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L’IMBROGLIO NAZIONALE di Aldo Servidio (sesta parte)

Posted by on Feb 12, 2018

L’IMBROGLIO NAZIONALE di Aldo Servidio (sesta parte)

LA DEMONIZZAZIONE DEL “CATTOLICO”

Si è già ricordato come l’Unità del Paese, realizzata nel 1860/1870 sul piano politico territoriale, trovasse due punti forti di frizione nella struttura del regno delle Due Sicilie e nella questione del papato.

Ugualmente, si è già ricordato. come il tipo di Nazione cui si riferiva quel processo di unione fosse un prodotto “da generarsi” dallo Stato unitario: con tutti i connotati, quindi, del disegno morale e politico del “blocco di interessi” che aveva voluto quella Unità. La conseguenza logica di questo processo generatore fu che l’ideologia risorgimentale prodotta da quel blocco diventò l’anima stessa della Nazione “nuova e da creare”.

Un’anima che non poteva tollerare i rallentamenti che sarebbero: conseguiti da qualunque sforzo di sintesi con elementi complessi come quelli della struttura sociale dei sud e del significato della sede della Chiesa cattolica sul territorio statale: e che, perciò, scelse la strada della demonizzazione di queste due componenti.

Della forza di motivi e modi di demonizzazione del “borbonico e del “meridionale” s’è appena detto, ma non meno forte fu l’intensità del processo di demonizzazione del “cattolico”. Una intensità che -a sud -si sommò a quella della demonizzazione “territoriale” in termini di danni alla prospettiva di unificazione.

Anche in questo caso -giova ribadirlo fino alla noia -basta soltanto rimuovere montagne di detriti, ammassati dal conformismo op­portunista, sulle fonti in cui si può verificare comodamente anche quest’altro processo di demonizzazione. Si tratta, infatti, di fonti che, fin da subito, sono state pubbliche, ufficiali e disponibili per chiunque “volesse” servirsene.

Peraltro e da ultimo, il riutilizzo delle “fonti” per la descrizione dei rapporti fra unitari e Chiesa cattolica nella fase di realizzazione della prima Unità è stato reso ancora più semplice da A. Pellicciari con due opere, del 1998 e del 2000, tutte fondate su testi che più pubblici ed ufficiali non è possibile neppure immaginare: gli atti parlamentari della Camera sabauda e le lettere encicliche e quelle pastorali del vertice della Chiesa cattolica.

Quei testi consentono obiettivamente di comprendere tutta l’ambiguità e la durezza della “filosofia” di demonizzazione del “cattolico” che permeò la prima Unità e vanno -giustamente -oltre la posizione superficiale di riferire tale durezza solo alle posizioni del più viscerale anticlericalismo di marca giacobina, dimostrando come l’ambiguità della “filosofia” d’attacco alla Chiesa di Roma tendeva a produrre effetti ben più incisivi dell’anticlericalismo viscerale.

Infatti, se un qualunque generale Pinelli ritenne di fare un bando ai suoi soldati il 3 febbraio 1861 nel quale gratificava i resistenti abruzzesi ed ascolani come “i prezzolati scherani del vicario non di Cristo, ma di Satana ” incitando i propri soldati a schiacciare attraverso loro “il sacerdotal vampiro (ndr. Pio ix e la Chiesa di cui era Capo), che con sue sozze labbra succhia da secoli il sangue della madre nostra (Italia, ndr.)” ed a purificare “col ferro e col fuoco le regioni infestate dall’immonda sua bava”, e se un tale proclama venne pubblicato dal ‘Popolo d’Italia’ di Torino con la qualifica di “generoso proclama”, ci sarebbe solo da chiedersi, oggi ed in sede storica, che senso avesse lo Statuto albertino cui Pinelli era legato da giuramento di fedeltà e che -addirittura -qualificava quella cattolica come religione dello Stato.

E non aggiungerebbe gran che la considerazione -come ricorda G. De Sivo -che a causa delle proteste della stampa europea contro la volgarità del testo del Pinelli, questi venne posto “a disposizione”, anche perché il generale fu reintegrato “in servizio” -ed alla chetichella, secondo i Migliori costumi nostrani -solo alcune decine di “giorni” dopo.

Così pure, se un generale Garibaldi non trovava di meglio per “battezzare” i suoi più umili animali di fattoria che ricorrere al nome di Pio ix e dell’Immacolata Concezione, non si potrebbe, in sede storica, che restare ammirati dal suo senso di opportunità politica nel non voler “offendere” la sua guardia pretoriana camorrista (cioè, l’intera Camorra) piegandosi al bacio dell’ampolla contenente il sangue di S. Gennaro; un sangue che, per l’occasione e -cristianamente ragionando -forse per offrire al generale un’occasione di riflessione, si liquefece con qualche giorno d’anticipo rispetto alla data canonica del 19 settembre.  

Non sembri una forzatura ironica il riferimento all’occasione di riflessione che avrebbe potuto costituire per Garibaldi l’insolita anticipazione della liquefazione del sangue del santo.

