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L’ITALIA CONTESA “NAZIONE NAPOLETANA” E “NAZIONE ITALIANA” IN GIACINTO DE SIVO

Posted by on Ago 13, 2020

L’ITALIA CONTESA “NAZIONE NAPOLETANA” E “NAZIONE ITALIANA” IN GIACINTO DE SIVO

1. Un legittimista scomodo

Il 14 febbraio 1860, a bordo del piroscafo francese La Mouette, l’ultimo re delle Due sicilie abbandonava per sempre il territorio del regno per rifugiarsi tra le mura amiche della Roma papalina. Le precarie condizioni dell’Italia unita, travagliata dall’insorgenza legittimista nelle province meridionali e dal grave dissesto finanziario, alimentarono però a lungo le illusorie speranze della corte borbonica in esilio di una repentina restaurazione. In breve spazio di tempo, la capitale papale divenne il punto di aggregazione del variegato legittimismo in esilio costituendo la centrale naturale della propaganda borbonica e clericale contro il neonato Regno d’Italia.

Quanto la battaglia sul versante culturale rivestisse un’importanza pari a quella combattuta nelle insanguinate contrade del Mezzogiorno risulta chiaro, ad esempio, dalla ricchezza della biblioteca personale che Francesco II andò accumulando negli anni successivi alla resa di Gaeta e dall’attenzione che egli e il suo entourage coltivarono nei confronti della pubblicistica antiunitaria, con un occhio attento non solo a quella dichiaratamente legittimista ma anche alla più eterogenea produzione di matrice federalista di ambito risorgimentale (1).

a ben vedere, tale ampiezza di interessi rispecchiava la tenace volontà di contrastare su tutti i fronti il consolidamento del nuovo regime ed era anche il prodotto conseguente del tentativo della corte borbonica di sostanziare a poste-

(1) L. Gasperini, Il pensiero politico antiunitario a Napoli dopo la spedizione dei Mille: la biblioteca politica di Francesco II, Modena, soc. tip. Modenese, 1953; cfr. anche e. pirocchi, Il Catalogo della biblioteca politica di Francesco II di Napoli, in «Rassegna storica del Risorgimento», XXIII, 1936, 1, pp. 81-112.

riori il significato di quella travagliata svolta costituzionale del 25 giugno 1860, il cui rinnegamento avrebbe potuto intralciare la via verso l’auspicata restaurazione (2). Il favore espresso da palazzo Farnese verso l’ipotesi federalista, certo imposto dalla situazione contingente, serviva pertanto a tenere viva la polemica sull’applicazione della pace di zurigo (3), ben presto sconvolta dall’abilità diplomatica di cavour, e ad accreditare la monarchia biancogigliata quale valida interlocutrice nel più vasto e composito fronte antiunitario. La breve ma intensa stagione editoriale filo-legittimista fu pertanto seguita e guidata con attenzione dalla corte napoletana e in particolare dal primo ministro del governo in esilio, il marchese pietro calà Ulloa, la cui posizione di primo piano mirava appunto ad asseverare la genuinità della scelta costituzionale del Borbone. In questo contesto, l’ingresso nel 1863 di Giacinto De sivo nella commissione, presieduta dallo stesso Ulloa, incaricata di dare un indirizzo efficace alla propaganda borbonica, era un tentativo di dare maggiore spessore all’offensiva editoriale contro il governo di torino.

De sivo era nato a Maddaloni, il 29 novembre 1814, in una famiglia tradizionalmente fedele alla dinastia. Lo zio paterno, antonio, aveva partecipato alla riconquista del regno nel 1799 distinguendosi nelle “masse” della santa Fede del cardinale Ruffo, mentre il padre aveva servito a lungo nell’esercito borbonico (4). Il rifiuto di prestare fedeltà al nuovo regime e il ritrovamento fortuito, da parte degli uomini di nino Bixio che ne avevano occupato la villa di famiglia, della prima stesura della sua Storia delle Due Sicilie, scritta e lasciata incompiuta dopo i fatti del Quarantotto, costarono a Giacinto un primo arresto a cui ne era seguito un secondo a seguito del suo tentativo di dare vita, a napoli, a un giornale legittimista, La Tragicommedia (5), chiuso dopo appena tre numeri (6). L’esilio obbligato a Roma, consigliatogli dallo stesso settembrini col quale era in buoni rapporti, gli aveva risvegliato l’estro storiografico e già nel 1861 egli aveva dato alle stampe

(2) L. Gasperini, Il pensiero politico, cit. p. 24.

