discorsi di Giuseppe Alessi, esponente della DC, e Emanuele Macaluso, esponente del PCI, intervistati dal video documentario “50 anni fa la fine di un sogno”, in cui entrambi fecero dichiarazioni al quanto irrealistiche che tentavano di far dimenticare ai siciliani il sentimento dell’indipendenza. Il senatore Alessi prese parte a una nuova riunione del suo partito indetto il 16 dicembre 1943 per discutere sulla collaborazione del MIS di Finocchiaro Aprile. Alessi si dichiarò contrario alla concessione dell’indipendenza al popolo siciliano, dicendo: “La Nazione è una, italiana. Noi siamo italiani di Sicilia, come ci sono gli italiani della Lombardia, gli italiani del Veneto e della Sardegna. La Nazione è unica”. Inoltre affermava che era stato un antifascista, rischiando di andare in galera durante il regime di Mussolini, ma faceva parte di un partito che favorì gli interessi delle regioni padane. Anche Canepa era stato un antifascista ma se si rese conto che la Sicilia si doveva liberare dai sorprusi inflitti dall’Italia padana, perché Alessi non fece questa scelta concreta? La stessa domanda riguarda pure a Macaluso, il quale criticò il separatismo con poche considerazioni positivi e più quelli negativi: “il separatismo ebbe due facce, due volti. Un moto popolare che raccoglieva il malcontento contro il vecchio Stato monarchico, fascista e accentratore che aveva sacrificato la Sicilia. Un altro volto che era quello dei grandi agrari del vecchio personale politico, tipo Finocchiaro Aprile, e anche di una parte ben consistente della mafia, i quali temevano che con la fine della Resistenza ci sarebbe stata la riforma agraria, quindi volevano separare la Sicilia. Non a caso, il primo sindaco di Palermo fu Lucio Tasca, che era un separatista, ma era il Presidente degli agrari siciliani. D’Altro canto, il Partito Comunista in quegli anni era impegnato invece contro il movimento separatista che lo considerava, nella sua struttura fondamentale, invece, non solo una forza eversiva che voleva spezzare l’Unità d’Italia, ma una forza reazionaria perché voleva conservare la vecchia feudalità”. Interessante e poco convincente, ma Macaluso non sa che il suo partito aveva rivolto accuse diffamatorie verso gli insorti del nun si parti bollando la sua rivolta come “fascista” o “rigurgito di fascismo”, chiedendo al governo nascente di punirli con massimo rigore come traditori della Patria in armi. Ma scusa, avvolte si autonominano “amici del popolo”, come lo fanno tutti i partiti del razzismo unitario, e poi vorrebbero pretendere il rispetto ad uno Stato che non appartiene ad un popolo che possiede le tradizioni diversi dagli altri, in nome della sua unica ideologia politica e dell’idea di unità mai desiderata. Ora passiamo su cosa pensava la mafia per il separatismo. Nel 1838 il procuratore del Re Pietro Calà Ulloa affermava che essa come unione o fratellanza non aveva scopi politici ma in quegli anni stava collaborando con i baroni desiderosi di riavere i suoi privilegi attraverso la folle idea di riprendersi l’indipendenza. Agli inizi del 1943 tentava di collaborare con il movimento separatista per esercitare il suo potere criminale nelle istituzioni, come avrebbe fatto Liborio Romano nel concedere tale ruolo ai camorristi di De Crescenzo prima e dopo l’ingresso del generale-ladro Garibaldi a Napoli, ma visto l’alleanza di tutte le forze politiche identitarie e il popolo siciliano per il sostegno dell’indipendentismo isolano, presero le distanze per il timore che la Sicilia venisse governata dagli stessi siciliani, senza concedere ai mafiosi uno spazio per dominare l’isola assieme ai baroni agrari. Identico pensiero è presente nell’ideale indipendentista del marxista napolitano Nicola Zitara ma solo dal punto di vista economico e finanziario. In seguito all’uccisione di Canepa del 17 giugno 1945 ad opera dello Stato, la Mafia pretendeva alla destra agraria di ottenere qualcosa in più ma fu inutile. Così la criminalità siciliana si allontana dal movimento separatista per mantenere i vecchi rapporti con i partiti nazionali e con lo Stato razzista fino ad oggi. Salvatore Giuliano fu l’unico siciliano a portare avanti la sua banda armata pur non di tradire il suo popolo, finendo nelle mire delle forze coloniali sabaudi e dei mafiosi. Ben presto lo Stato e la mafia siciliana gli decretano la sua morte, avvenuta il 5 luglio 1950 nel letto di da un gruppo di 6 uomini vestiti in borghese armati che lo portarono nel cortine da morto per occultare le prove dell’omicidio compiuto. Intanto la storiografia ufficiale lo diffama con disgrazia per essere il responsabile dell’uccisione dei contadini a