Non molti anni dopo l’ingresso in Napoli dell’eroe dei due mondi, un “mangiapreti”, non meno famoso, come tale, di Garibaldi, e suo sodale nell’operazione Unità -cioè Pasquale Stanislao Mancini -venne “convertito” proprio da un evento miracoloso (l’apparizione, ed il biancheggiare, che annunciò la fine di una grave e letale forma epidemica, di una specie di porro bianco, ancora oggi visibile, sul volto dell’immagine della Vergine Maria dipinta su di una tavola cui, fin dal suo ritrovamento, si erano associati fenomeni inspiegabili) che gli si ripetette davanti agli occhi mentre con un binocolo stava osservando il dipinto dalla navata della Chiesa della Madonna delle Fratte nel natio Castelbaronia, in provincia di Avellino.

Ma, forse, o Mancini come “mangiapreti” era meno tosto di Garibaldi, o, chissà, è la Madonna ad essere più potente di S. Gennaro!

Forse si potrebbe avanzare qualche riserva più robusta sulle “azioni” ancora più sgradevoli che all’epoca non mancarono, come quella di cui furono protagonisti numerosi scalmanati, autodefinitisi “liberi pensatori e muratori”, quando tentarono seriamente di impossessarsi del cadavere di Pio IX, portato in processione alla sua ultima dimora, per farne vilipendio e “disperderlo”, poi, nel Tevere (sono le intenzioni liberamente espresse, a suo tempo, direttamente dagli interessati), e che ne furono impediti robustamente dai popolani romani del quartiere che in quel momento era attraversato dal corteo.

Ma anche di fronte ad azioni tanto odiose si può ancora pensare all’effetto drogante dei fatti politici, allora ancora caldi, sulle teste più fanatiche degli unitari. Anche se la natura contingente di quei fatti subisce un duro colpo se si deve ricordare che -nonostante il raffreddamento delle polemiche unitarie consacrato addirittura da due Concordati in 70 anni fra Chiesa cattolica e Stato italiano -la tomba di Pio IX in S. Lorenzo al Verano è rimasta “vuota” fino a pochi anni fa, quando Giovanni Paolo II ha ritenuto fosse “possibile e prudente” disporre “riservatamente” l’esumazione del suo predecessore dalla “fossa segreta” in cui era stato anonimamente deposto, per ricomporne i resti in quella che tutti, fino a quel momento, avevano ritenuto la tomba di Pio IX all’interno della Basilica.

Questi pochi esempi, tra l’infinito numero di quelli possibili, dell’anticlericalismo unitario possono costituire uno sfondo solo di “colore” ad un tema tanto serio come la demonizzazione del “cattolico”, perché colgono superficialmente solo l’epidermide del fenomeno.

Se, infatti, si dovesse far affidamento su di essi per verificare il contenuto di tale demonizzazione, basterebbe a dimostrarne l’inesistenza una qualunque “Legge sulle Guarentigie” o il ricordo degli sfor­zi, veri e sinceri, che V. Emanuele II fece presso Pio IX e l’intera Curia romana per addivenire a forme di cessione “bonaria” (leggasi: vendita) della città da parte del Papa, con tutte le garanzie economiche e di libertà di esercizio delle funzioni apostoliche che la Chiesa desiderasse, e che lo Stato avrebbe provveduto a “concedere”.

Non a caso, lo stesso morente Cavour -secondo la leggenda risorgimentale ­affidò anche al cappellano che lo assisteva (nonostante l’interdetto pontificio) l’espressione/messaggio libera Chiesa in libero Stato, concetto che, ancora oggi, sembrerebbe esprimere il meglio della saggezza tollerante.

Al contrario, era proprio in quel concetto che risiedeva tutta la forza devastante della metodologia della demonizzazione del cattolico.

Questa non è una bizzarra teoria di parte, giacché è esattamente quanto emerge dagli Atti del Parlamento di Torino dove, con una chiarezza solare, quel concetto venne formulato, spiegato, interpretato ed applicato. E quegli Atti dicono limpidamente che era in quel concetto che risiedeva tutta la carica non anticlericale ma anticattolica del blocco risorgimentale: una carica di cui l’anticlericalismo viscerale era solo la parte più improduttiva, rozza e superficiale.

Per questo motivo, è sull’evidenziazione del significato di quell’enunciato specifico -ed attraverso, come al solito, le parole ed i fatti riconducibili “solo” agli unitari -che potrà apparire con grande chiarezza la natura dell’altro grande “buco nero” in cui l’Unità realizzata ha affogato ogni prospettiva di unificazione del Paese.

Libera Chiesa in libero Stato

L’eclatante limpidezza del principio libera Chiesa in libero Stato condensa, in forma divulgativa, il principio della separatezza fra la sfera spirituale e la sfera materiale dell’attività umana; detto, in chiave più brutalmente ad effetto, si potrebbe sostituire con lo slogan: la Chiesa deve occuparsi dell’anima (per chi ci crede), lo Stato del corpo.