  • 3) Le conferenze e la pace di Zurigo nei documenti diplomatici francesi, serie III: 1848-1860. volume unico (11-12 luglio 1859-24 giugno 1860), a cura di a. saitta, Roma, Istituto storico Italiano per l’età Moderna e contemporanea, 1965; Deutsch W., Il tramonto della potenza asburgica in Italia. I Preliminari di Villafranca e la Pace di Zurigo, Firenze, vallecchi, 1960, p. 67 ss.; R. romeo, Cavour e il suo tempo, 1810-1861, 4 t., Bari, Laterza, 1977-1984, III, p. 449 ss.
  • 4) R. mascia, La vita e le opere di Giacinto de’ Sivo (1814-1867). Il narratore, il poeta tragico, lo storico, napoli, Berisio, 1966, p. 2.
  • 5) vedilo ripubblicato in G. De sivo, La Tragicommedia, a cura di F. M. Di Giovine e G. Marzocco, napoli, Il Giglio, 1993.
  • 6) B. croce, Uno storico reazionario: Giacinto De Sivo, in Scritti di storia letteraria e politica, Bari, Laterza, 1919, XIII, p. 149.

L’Italia e il suo dramma politico, sotto il falso luogo di Bruxelles, in cui la polemica contro i risultati del recente plebiscito si era coniugata con la difesa della soluzione federalista da vedersi quale scelta obbligata per risolvere il problema italiano (7). nel dicembre dello stesso anno, poco dopo la stampa del Discorso pe’ morti nelle giornate del Volturno difendendo il reame, era poi apparso, anonimo, l’opuscolo I Napolitani al cospetto delle nazioni civili, probabilmente la sua opera meglio riuscita per incisività e chiarezza espositiva, che aveva avuto vasta risonanza negli ambienti legittimisti arrivando a una edizione livornese, oltre le prime due romane, e parecchie edizioni clandestine napoletane (8). si era trattato di un attacco durissimo a tutto il processo risorgimentale, intrepretato quale esito innaturale dell’idea rivoluzionaria che dalla Rivoluzione francese in poi si era rigenerata e perpetuata nelle varie sette liberali e radicali e non aveva mai cessato di tramare per attentare alla stabilità dei troni e dell’altare (9). nell’opera, in effetti, De sivo aveva denunciato tutta l’artificiosità del voler riunire sotto un governo unico popolazioni da secoli divise per usi, costumi, tradizioni, istituzioni e leggi, riducendo tutta l’opera di cavour e del governo di torino, supportati dagli intrighi della setta sovvertitrice, ad una mera manovra di espansione territoriale a esclusivo beneficio del piemonte, condotta senza scrupoli e col ricorso alla corruzione, al tradimento e alla violazione delle più elementari norme del diritto internazionale. Il risultato della proditoria “aggressione indiretta” della spedizione dei Mille e della successiva invasione piemontese del regno era stato il disastro economico del Mezzogiorno e l’inizio di una sanguinosa guerra di occupazione. anche in questo caso, De sivo aveva puntato l’indice contro il mancato rispetto del dettato di zurigo, ribadendo che la soluzione ideale per una stabile sistemazione dell’Italia avrebbe dovuto essere una federazione e la lega tra i vari stati preunitari, unico assetto a essere fondato su legittime basi storiche (10). La restaurazione del Borbone sulle avite terre del Meridione d’Italia e la successiva nascita della confederazione italiana avrebbero dovuto però essere accompagnate, secondo De sivo, da un profondo quanto improbabile révirement della politica estera e interna del piemonte che lasciava intravvedere poco spazio per la sopravvivenza dell’interpretazione liberale dello statuto albertino che aveva qualificato tutta l’opera politica di cavour. L’ingresso ufficiale di De sivo nel ristretto circolo guidato da Ulloa non era pertanto avvenuto senza produrre

