L’INVENZIONE DEL RISORGIMENTO, OVVERO L’ANNIENTAMENTO DEL SUD
Qualunque guerra, dichiarata o non, rappresenta quasi sempre l’extrema ratio di uno Stato o di un popolo per affermare un proprio principio, sia esso motivato da semplice sete di conquista che da ragioni presentate ipocritamente per più idealistiche, come per le guerre di religione.
. In ogni caso si tratta della via meno indicata per affermare le proprie ragioni, perché anche se, per assurdo, vogliamo considerare la sete di conquista come una necessità insopprimibile avvertita da chi è preda di questo impulso, tale necessità non giustifica furti, rapine o massacri come sua inevitabile conseguenza. Se ho fame, infatti, e non ho di che mangiare la condizione non giustifica una mia aggressione ai danni di chi ne possiede, specialmente se costui non ha alcuna colpa. Ora, quando al termine di una guerra di conquista il vincitore, mistificando i fatti, dà avvio al processo di mitopoiesi, si verifica che i vinti diventano tutti vili e i vincitori tutti eroi; i primi, se gli va bene, condannati ad una damnatio eterna e i secondi elevati agli onori dell’altare.
La guerra dettata da sete di conquista, per sua natura, non ha bisogno di un motivo per essere scatenata, e quindi, sul piano della liceità, della correttezza e della moralità, è più che biasimevole. Pertanto, se una volta che il vincitore vuole imporre la propria volontà incontra spiriti che a motivo della loro integrità morale e onestà intellettuale hanno il coraggio di contrastare tale imposizione costoro vengono percepiti come la coscienza di chi si è macchiato di un’azione eccepibile, e debbono essere combattuti con tutti i mezzi: calunnia, ostracismo, damnatio memoriae. Così, per giustificare agli occhi della posterità le proprie malefatte, il vincitore comincia a trasformare le sue azioni ignominiose in epopea e a creare tutta una serie di eroi da far impallidire perfino l’ affollatissimo pantheon dell’antica Grecia. Quando poi all’aggressione si uniscono addirittura premesse scientifiche, la mitologia si rivela insufficiente a contenere bugie e calunnie e la fantasia dei vincitori si sbizzarrisce in maniera incontrollabile … E noi regnicoli ne sappiamo qualcosa!
A proposito di bugie, calunnie e falsificazioni sui fatti che hanno determinato la scomparsa del più antico, esteso e coeso regno della nostra penisola: il Regno delle Due Sicilie , il loro numero è talmente elevato che se ne scoprono sempre di “nuove”, anche se vecchie di quasi centosessanta anni. A confronto della nuova scoperta, il grido di dolore raccolto amorevolmente da Vittorio Emanuele II, il furto da parte dei garibaldini dei due piroscafi per raggiungere la Sicilia e tutte le altre calunnie che sono state messe in atto per far apparire un pacifico regno come la culla di tutti i mali e di tutti i valori negativi diventano episodi di secondo piano.
Ed ecco la nuova “scoperta”.
Dal 1° aprile al 31 ottobre del 1861 il Piemonte nominò Direttore delle finanze delle Due Sicilie Vittorio Sacchi con il compito di stilare un rapporto circa un disavanzo di bilancio del regno duosiciliano, fino all’ingresso di Garibaldi a Napoli il 7 settembre 1860. Il disavanzo fu stimato ammontare a 62 milioni di ducati ( circa 26 mila miliardi delle nostre vecchie lire) e il Sacchi, nel suo resoconto, trascurando (forse per mancanza di più tempo, come magnanimamente gli aveva riconosciuto il Savarese) alcuni dati di capitale importanza, aveva descritto l’ex regno “ … come un’azienda gravata di debiti e prossima al fallimento, se la mano pietosa del ministero piemontese non fosse venuta a sorreggerla”. (*) Mentre perveniva a queste conclusioni, un dubbio si era insinuato nella sua mente: “Ma se paese più ricco sia quello nel quale si paga meno di imposte, Inghilterra e Francia dovrebbero essere paesi poverissimi; le steppe della Russia e le lande della America paesi più ricchi e floridi “ . Poi, per un rigurgito di onestà e analizzando sia l’ organizzazione del sistema finanziario duosiciliano che l’operato e la preparazione degli impiegati addetti, non poté esimersi dall’affermare : << … nei diversi rami dell’amministrazione delle finanze napoletane si trovano tali capacità di cui si sarebbe onorato ogni qualunque più illuminato governo>>; affermazione che lo fece cadere in disgrazia presso quelli che erano diventati ormai i padroni dell’Italia.
In risposta alla “mano pietosa del ministro piemontese” un grande ma misconosciuto economista (perché vinto e perché fedele al regime deposto) Giacomo Savarese così si espresse: <<… se le dottrine economiche del signor Sacchi sono quelle degli uomini che ci governano, noi non ci permetteremo nessuna osservazione in contrario; solamente li pregheremmo o di lasciarci nella nostra antica povertà, o di trovare un’altra via per arricchirci>>. (G. Savarese – Le finanze napoletane e le finanze piemontesi dal 1848 al 1860 Ed. Controcorrente 2003, pag. 7).
Ancora il de Sivo: << … Giacomo Savarese fece confronti fra Napoli e Torino. Ambo ebbero il 1848; in Napoli tornò l’antico, a Torino seguitò la libertà. (*)Ambo in 12 anni per cagione della rivoluzione han fatto debiti; ma Napoli crebbe l’interesse per lire 5.210.731, e Torino per lire 58.611,470; cioè questo Stato, mezzo del nostro, fe’ più debiti di noi per interessi di lire annue 53.400.739, cioè quasi dodici volte di più, che fanno per ragion di popolazione ventiquattro volte di più. Poi, confrontate le tasse, trovò che Napoli di nuove non n’ebbe NESSUNA e Torino per nuove e crescimento di vecchie ebbe 22 leggi aggravanti balzelli. Da ultimo confrontate le rendite de’ beni dello Stato, notò nessun palmo di terra demaniale venduto da Napoli; dove Torino con cinque leggi vendé beni nazionali a Torino, Chieri, Gassino, Casella, Chiavasso, Genova, Cuneo e lo stabilimento metallurgico di S. Pier d’Arena. In somma Napoli assoluto non mise tasse nuove, non vendé terre, e restò ricco; e Torino, co’ deputati della nazione, mise con 22 leggi nuove tasse, fe’ debiti per 24 volte più di noi, e con cinque leggi vendé beni nazionali. Nulladimeno da Tile a Battro udivi Napoli imprecato. E Torino sublimato! E Torino, più non avendo da mangiare, venne a mangiar Napoli>>. (*) (G. de Sivo – Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, Libro XVIII par.9).
(*) Il grassetto è mio (Continua)
C. L. Schiano