Questo principio appare all’odierna sensibilità sociale, solo una delle versioni “politiche” del principio pre e metapolitico di Iibertà” su cui si fonda il nostro Stato e che -comunemente -viene ritenuto auspicabile per qualunque società civile desiderosa di progredire sulla via dei benessere (materiale e culturale); tutt’al più l’opinione pubblica potrebbe essere interessata a verificarne l’applicazione su tematiche futuribili, mai il significato e l’origine.

Coerentemente con l’ispirazione di fondo di quest’analisi, cominciamo a valutare le cose lasciando parlare gli autori che hanno storicamente prodotto quello schema logico.

Nell’ordinamento politico e giuridico da cui nasce il nostro Stato, ovvero nell’ordinamento sabaudo, il problema che portò al libera Chiesa in libero Stato” si cominciò a porre nel 1848 e raggiunse la sua espressione compiuta nel maggio 1855. Le occasioni immediate furono la soppressione dell’ordine gesuitico nel 1848 e la Relazione Meleagri della fine del 1852 per la soppressione di tutti gli enti e comunità religiosi; soppressione che, poi, avvenne nel ’55. Lo sfondo immediato era, comunque, rappresentato dalla polemica con lo Stato della Chiesa, ritenuto ostacolo anche più serio dell’Impero asburgico per l’unione della penisola.

Seguiamo, ora, il ragionamento che risulterà vincente nel Parlamento di Torino, dopo aver ricordato e sottolineato che fin dall’articolo 1 lo Statuto albertino qualificava quella cattolica come religione ufficiale dello Stato.

Nel 1848 la soppressione dei gesuiti e degli altri ordini “gesuitanti” (il termine è d’epoca) viene proposta ed approvata perché, in sintesi, quegli ordini avevano “ripigliato la scellerata guerra che con perverso e frenetico consiglio intrapresero contro la società civile” (è prosa testuale dell’on. Bottone) e per fare in modo che, dopo il loro allontanamento, fosse cura delle autorità dello Stato sostituire gli istituti di istruzione gesuitici (in cui tanto male si faceva alla Nazione) con istituti non solo validi ed efficienti ma incaricati di insegnare anche la “vera ” religione (le virgolette sono nei testi originali).

Fin qui -in via di principio -il comune cittadino di più di 150 anni dopo potrebbe anche pensare che l’episodio fosse nulla più che una delle ricorrenti querelle su scuola pubblica e scuola privata (quest’ultima, naturalmente, ieri come oggi, “solo” dei preti), con chiara propensione del Parlamento non solo per la scuola pubblica ma per una scuola pubblica in cui si insegnasse la religione (di Stato, secondo la Costituzione di allora) nella sua purezza integrale e non con l’ottica particolare di un ordine religioso che tendeva a “far politica”.

Ma una lettura di questo genere (anche senza attardarsi nella lettura degli Atti parlamentari del 1848, in cui pure già si trovano posizioni nette e maggioritarie che impedirebbero una valutazione tanto banale del provvedimento) verrebbe totalmente azzerata dal contenuto della Relazione Meleagri del dicembre 1852 in tema di utilizzo “pubblico” dei beni degli enti ecclesiastici soppressi.

In quella Relazione c’è, innanzitutto, una “interpretazione autentica” (in senso tecnico) del concetto costituzionale di “religione ufficiale di Stato” che è di assoluto interesse, e cioè: se è vero che la cattolica è religione ufficiale dello Stato, questo significa che lo Stato ha il “dovere” di provvedere alle necessità della Chiesa, ma anche che ha il “diritto” di prelevare dalla Chiesa i beni “eccedenti” per destinarli ad altri fini di pubblica utilità. Quanto poi a chi dovesse decidere se, quali e quanti fossero i “beni eccedenti” i bisogni della Chiesa, la Relazione forniva un’altra “interpretazione autentica” dell’ordinamen­to giuridico sabaudo stabilendo che lo Statuto albertino “mai” aveva riconosciuto alle istituzioni della Chiesa la “personalità civile”. Dunque, la Chiesa (proseguiva la Meleagri) era e rimaneva una “istituzione di diritto pubblico” e, pertanto, i suoi beni costituivano “pubblica dotazione” e su questi era preclusa endemicamente alla Chiesa la “stessa proprietà privata”.

Questo brillante concetto giuridico venne immediatamente utilizzato -in tema di legislazione sulle congrue ai parroci -dal Guardasigilli di Cavour, l’ori. Boncompagni, nel 1853 per sostenere, in estrema sintesi, che la Chiesa, come ente morale, poteva avere sui beni materiali solo quei diritti che lo Stato credesse conveniente concederle.

Lo sviluppo del concetto trovò definitiva sistemazione schematica nella Commissione parlamentare (presieduta dal deputato Cadorna) che relazionando sulla “proposta di legge Cavour/Rattazzi” riguardante la soppressione degli enti e comunità ecclesiastici (tout court), poi approvata nel maggio 1855, fin dalla fine del 1854 sistemò la questione chiarendo, definitivamente, che: la comunità religiosa è un ente morale che non esiste in natura, quindi non ha diritti naturali. Chi la fa esistere è lo Stato che la crea e la può distruggere. Questa condizione (non èuna barzelletta, è proprio il testo) deriverebbe dalle disposizioni dello stesso Dio che avrebbe separato la sfera dello spirituale da quella del temporale, affidando alla religione il potere spirituale (sull’anima, i pensieri, le aspirazioni, le credenze) ed allo Stato il potere temporale (su tutto ciò che è materiale, visibile).

