L’Inghilterra dietro le quinte sobillò la rivolta in Sicilia
La rivolta siciliana iniziò il 12 gennaio 1848: essa non fu casuale né spontanea, bensì organizzata in modo particolareggiato dalla classe dirigente isolana, composta dai grandi latifondisti che sapevano di poter contare sull’appoggio dell’Inghilterra, da sempre interessata a porre una sorta di protettorato sull’isola e sulla sua economia.
Gli interessi inglesi riguardavano specialmente il commercio del vino, nella zona occidentale, ed il lucroso sfruttamento dello zolfo nella zona orientale.
Nelle riforme via via realizzate dal governo napoletano a partire dal 1815, nulla era stato omesso per accontentare le istanze di autonomia della Sicilia. Non va dimenticato che la sua popolazione era esente da obblighi di leva, e che soltanto i volontari siciliani erano ammessi a far parte dell’esercito nazionale in due reggimenti, l’11° Palermo ed il 12° Messina. Una consulta di stato era stabilita per i domini continentali ed una per i domini insulari, quest’ultima composta da soli siciliani.
Dal 1837 al 1848 si tentò senza successo di amalgamare l’elemento napoletano con quello siciliano; per quanti funzionari napoletani si trasferivano in Sicilia, altrettanti siciliani giungevano nel continente, ovviamente tale tentativo fu trasformato dai nemici in una sorta di tirannia colonizzatrice, nonostante le attenzioni del governo particolarmente doviziose.
Ben 1305 miglia di strade furono costruite ed altrettante erano in costruzione, ospizi, asili, scuole, moderne prigioni; a Messina una borsa ed il porto franco, il nuovo porto di Catania, tasse più tenui di quelle già lievi pagate dai napoletani, ed infine centinaia di ettari di patrimonio demaniale furono divisi in piccole quote ed assegnati agli agricoltori.
Il luogotenente del Re e comandante militare dell’isola nel 1848 era il Tenente Generale Luigi Nicola de Majo, Duca di San Pietro.
Militare formatosi nel periodo murattiano, seppe cavalcare tutte le emergenze, compresa quella del 1820/21, e non ebbe mai a subire nessuna conseguenza. Autentica nullità, il 12 gennaio fu preso alla sprovvista dalla rivoluzione, cui non seppe far fronte.
Disponeva di 5000 uomini, che si limitò ad utilizzare per inutili scontri che provocarono solo vittime e scoramento nella truppa. E’ ormai noto che molti radicali napoletani, come lo Spaventa,
fomentarono i moti palermitani con la promessa di non far intervenire truppe nazionali.
Il Re ed il Governo si sforzarono di concedere tutto quel che si poteva all’autonomia siciliana, fin dal primo giorno. Il 18 gennaio il Conte d’Aquila, fratello del Re, fu nominato Luogotenente in Sicilia dove non poté mai sbarcarvi, perché nel frattempo gli insorti, mai combattuti per l’inerzia del de Majo e del de Sauget, occuparono tutte le posizioni strategiche della città di Palermo.
Il 27 gennaio le truppe si imbarcarono per Napoli, con il solo forte di Castellammare che continuava la resistenza fino alla resa con l’onore delle armi. Nel frattempo sorgeva un Comitato del Governo Siciliano, che ristabilì la costituzione del 1812 e l’indipendenza dell’isola da Napoli. A capo di tale Comitato venne posto l’ammiraglio Ruggiero Settimo, appartenente ad una delle grandi famiglie isolane e rivoluzionario del 1820.
Soltanto due anni prima, nel 1846, nel corso di un soggiorno del Re a Palermo, il vecchio ammiraglio chiese ed ottenne una lauta pensione per le sue precarie condizioni economiche.
Il 10 marzo, nel tentativo di evitare la separazione della Sicilia, il Re firma un decreto che nomina suo luogotenente proprio Ruggero Settimo.
Come per incanto, con singolare analogia a quanto accadrà nel 1860, il porto di Palermo si riempie di navi inglesi. Con la scusa di proteggere gli interessi e le sostanze dei suoi concittadini, la “Perfida Albione” soffia sul fuoco, ed invia Lord Minto, che diventa una sorta di consigliere occulto del governo siciliano. A Napoli intanto il ministero costituzionale, già oberato dalle lotte di potere dei soliti radicali, non riesce a fronteggiare la situazione, con il Re che, riguardo la questione della sovranità sulla Sicilia, non intende deflettere.
L’aiuto inglese consente ai siciliani di inviare rappresentanze ufficiali in tutta Europa, a raccontare di una persecuzione mai esistita. Nel frattempo il comitato di governo siciliano non seppe affrontare l’anarchia nella quale esso stesso aveva gettato il popolo minuto. Saccheggi, ruberie e violenze di ogni genere avvenivano in danno di chi aveva il solo torto di essere napoletano. La mafia tornò a primeggiare con il solito ricatto che è stato fatto a chiunque si sia presentato a governare la Sicilia: in cambio di un ordine e di una tranquillità mafiosa, l’impunità.
Migliaia di detenuti comuni della peggior specie tornarono in libertà, e quando il governo legittimo riuscirà a rientrare in Sicilia non trovò che debiti e macerie.
Le proprietà napoletane ed i danni subiti dai privati non saranno mai più risarciti perché Ferdinando volle che sul passato fosse posto un velo pacificatore. Ed anche in questa circostanza nessuno fu punito per l’aperta ribellione.
I siciliani dimenticarono troppo facilmente la comunanza di storia e di interessi con l’altra parte del Regno, e quando nel 1860 si ripeté la vicenda, ritennero ancora una volta di poter contare sull’impunità. Ma nel 1866 a fronteggiarli fu un generale piemontese che li massacrò senza pietà, ed allora capirono cosa avevano perduto.
di Roberto Maria Selvaggi
0 Comments
Trackbacks/Pingbacks