Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

L’INVENZIONE DEL RISORGIMENTO OVVERO L’ANNIENTAMENTO DEL SUD (Terza parte)

Posted by on Feb 7, 2020

L’INVENZIONE DEL RISORGIMENTO OVVERO L’ANNIENTAMENTO DEL SUD  (Terza parte)

Dopo l’azzeramento dell’istruzione, vediamo quale destino fu riservato alle varie industrie sparse sul territorio dell’ormai ex Regno delle Due Sicilie per continuare l’opera che avrebbe dovuto decretarne la fine.

     Cominciamo col dire che, per il soddisfacimento dei propri bisogni, il Regno era pressoché autosufficiente. Non era il paradiso, e nessuno si sogna di sostenere una tale affermazione, ma disponeva di fabbriche per poter soddisfare tutte le richieste della società di allora, e che, tra occupati nell’industria, nell’agricoltura e nel commercio, offriva lavoro complessivamente a più di cinque milioni di persone su una popolazione di otto milioni di abitanti. Non dimentichiamo, al riguardo, le parole del Saint-Joroz circa le condizioni del meridione d’Italia, il cui popolo lui l’aveva trovato << vestito, calzato, industre, con riserve economiche. Il contadino possedeva una moneta. Egli comprava e vendeva animali; corrispondeva esattamente gli affitti; con poco alimentava la famiglia; tutti, in propria condizione, vivevano contenti del proprio stato materiale. Adesso è l’opposto>>.  Ripetiamo. La contentezza del “proprio stato materiale” non significa di per sé che il Regno fosse il paradiso. Ma di certo non era quell’inferno consegnato alla storia e tramandato ignobilmente alla posterità. Se di paradiso si vuole parlare – sempre in considerazione delle condizioni economico-sociali comuni a tutta la società dell’epoca – questo era rappresentato dal regime fiscale, che, confrontato con quello piemontese, era davvero un paradiso. A proposito di quest’ultimo il giornale “La Voce”, diretto da Angelo Brofferio, così scriveva: << … il Conte di Cavour è un magazziniere di grano e di farina, contro il precetto della moralità e della legge … ingrassavano illecitamente i monopolisti, i borsaioli, i telegrafisti e gli speculatori sulla pubblica sostanza mentre geme, soffre e piange l’universalità dei cittadini, sotto il peso delle tasse e delle imposte >>. L’“Armonia”, dal canto suo, con stile telegrafico ma efficacissimo, precisava: << … Il ministro domanda imprestiti e progetta imposte. La Camera discute, vota e approva. I contribuenti pagano>>.

     Vediamo adesso come erano le condizioni del Regno, dalla Sicilia ai confini dello Stato Pontificio.

     A Messina erano dislocate le industrie tessili Aninis – Ruggeri, che davano lavoro a 1000 operai. Altre industrie tessili erano presenti in Abruzzo, Calabria, Basilicata, Puglia e nell’Alta Terra di Lavoro.

     In quella che attualmente è una delle regioni più arretrate d’Italia – la Calabria –  tra le province di Cosenza, Catanzaro,Reggio Calabria e Vibo Valenzia insistevano i complessi siderurgici di Fuscaldo, Cardinale, Mongiana (che occupava1500 operai), Ferdinandea e Bivongi, che erano i maggiori produttori di ghisa e semilavorati. Dopo l’unificazione, il solo tempo tecnico di demolire, e il 25 giugno del 1874 , in applicazione della legge del 23 giugno 1873, il complesso di Mongiana veniva chiuso e i macchinari trasferiti in Lombardia.

     In Puglia esistevano fabbriche per la produzione di macchine agricole a Bari, Lecce, Foggia e Spinazzola.

     In Campania – solo per rimanere nell’ambito delle industrie siderurgiche e metalmeccaniche – operavano:

il Real Opificio di Pietrarsa, fondato nel 1840 (44 anni prima della BREDA e 57 anni prima della FIAT. Ma guarda un po’!), che occupava 850 operai oltre l’indotto che vi gravitava intorno, anche questo lasciato pian piano morire fino a diventare Museo delle Ferrovie.

l’Arsenale di artiglieria e la Fonderia di Castelnuovo (che dava lavoro a 500 operai);

la Real Manifattura delle armi di Torre Annunziata;

l’Officina Meccanica Zino & Henry, al Ponte della Maddalena, che occupava 300 operai ed era specializzata nella produzione di macchine tessili, vagoni ferroviari e attrezzature per l’ illuminazione a gas. [1]

     Nell’Alto Casertano, sfruttando la vicina miniera di limonite della Valle del Comino, era ubicata la Ferriera di Atina. Anche questa chiusa subito dopo l’unità.

     Nel Salernitano (Salerno, Sarno, Pellezzano, Angri) era concentrato il polo tessile che raggiunse un tale livello di eccellenza che Salerno fu denominata la Manchester del Regno delle Due Sicilie. Tra i vari opifici ricordiamo gli stabilimenti Von Willer e Zubin, a Salerno, con 1425 operai occupati; la Filanda di Pellezzano con 2159 occupati; a Scafati quella di Mayer e Zollinger; ad Angri quella di Nicola Fenizio, che produceva una seta di così alta qualità da essere quotata più di quelle prodotte in Francia e in Cina.