E a questo punto che si comincia a rivelare tutta la pericolosa ambiguità dello slogan 1ibera Chiesa in libero Stato”.

Infatti, sorvolando sulla banalità concettuale di una Chiesa che sarebbe un ente inesistente in natura, mentre lo Stato, invece, … pure, se è lo Stato che crea e fa esistere la Chiesa, essendo e rimanendo l’ultimo ed unico titolare non solo dei diritti ma anche della stessa esistenza delle entità da esso “create” e “messe al mondo”, come può concepirsi una Chiesa veramente libera?

Libera in che senso?

Nel senso di poter fare tutto e solo quello che lo Stato le consente? E giacché lo Stato sarebbe padre e maestro su tutto ciò che è materiale e visibile, riservandosene il potere originario ed assoluto di gestione, i cittadini -che sono corpo ben visibile e che con esso danno seguiti materiali e concreti ai loro pensieri, aspirazioni e credenze -sono liberi di agire in comunità o tale comunione concreta è preclusa e, comunque, soggetta al potere “creante” e “di nascita” dello Stato anche quando l’oggetto di una tale aggregazione umana sia dichiaratamente a finalità “spirituale”?

La tesi della Commissione Cadorna “non” riguarda, ovviamente, il Principio della necessità che qualunque aggregazione umana debba rispettare le regole sociali indispensabili alla stessa esistenza di qualunque consorzio civile, ma il fatto che perfino l’esistenza ed il modo di concepire le finalità spirituali nella loro inevitabile manifestazione concreta rientrino nel potere “dispositivo” dello Stato: secondo quella concezione, cioè, la sfera civile si ferma solo di fronte ai “pensieri più intimi” dell’individuo e sempre che non abbiano il cattivo gusto di pretendere “addirittura” di manifestarsi concretamente.

Non occorrono molte riflessioni per generare un brivido raggelante a chi ritenga che la logica dello Stato di diritto abbia qualche senso.

Si potrebbe pensare, comunque, che posizioni di questo genere fossero “esagerazioni” di qualche esagitato estremista echeggianti nel dibattito parlamentare. Ma anche questa visione prudente dei fatti èpreclusa dalla documentazione. La Commissione Cadorna, infatti, non fu una delle tante commissioni cui talvolta indulge l’attività parlamentare e che producono roboanti montagne di carta prive di ogni traduzione pratica.

No. La Commissione Cadorna -per dirla in termini d’attualità -era una Commissione che produsse una cosa che oggi si chiamerebbe “Relazione di maggioranza su di un disegno di legge governativo”, un disegno di legge che fu approvato pochi mesi dopo dal Parlamento subalpino e che di lì (1855) a cinque anni diventò, tal quale, legge per tutta l’Italia unita, senza una sola virgola di modifica.

Con quella legge l’unica libertà che si garantiva era quella dello Stato, cui veniva rimesso il potere assoluto di stabilire se, come e quando l’ente morale Chiesa potesse esistere o dovesse morire, restando alla Chiesa la perfetta libertà di esista e in modo “invisibile” o di rendersi “visibile” conformemente e nei limiti dell’interesse contingentemente espresso dallo Stato inteso come incarnazione della collettività.

Era la perfetta traduzione in istituzioni dello Stato etico di hegeliana memoria (e di cui non sarebbero mancate, anche in seguito, repliche ancor più “convincenti”), fondato sull’ottocentesco principio di libertà. Un principio che portava alla produzione, da parte dello Stato,, di un’etica fondata sul e con il consenso della nazione. Uno Stato etico che -nelle sue esperienze “Inature” ­produsse situazioni in cui, ad esempio, il capo indiscusso di una grande nazione europea poteva esprimersi così: “il cristianesimo promulga i suoi dogmi inconsistenti e li impone con la forza. Una simile religione porta con sé l’intolleranza e la persecuzione. Non ce n’è di più sanguinosa. Noi obbediamo al comandamento di non uccidere limitandoci a mandare a morte l’assassino. La Chiesa, invece, fin quando ne ha avuto il potere, ha torturato nel più orribile dei modi i corpi delle sue vittime”.

Il capo indiscusso, titolare e personificazione dello Stato etico hegeliano pronunciava queste testuali espressioni nell’anno di grazia 1942, quando Auschwitz, Buchenwald, e quant’altro funzionavano già abbondantemente a regime: il suo nome era Adolf Hitler (cfr. ‘Idee sul destino del mondo’ edito da Ar nel 1980, con l’indicazione, come autore, di quel capo indiscusso).