Portella della Ginestra il 1° maggio del 1947, mentre a ucciderli furono alcuni uomini dei servizi segreti americani e della Decima Mas di Julio Valerio Borghese per fare un favore all’ambiente politico filo-padano, in particolare a Mario Scelba e a Bernardo Mattarella, per impedire la lotta contadina. Il bello è che a denigrarlo non lo fanno solamente i partiti del razzismo unitario ma anche le associazioni antimafia che, in verità, dovrebbero avere una buona coscienza da che parte stare. Ne ho il timore che gli “eroi della legalità” avrebbero offeso uno dei ideali presenti nelle anime dei siciliani e facente parte delle sue tradizioni, cercando di capovolgere pure la realtà isolana (per es. una parte del sito di Centro Impastato intitolato “Banditismo in Sicilia”: I moti antileva avevano una base popolare, ci fu la strumentalizzazione dei separatisti.). Invece hanno paragonato il separatismo siciliano con la mafia perché fanno credere ai siciliani che i grandi agrari furono gli unici padroni dell’ideologia e convinsero agli abitanti isolani di avvicinarsi a tale causa politica grazie ai boss mafiosi. Chissà come avrebbero reagito gli indipendentisti siciliani per l’affermazione del genere!! Sono falsità irrealistiche, condividendo le affermazioni spontanee del popolo siciliano e delle sue forze politiche legittime (non i partiti del razzismo unitario) che il separatismo fu voluto per volontà dei picciotti per non accettare mai più tutte le ingiustizie dei piemontesi che attualmente li stanno subendo ripetutamente. La mafia isolana non era totalmente presente né nella rivolta dei sette e mezzo del 1866 né nella guerra d’indipendenza del 1944-50, benché essa chiedeva sempre aiuto allo Stato filo-padano per impedire al separatismo isolano di dare origine una ribellione popolare. I mafiosi “onesti” non ne voleva sapere più sul movimento separatista ma verso gli anni Novanta si avvicinò al falso regionalismo condotto dai suoi fedeli politici e dai sciovinisti padani della Lega. Se i partiti e le associazioni antimafia hanno denigrato il separatismo siciliano con l’unico riferimento all’organizzazione criminale isolana, al contrario i primi cercano di usare le figure del patriota “brigante” per infangare il passato morale e i primati del popolo duosiciliano. Nell’area liberale e nazionalista “italiana” lo considera un assassino e ladro e che andrebbe emarginato dalla Nazione, mentre nell’area socialista e progressista è una povera vittima delle ingiustizie sociali subite dalle classi dominanti prima sotto i Borbone e poi con i Savoia. Anche queste affermazioni ideologiche, rifacendomi al discorso di Macaluso, sono false ma rientrano nella campagna di denigrazione giornalistico-culturale sulla storia della Nazione Napolitana perché le riforme dei sovrani borbonici furono utili per aver affrontato la questione delle terre combattendo il reato di usurpazione commesso dalla grande proprietà terriera napolitana e dal baronaggio isolano. In tutto questo l’Italia negò la convivenza tra i popoli preunitari instaurata dalla religione cattolica prima della guerra di conquista e permise ai vincitori di strappargli le fortune per conferire più diritti ai suoi “fratelli” (élite politico-economiche e usurpatori dei beni) e meno diritti ai suoi “traditori” (monarchi, popolo e pochi intellettuali illuminati), ma tanto la bugia prevale sulla verità e gli insegnanti spingono ai ragazzi e ai giovani napolitani e siciliani a conoscere e a rispettare la causa nazionale inesistente. Questa non è Nazione, ma penisola geografica. Se i meridionalisti e gli indipendentisti napolitani vorrebbero di fatto amare il suo popolo di appartenenza rispettando obiettivamente le sue tradizioni morali e dando un significato al diritto di autodeterminazione auspicato dalla Carta dell’ONU, sarebbe meglio che evitano di fare i nuovi accordi con i partiti del razzismo unitario e con certi signori potenti legati alla stessa ideologia statale e alla mafia tutelata.
I membri e i leader delle associazioni antimafia dicono che “lo Stato siamo noi” e poi consiglia ai napolitani e ai siciliani di affidarsi a lui. Io spero che loro sanno l’impazienza delle famiglie delle vittime uccise alla ricerca della giustizia mai realizzata e cominciate a dire come mai lo Stato italiano si serve della Mafia oppure la sostiene per mantenere l’ordine pubblico e la discriminazione verso i due popoli sottomessi? Non ha torto il sito de i Nuovi Vespri a dire che la mafia era fuori dallo Stato duosiciliano per la sua volontaria clemenza popolare e con l’avvento della malaunità entrò nel nuovo potere coloniale dello Stato sabaudo.
fine
Antonino Russo