  • 7) G. De sivo, L’Italia e il suo dramma politico, Bruxelles, s.n.t.,1861.
  • 8) B. croce, Uno storico reazionario, cit., p. 149.
  • 9) G. De sivo, I Napolitani al cospetto delle nazioni civili, s.l, s.n.t, 1862, pp. 10-13.
  • 10) Ivi, pp. 118-121.
  • 11) G. Gasperini, Il pensiero politico, cit., p. 24.

resistenze in alcuni ambienti vicini alla corte. La virulenza dei suoi scritti aveva, infatti, riscosso il favore soprattutto degli elementi più conservatori, quali il principe di acquaviva e il conte di trani, per nulla inclini a subordinare la battaglia per la restaurazione a inaccettabili cedimenti sul versante del costituzionalismo liberale (11). De sivo, inoltre, era riuscito a riottenere il manoscritto della sua Storia, sottrattogli dai garibaldini al momento dell’arresto, e aveva iniziato a lavorarvi sopra alacremente, con l’intento di estendere la narrazione sino agli ultimi giorni del regno delle Due sicilie (12). Lo stesso Francesco II ne aveva letto alcuni capitoli in bozza esprimendo il suo interesse e promettendo all’autore supporto materiale e documentale. La notizia della prossima pubblicazione, diffusasi persino all’estero, aveva però messo in allarme la frangia dei costituzionalisti che sconsigliarono vivamente il sovrano borbonico di dare il suo assenso alla stampa nonostante De sivo avesse incassato al suo attivo il beneplacito del cardinale antonelli. Le resistenze all’attività dello storico di Maddaloni in seno alla commissione per la propaganda si spiegavano col timore che le sue argomentazioni potessero danneggiare l’immagine stessa della monarchia in esilio e si esplicarono in una sorta di ostracismo che impedì la pubblicazione dei suoi articoli sulla stampa romana. Lo stesso discorso in commemorazione dei caduti nell’assedio di Gaeta scritto nel 1861 era stato, del resto, soltanto pubblicato ma non letto pubblicamente, come era in programma, per le reticenze del cardinale D’andrea che avrebbe dovuto presenziare alla manifestazione (13).

come gli eventi successivi avrebbero dimostrato, probabilmente l’acredi-ne verso De sivo scaturiva, però, anche da un diverso ordine di fattori. Già ne I Napolitani l’attacco contro il liberalismo e i suoi sostenitori nel regno aveva gettato qualche ombra sulla coerenza della politica di Ferdinando II dopo il ’49, soprattutto in merito all’operazione di recupero dei “murattiani” compromessisi durante la rivoluzione liberale (14). nel caso della Storia, i cui temi erano già noti a grandi linee entro i circoli legittimisti, era da prevedersi una profonda rilettura della storia politica del regno onde indagare le cause del suo subitaneo e stupefacente disfacimento. Infatti, sin dalle prime pagine introduttive dell’ope-ra, De sivo, profondamente convinto della funzione pedagogica della storia, si mostrava fermo nel suo intento di definire imparzialmente torti e meriti, senza timore di tacere eventuali responsabilità nella condotta della monarchia e dei suoi uomini (15). se, come ebbe a ricordare lo stesso Ulloa, l’uscita del primo volume

  • 12) G. De sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, Roma, salviucci, 1863, I, pp. 10-11.
  • 13) R. mascia, La vita e le opere, cit., pp. 102-4.
  • 14) G. De sivo, I Napolitani, cit., p. 36-8.
  • 15) iD., Storia, cit., I, pp. 13-4.