Nessuno può, oggi, seriamente dubitare che la Nazione tedesca avesse maturato il consenso all’esperienza di Hitler, perché il caporale austriaco era andato al potere per “libera” scelta elettorale del popolo tedesco, c’era andato con un programma che, accanto allo slogan “più burro agli operai”, indicava come mezzo per realizzare anche quell’obiettivo il riscatto e la potenza del popolo e della razza germanica, ed il popolo tedesco conosceva bene il Mein Kampf -perché era il libro più diffuso e letto, non solo ma principalmente in Germania, in quel tempo -che non era un testo né equivoco né ambivalente.

Così come oggi nessuno può dubitare del consenso sostanziale del popolo italiano al regime fascista, che interpretò la variante nazional-italiana dello Stato etico (basti ricordare che a scuola si studiava la “mistica fascista”), e fin dal suo sorgere.

Anche quell’esperienza, infatti, fu proposta ed approvata dagli italiani con elezioni in cui era chiaro a tutti che il raggruppamento di posizioni politiche che si riconosceva nel 9istone” era pilotato da un personaggio che non solo era capo del governo, ma aveva ricevuto dal Parlamento, nel pieno rispetto dello Statuto albertino, i pieni poteri. Poteri che, sostanzialmente, vennero confermati dal corpo elettorale, con una maggioranza che fu solo di pochissimo maggiore (ed in modo assolutamente irrilevante dal punto di vista numerico) della somma dei voti che le formazioni politiche confluite -anche parzialmente -nel 1istone” avevano conseguito nelle consultazioni elettorali immediata­mente precedenti (i dati elettorali con tutte le specifiche utili sono pubblici ed ufficiali da sempre, e sono consultabili presso la biblioteca della Camera dei Deputati). Per non parlare delle testimonianze, amare, dell’antifascismo italiano sul senso di isolamento morale e sociale patito quando ci fu la “proclamazione dell’Impero”.

Quelle di Hitler e Mussolini, però, si possono considerare esperienze “mature” del nuovo concetto di Stato etico fondato sull’ottocentesco “principio di libertà” espressione della volontà delle nazioni: quelle esperienze, infatti, ebbero almeno il consenso elettorale di poPoli che, sia pure solo per la parte maschile, le scelsero a maggioranza ed a suffragio universale.

Per comprendere bene, al contrario, che cosa si intendesse nell’Ottocento per “principio di libertà” espressione della volontà di nazioni non necessariamente coincidenti con la maggioranza della popolazione” basta ricordare quel che ne dice B. Croce nelle prime battute introduttive della sua ‘Storia d’Europa nel secolo XIX‘: “Senza dubbio, la libera discussione e propaganda (n.d.r. del principio di libertà) non bastavano sempre… talvolta era necessario passare nel campo dell’azione più direttamente pratica e politica… Non è escluso, in certi casi particolari, il procedere rigoroso e radicale».

Non dovrebbe meravigliare, a stretto rigore, quindi, se l’autore dei “manifesto dell’antifascismo” del 1925, non trovasse nulla da obiettare, nel 1922, ed anzi votasse in Senato a favore della richiesta con cui l’incaricato di formare il governo regio chiese ed ottenne -lo si ripete, in perfetta osservanza dello Statuto albertino -la ratifica dei pieni poteri che il re lo aveva autorizzato a sottoporre al Parlamento. Quegli stessi pieni poteri che né il Parlamento subalpino né quello italiano avevano mai voluto concedere, neppure se a richiederli fosse stato, come fu, il conte di Cavour o un Crispi.

Se non si esclude “culturalmente” che il principio di libertà “possa” procedere in “modo rigoroso e radicale” per imporre quello che una élite ritiene il bene supremo per un intero popolo, anche magari attraverso dieci anni di stato d’assedio, bisognerebbe essere tanto conseguenti e coerenti da non meravigliarsi se la realizzazione dello stesso bene supremo comporti, poi, la cancellazione di un “uso”, ritenuto da un Parlamento liberamente eletto, “demagogico e deviato” delle stesse libertà di scrivere ed associarsi!

Ed a maggior ragione, una volta culturalmente accettato il procedere t’rigoroso e radicale”, non sarebbe stato coerente in linea logica negare il sostegno ad una attività che fosse ritenuta “dannosa” per il bene supremo di quello Stato che -secondo la Relazione Cadorna che stiamo analizzando -si identificava, incarnandola, con la Nazione. Né tanto meno avrebbe dovuto meravigliare più che tanto se un’intera società civile avesse ritenuto d’individuare nella esaltazione delle funzioni della razza pura 1

strumento per far progredire la libertà dell’umanità, o avesse deciso di individuare nella lotta di classe il fondamento del progresso sociale e di libertà della medesima umanità secondo gli schemi dialettici del materialismo storico.

Ecco perché prima si sono qualificate le esperienze di Hitler Mussolini come “maturo sviluppo” della concezione dello Stato ottocentesco fondato su “quel” principio di libertà: loro hanno proceduto “in modo rigoroso e radicale” contro chi avversava le loro idee h almeno, erano state “scelte” dalla maggioranza maschile di tutta la Nazione. Nel 1860, invece, la quasi totalità della popolazione meridionale rifiutava “quel” principio di libertà, di cui pativa tutto il contenuto totalitario.