     Di San Leucio, nel Casertano, si ritiene superfluo parlarne, tanto rinomata a livello mondiale era diventata la sua comunità. Riteniamo solo doveroso ricordare che subito dopo l’unificazione della Italia i suoi telai vennero smontati ed inviati  nel Veneto, a Valdagno, dando luogo alla creazione della prima fabbrica tessile della zona. A questo punto viene spontaneo dire: << Ma perché, questi telai, come i macchinari della Mongiana, non stavano bene dove i sedicenti amorevoli fratelli li avevano trovati?>>.  Vedete allora che la guerra era stata motivata da semplice istinto di rapina?      Il complesso fu  poi dato in locazione ad un piemontese, e attualmente gli è stato riservato lo stesso destino del Real Opificio di Pietrarsa.

      Nell’Alta Terra di Lavoro, nel periodo precedente l’ unificazione, nella valle del Liri, operavano ben quindici lanifici. Ricordiamo tra questi Polsinelli, Zino, Ciccodicola e Manna. Nel territorio dell’ Arpinate operavano 32 opifici, che davano lavoro a circa 7.000 persone. In tutto il distretto le persone  impegnate nella produzione di panni di lana oscillavano tra le 11.500 e le 12.000.  A Piedimonte Matese, già dal 1812, Giovanni Giacomo Egg aveva trasformato un vecchio convento avuto in concessione in un moderno opificio che dava lavoro a 1.300 persone.

     Anche le cartiere erano ben rappresentate nel Regno delle Due Sicilie. In quello che era il territorio dell’Alto Casertano operavano: a Sora, lo stabilimento di Ottavio Petrucci fondato nel 1519; quello  di Bartolomucci, a Picinisco; dei fratelli Visocchi, ad Atina; quello dei fratelli Lanna a S. Elìa; le cartiere Courrier, Servillo, Lambert-Mazzetti ad Isola del Liri. La più importante di tutte le cartiere, però, era quella del conte Lefèbre a Isola, che dava lavoro a 500 operai.

     Altre cartiere, i cui prodotti erano famosi in tutto il mondo, erano quelle di Amalfi, nel cui territorio l’introduzione della carta risale addirittura al XIII secolo e dove, fino al 1861, operavano 38 cartiere.

     Non mancavano poi industrie conciarie, anche queste con prodotti di così alta ed accurata fattura, da essere apprezzati in molti paesi europei; fabbriche di porcellane e coralli, industrie alimentari, industria del pomodoro, stabilimenti ittici, allevamenti di ostriche, nonché la coltivazione e la lavorazione del tabacco in cui il regno era all’avanguardia.

     All’improvviso cosa succede? Che tutti questi opifici, per demolizione, per smontaggio e diversa destinazione , per accanimento fiscale, per mancanza di commesse – dato che tutto: forniture di tutte le classi merceologiche; funzionari e manovalanza doveva provenire dal Nord – scomparvero per incanto. Perfino il latte delle nostre donne non fu ritenuto degno di provvedere alle prime necessità degli esseri appena comparsi su quel palcoscenico di desolazione. E furono fatte venire balie dal Settentrione!

     Cosa potevano fare quei cinque milioni e più di persone occupate, bene o male, nell’industria, nell’agricoltura e nel commercio se non diventare – non grazie alle fulgide intuizioni “scientifiche” del Lombroso – prima briganti – intesi, però, come insorgenti e non certo come i delinquenti consegnati alla storia – e poi emigranti?

     Fortuna per noi che il Menabrea non riuscì a portare a termine l’ultimo atto della nostra definitiva scomparsa, altrimenti sarebbero mancate sia l’occasione che la soddisfazione di scrivere una “controstoria”.

Castrese Lucio Schiano

Fonti – Lorenzo Del Boca – “Indietro Savoia” PIEMME (per le due citazioni de La Voce e de L’Armonia)

Per le notizie sulle industrie è stato consultato il blog di unpopolodistrutto che a sua volta ha mutuato il contenuto dal libro del prof. Gennaro De Crescenzo – “Le industrie del Regno di Napoli”.


[1] A proposito dell’illuminazione a gas per cui anche qui (guarda un po’!) Napoli veniva subito dopo Parigi e Londra, già nel 1817, con Decreto Reale n° 611, Ferdinando IV concedeva a Pietro Andriel, francese di Montpellier, la privativa per la realizzazione dell’illuminazione delle vie cittadine con il gas idrogeno. La privativa non fu sfruttata e bisognò attendere il 1837 (comunque, sempre  molto prima dell’unificazione) per una nuova concessione a Giovanni De Frigiere per passare all’illuminazione delle strade cittadine non più a gas idrogeno ma ad olio di oliva, che il regno produceva in abbondanza.

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