della Storia nel 1863 aveva riscosso il favore degli elementi più retrivi attorno alla corte in esilio (16), il secondo volume dell’opera, pubblicato l’anno successivo, produsse aspre proteste. L’indagine di De sivo toccava sul vivo questioni ancora aperte e chiamava in causa l’operato di personalità che avevano svolto ruoli di primo piano nel dramma politico degli ultimi dieci anni di vita del regno. particolarmente vibranti furono, ad esempio, le proteste di Giovanni cassisi, ex ministro segretario di stato per gli affari di sicilia, e del principe di satriano, carlo Filangieri (17), mentre le polemiche, in taluni casi, si protrassero a lungo persino oltre la scomparsa di De sivo (18).

naturalmente, il tema dominante dell’innaturalità dell’unificazione italiana si dipanava nelle pagine della Storia riprendendo e ampliando gli spunti già delineati nel precedente I Napolitani, laddove De sivo ribadiva le differenze tra i popoli della penisola e individuava nella diffusione delle sette liberali l’origine di tutti i mali del regno (19). allo stesso modo, veniva ripreso e ampliato il tema, vero leitmotiv di tutta la letteratura filoborbonica, della prosperità perduta del regno, dal quale era facile sviluppare l’attacco contro l’aggressione proditoria del piemonte pianificata allo scopo di procedere alla conquista economica e allo spoglio sistematico delle risorse del Mezzogiorno (20). su tale sfondo, però, lo storico di Maddaloni sviluppava la sua requisitoria sulla debolezza della monarchia estendendola a tutto il periodo dal ’48 alla fine del regno. ne veniva fuori un quadro del tutto sconfortante dell’incapacità da parte del Borbone di sviluppare una classe dirigente capace e fedele di fronte a una pervasività della setta che, pur lasciando intatti i ceti popolari dal contagio, avrebbe tolto incisività all’azione di governo. Di qui tutta la serie quasi infinita di tradimenti e di fallimenti durante gli snodi decisivi della storia del regno in un crescendo che avrebbe raggiunto il culmine nei mesi fatali del 1860: nunziante, pianell, Landi, anguissola e clary figuravano nella Storia quali ultimi esempi di un cerchio che si era aperto agli

  • 16) p. ulloa, Un re in esilio. La corte di Francesco II a Roma dal 1861 al 1870, Bari, Laterza, 1928, p. 13 ss.
    • 17) R. mascia, La vita e le opere, cit., p. 105.
    • 18) cfr. ad esempio l’opuscolo del comandante dell’esercito napoletano sul volturno, il generale Giosuè Ritucci, la cui conduzione delle operazioni era stata fortemente criticata da De sivo nella Storia, G. ritucci, Commenti confutatorii del tenente gen. Giosuè Ritucci sulla campagna dell’esercito napolitano in settembre e ottobre 1860 trattata nella storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861 di Giacinto De Sivo pubblicata in Roma, Verona, e Viterbo nel 1866-67 precessi dalla corrispondenza secoloro tenutasi, napoli, stab. tip. dell’Italia, 1870.
    • 19) G. De sivo, Storia, cit., I, pp. 17-22.
  • 20) iD., Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, verona, vicentini e Franchini, 1865, III, pp. 104-107.

albori della restaurazione, da Intonti a Del carretto sino a don Liborio Romano, vera icona della categoria del “traditore” (21). persino satriano, di cui non si disconoscevano i meriti, non restava immune dai sospetti per il suo comportamento ambiguo durante gli ultimi mesi di vita del regno (22). a differenza di altri autori legittimisti, però, che puntavano l’indice quasi esclusivamente contro il potere corruttore dell’oro, profuso a piene mani dagli agenti della setta e dagli emissari del piemonte (23), in De sivo la catena dei tradimenti e dei fallimenti individuali veniva comunque ricondotta -sebbene non sempre in modo esplicito- alla debolezza quasi congenita della monarchia borbonica nel crearsi una reale base di consenso nel paese. emblematico in tal senso appariva, ad esempio, il caso dell’esercito napoletano, la cui frattura a livello politico tra ufficiali e soldati risaliva agli insegnamenti ricevuti nelle accademie abbondantemente infiltrate da docenti di sentimenti liberali (24). a ben vedere, tale frattura, del resto verificabile anche all’interno delle altre forze armate e –più in generale- in tutta la pubblica amministrazione, era lo specchio dei rivolgimenti sociopolitici che travagliavano il regno dall’apertura del ciclo rivoluzionario e napoleonico in poi con la crescita della borghesia e lo spirito di rivalsa risvegliatosi in alcuni settori dell’antica nobiltà decaduta.