In altri termini, nel 1860 si conobbe la realizzazione dello Stato etico nella forma totalitaria d’élite, alla fine di quell’esperienza di concezione dello Stato ­anni venti/quaranta del ‘900 -se ne conobbe la forma totalitaria di massa: la differenza c’è ed è anche importante, ma il comune denominatore è colto molto bene nello scritto di Croce ed è il contenuto fortemente “specifico”di “quel” principio di libertà, che, in primis, si poteva imporre con la libera discussione e propaganda, poi -se queste non bastavano -con la conquista di élites rivoluzionarie o di eserciti pilotati da élites politiche e sociali, ed, infine, se neanche questo bastasse, con il procedere rigoroso e radicale, di cui norme speciali e stato d’assedio permanente non rappresentano che forme.

La Relazione Cadorna e lo sforzo di comprensione del significato pieno dello slogan “1ibera Chiesa in libero Stato” ci consentono, così, di capire che è la stessa filosofia d’origine della concezione dello Stato affermatasi in Italia nel XIX secolo che sta alla base dei motivi per cui l’obiettivo della unificazione del Paese veniva affidato all’automatismo della realizzazione del “bene supremo”; e, dunque, se il bene supremo avesse richiesto un procedere rigoroso e radicale, il suo costo -quale che fosse -avrebbe ripagato anche in termini di unificazione.

La questione di che cosa fosse il bene supremo veniva risolta nel senso di identificarlo con il prodotto del “principio di libertà” applicato alla società civile; e giacché la società civile aveva fondato -fino ad allora -la sua aggregazione sulla accettazione di una sorta di diritto divino legittimante l’esercizio della necessaria autorità, fu subito chiaro -fin dall’Illuminismo -che applicare il principio di libertà, al livello di Stato, doveva comportare la graduale ma inequivoca eliminazione della legittimazione per diritto divino dell’autorità di governo.

Giacché nella realtà europea il diritto divino come fonte dell’autorità civile veniva ritenuto un prodotto della Chiesa cattolica, per eliminare quel diritto dalla società civile occorreva anzitutto cancellare lo Stato della Chiesa e, poi, e contemporaneamente, mettere quell’organizzazione nella condizione di non nuocere più, sottoponendone la stessa esistenza all’autorità di uno Stato prodotto e formato secondo il principio di libertà. Una libertà che finiva così per diventare, essenzialmente, libertà dal divino nella sola accezione cattolica.

In questa prospettiva, infatti, il problema di mettere l’organizzazione religiosa in condizioni di non nuocere si restringeva alla Chiesa Il cattolica” perché già una buona parte delle altre confessioni cristiane, attraverso l’opera dei riformatori, avevano rinunciato ad ogni pretesa di universalità -appunto, di cattolicità -riconoscendosi in Chiese nazionali che -in quanto tali -erano già una articolazione societaria dello Stato (quando non presentavano addirittura una coincidenza -101ne nella confessione anglicana -fra capo della Chiesa e capo dello stato).

Perciò e coerentemente la logica risorgimentale più che anticlericale era essenzialmente anticattolica. Perciò gli unitari -e fin dall’inizio, come si è documentato -facevano coincidere la loro opera con quella di tutela della “vera” religione cristiana. Per questo motivo ritenevano che l’apparato organizzativo ecclesiastico cattolico (quello che si può definire Chiesa/istituzione) fosse insieme il regno dell’eresia e dell’oscurantismo, perché ostacolo al pieno sviluppo della libertà umana cui non era giovevole una credenza che potesse arrogarsi diritto di testimoniare una concezione di vita che non fosse asetticamente intimistica e neutrale ad ogni aspetto “concreto”. Chiesa istituzione, per un unitario, coincideva puramente e semplicemente con Stato pontificio proprio perché “strumento” (in quanto Stato ed indipendentemente dalla sua consistenza) di “non soggezione” al principe della “concreta” comunità religiosa: con buona pace di Leone Magno, di Gregorio VII e di tredici secoli di Storia occidentale!

Questa breve summa del pensiero unitario trova -per chi ne avesse interesse -una conferma totale ed inequivoca nei testi -pubblici ed ufficiali -degli Atti del Parlamento sabaudo dal 1848 in poi su queste tematiche. Testi che -come prima si è ricordato -sono stati riproposti al più facile accesso da parte del grande pubblico dai recentissimi, contributi di ricerca e di analisi di A. Pellicciari, cioè “Risorgimento da riscrivere” edito nel 1998 e “L’altro Risorgimento” edito nel 2000.

Posta in questi termini, la questione del bene supremo (dell’organizzazione della società civile) come prodotto del “principio di libertà” finiva con il coincidere con la realizzazione di uno “Stato laico” o, il che è lo stesso, della “laicità dello Stato”, inteso (o, intesa, secondo le letture) come un’entità cui dovesse ossequio, rispetto e -soprattutto _ obbedienza, anche esistenziale, qualunque organizzazione religiosa, cui si riconosceva sovranità solo spirituale e purché nei limiti della volontà dello Stato riguardo, addirittura, la stessa possibilità di concreta operatività ed esistenza di tutto quanto di qualunque organizzazione fosse materiale e visibile.

Al diritto divino si sostituiva il diritto fondato sul consenso universale della Nazione formatasi in nome di un tale principio di libertà.

Gli è che mentre la pretesa di un diritto divino regolante le autorità di governo non trovava -come non trova -neanche il più labile fondamento testuale né nel Vangelo né nella Tradizione (intesi l’uno e l’altra nel senso proprio del deposito di Fede la cui tutela integrale costituisce -insieme alla sua testimonianza -l’unica ragione d’esistenza della Chiesa cattolica), la pretesa di possibile esclusione -in nome del principio di libertà -di ogni ricaduta civile della credenza nel Vangelo e nella Tradizione è espressamente richiesta dallo Stato laico (nella accezione ottocentesca) quando non condivisa -ed è questo il razionale -dal consenso universale.

Ad un assoluto (il diritto divino) “presunto” se ne sostituiva un altro (il consenso universale), questa volta, “reale” e caratterizzato dalla relatività ­coessenziale all’ampiezza della volontà umana -“assoluta” del principio. E tutto questo in nome del fatto che una religione (come dimostrerebbe lo stesso etimo re legare, legare ad una cosa) sarebbe per sua stessa natura un vincolo “assoluto” (per i cristiani: una rivelazione) da subordinarsi, invece, sempre all’unica cosa propria dell’uomo: la sua ragione.

Fra una fede ed un enunciato razionale -cioè e secondo quella concezione ­l’uomo e le sue aggregazioni societarie “non potrebbero” che scegliere l’enunciato razionale, ma escludendosi a priori, e perciò irrazionalmente, la “razionalità” di una scelta che ritenesse “convincente” una fede e razionalmente decidesse di organizzarsi la vita in conseguenza. Un po’ come ritenere (viene da pensare: per rivelazione?) che l’uomo sia fondamentalmente e “solo” ragione e non “anche” ragione. Che è lo stesso di pensare che l’omicidio non possa essere un ‘Tatto razionale” né più né meno del ‘Tatto” di soccorrere un ferito o uno che può essere ucciso.

In una parola, come se la ragione fosse 1’assoluto” e non lo strumento “concorrente” con tutta la complessa dotazione di ogni uomo per “scegliere” che cosa e come utilizzare le facoltà di vita.

La base filosofica dello Stato ottocentesco, cioè, è costituita da un assoluto che presume di essere relativo sol perché fa cadere la consonante “d” dall’assoluto religioso che lo identifica in “dio”: resta così un “io” che sostituisce dio, una coscienza morale che sostituisce la rivelazione, una Umanità che sostituisce la Persona umana e -per quanto riguarda i cristiani ­una razionalità che sostituisce l’amore generatore della vita.

Era facile immaginare che identificato in questo sistema di pensiero il prodotto “principio di libertà”, e, dunque, il bene supremo della società civile, da un lato non si esitasse -in ultima analisi -a “procedere in modo rigoroso e radicale” per assicurarne la realizzazione, e, dall’altro, si ritenesse esplicazione del principio di libertà annichilire quel che ad alcuni -non importa neppure se in maggioranza -sembrasse contrario alla libera realizzazione dei propri convincimenti.

Ecco perché si è prima osservata la pericolosa ambiguità dello slogan libera Chiesa in libero Stato; se quell’enunciato, infatti, non fosse stato così profondamente connesso con una concezione che, fin dalle sue origini e radici filosofiche, costringeva la libertà della Chiesa nella sola ed assoluta libertà dello Stato, “assorbente” quella della concreta manifestazione d’esistenza anche della Chiesa, sarebbe apparso subito evidente come la libertà fosse una condizione competente in assoluto sia alla Chiesa sia allo Stato nella piena consapevolezza che uno Stato non può che essere laico, non perché condiziona l’esistenza di una religione ed i suoi modi di esprimersi nella società civile, ma perché è funzionale solo ed esclusivamente a garantire e favorire, mai per determinare, anche per ogni religione, la stessa possibilità di sussistenza e di coesistenza con tutte le altre possibili forme di aggregazione “a finalità spirituale” della società civile.  

Sarebbe apparso chiaro, cioè ed immediatamente, che se uno Stato della Chiesa si era storicamente (e non certo teologicamente) reso necessario (non a caso era, in Europa, il più antico ed il più atipico nei modi di formazione), ciò era dipeso non da un “presunto” diritto divino ma proprio dalla opportunità di porre al riparo le istituzioni di quella Comunità dalla antichissima volontà dei principi di ingerirsi nella autonoma impostazione e gestione delle “proprie” cose religiose.

Una volontà contro cui si rivolse, in origine, l’intento dell’imperatore Costantino cui sembrò sufficiente porre fine alla validità del senatoconsulto “anticristico” emesso, quasi tre secoli prima, dal Senato di Roma su richiesta di Tiberio, probabilmente sul fondamento della relazione di Pilato riguardante i fatti di Giudea connessi alla crocifissione del falegname di Nazareth. Quel senatoconsulto, infatti, cogliendo (pare, contro l’opinione dell’imperatore) la capacità di quella credenza religiosa -e solo di quella, fra le innumerevoli professioni del tempo -di non considerare la res pubblica “in assoluto” come sopraordinata al proprio “assoluto religioso”, aveva costituito la base giuri­dicamente corretta per ritenere il “cristismo” potenzialmente pericoloso per l’Impero, e per legittimare, conseguentemente e quando necessario, tutte le persecuzioni che si erano succedute fino al 312 d.C.

Ma dall’editto che consentiva ai cristiani il “libero” esercizio nell’Impero, la volontà di intromissione principesca aveva cominciato a prendere corpo -e proprio (non sembri strano) attraverso la successiva dichiarazione della religione cristiana come religione di Stato -nella forma della “necessità” di ingerenze politiche, che giunsero rapidamente fino alla ratifica imperiale per la nomina dello stesso vescovo di Roma. Ingerenze che coinvolsero quella Chiesa fino a farne un comodo e gratuito sostituto delle incombenze meno gradite dal principe di turno e costringere (alla lettera), verso la fine del vi secolo d. C., il pontefice Leone Magno ad assumere il carico anche amministrativo dell’Urbe, flagellata da una micidiale epidemia (di cui costituisce ricordo l’Angelo che sovrasta l’omonimo castello di Roma) che ne aveva acuito le condizioni già miserabili in cui l’aveva ridotta l’insensibilità del lontanissimo e disinteressato responsabile della parte occidentale dell’Impero.

Una volontà che -anche per le degenerazioni gravi verificatesi nella stessa Chiesa -ai tempi di Gregorio vii costrinse il vescovo di Roma a separare ed autonomizzare, in modo visibile ed istituzionale, la questione delle nomine ecclesiastiche dall’influenza dei principi, costituendo, proprio a questo fine, il primo nucleo di uno Stato, forse unico al mondo, nato dalle donazioni di privati motivate, per 1 appunto, dall’intento di sottrarre la Chiesa alle pretese dei governi (da qui originava la convinzione di Pio IX, e dei suoi immediati predecessori, di “non” poter disporre di un Paese di cui pure erano re). 

Una volontà di ingabbiamento della Chiesa dentro l’autorità del principe che era ritornata prepotente, nei secoli XVI e seguenti, con Enrico VIII d’Inghilterra, Federico di Prussia ed i principi francesi e tedeschi e che avrebbe ricondotto la Chiesa riformata sotto il controllo dello Stato, né più né meno di quello che -da ultimo -fece Stalin con la Chiesa ortodossa e Mao Tse Tung, ed i suoi successori fin’oggi, con la Chiesa di Cina.

Sarebbe apparso chiaro, cioè, fin dall’Ottocento che uno Stato Wella Chiesa non era problema di ampiezza di territorio o d’esercito, ma di riconoscimento reale, pubblico ed ufficiale, che la sovranità del principe si fermava alle porte di una “cosa” che avesse tutti gli attributi che gli Stati riconoscevano ai propri “simili”, alfine di riconoscere e garantirne -sul piano umano ed istituzionale -l’effettiva indipendenza nell’organizzazione dell’esercizio dei suoi fini.

E, parallelamente, sarebbe apparso chiaro che, al di là del vincolo fiscale e del rispetto delle regole di formazione della volontà dei singoli, i cittadini potessero fare dei propri patrimoni quel che intendessero più opportuno, restando allo Stato il solo potere di stabilire le regole di “riconoscimento” di tutte le persone giuridiche e di “disciplina” generale ed egualitaria delle loro attività, senza pretendere di essere il titolare dello stesso diritto alla loro esistenza.

Sarebbe apparso chiaro -in una parola -come il concetto stesso di Stato etico fondato sulla negazione dei valori assoluti inciampasse nel principio di non contraddizione nello stesso momento in cui dichiarava di essere un valore “assoluto”.

Ecco, in conclusione, gli elementi -ricostruiti su basi documentali esclusivamente unitarie -che consentono di capire sia perché la prima Unità, anche rispetto al problema della “mentalità cattolica”, sembrò glissare -anche istituzionalmente fino al 1929, ma stabilmente nella pedagogia civile -il problema dell’unificazione, sia su che cosa si fondi -ancora oggi -la difficoltà di unificazione del nostro Paese: lo Stato nato nell’Ottocento ancora oggi non riesce ad essere uno Stato Il veramente” laico, cioè attrezzato ad esaltare le capacità di tutte le sue componenti (territoriali e culturali) attraverso lo sforzo di realizzazione ordinata delle sinergie sociali a livelli progressivamente più alti, ma si riduce a fare il pedagogo -talvolta arcigno, tal altra permissivo e distratto -di un popolo che viene ancora ritenuto bisognoso che l’élite di turno gli costruisca e gli identifichi il “bene supremo” da raggiungere e realizzare. 

Aldo Servidio

 

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