nella mezzana classe serpeggiava meglio il veleno straniero, il sofisma, e la erudizione sbiadita; e si levava a desiderii di subite salite, e pigliar nome e uffizii; onde smesso il freno religioso, vagheggiava forme di governo dove di leggieri potesse entrare. […] Di tutte le classi la media è la più sprofondata nel lusso,

o che il possa o no. Ha prurito di parer grande; il fa come può con le carrozze, le porcellane e le assise; e della moda sente frenetica necessità. e peggio che questa classe media ingrossa ogni dì. v’entra il nobile scaduto, per le mancate sostanze e i cresciuti bisogni; e come non potendo essere vuol parere, si lancia di leggieri nelle rivoluzioni, dove spera subiti guadagni. aristocratici nell’ossa,

  • (21) sul personaggio cfr. R. moscati, Liborio Romano, in «Rassegna storica del Risorgimento», XLvI, 1959, n. 2-3, p. 163-173; a. De leo, Don Liborio Romano, un meridionale scomodo, soveria Mannelli, Rubbettino, 1981; G. vallone, Dalla setta al governo: Liborio Romano, napoli, Jovene, 2005; e più recentemente n. perrone, L’inventore del trasformismo. Liborio Romano, strumento di Cavour per la conquista di Napoli, soveria Mannelli, Rubettino, 2009.
    • (22) G. De sivo, Storia, cit., III, p. 52 ss.
  • 23) si veda ad esempio lo stesso p. ulloa, Delle presenti condizioni del Reame delle Due Sicilie, s.l., s.n.t., 1862, p. 5 ss., oppure B. coGnetti, Passato e presente nel Reame delle Due Sicilie, Bruxelles, s.n.t., 1862, p. 8.
  • 24) G. De sivo, Storia, cit., III, pp. 118 ss. e 299 ss. Frattura simile si ritrovava, naturalmente, anche nella flotta napoletana il cui comportamento fallimentare durante i mesi decisivi del 1860 andava imputato al “tradimento” degli ammiragli e degli ufficiali, cfr. G. De sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, viterbo, sperandio pompei, 1867, Iv, pp. 52 ss. e Storia, cit., III, pp. 301 ss.

contraffanno democrazia per farsene sgabello, ignoranti parlan di progresso, prepotenti vantano uguaglianza; infanciulliti con fievoli pensieri in bazzecole, trinciano politica e legislazione; e bassi sollecitatori di ciondoli e nastri, fanno i Bruti per diventare antonii. antonio fu appunto un nobile scaduto (25).

certo, il Borbone restaurato nei suoi domini dopo la caduta di Gioacchino si era trovato di fronte una realtà complessa, per i pesanti condizionamenti internazionali, il trattato di casalanza, e per la conseguente oggettiva difficoltà a trovare un equilibrio tra volontà restauratrice e necessità di mantenere le principali riforme del “decennio”. Inoltre, la brusca riduzione della mobilità sociale nel periodo della restaurazione, altro tema storiograficamente rilevante ben colto dalla sensibilità di De sivo (26), avrebbe offerto alle sette liberali ulteriori possibilità di diffusione entro una società già divisa sul crinale politico. La situazione si sarebbe poi aggravata all’indomani della rivoluzione del 1820 per il grave peso finanziario dell’occupazione austriaca e per le ulteriori lacerazioni nel tessuto sociopolitico del paese a restaurazione avvenuta (27).

In effetti, i legittimisti più accorti come Ulloa erano consapevoli di quanto lo spazio di manovra della monarchia in politica interna fosse di fatto limitato dalle pressioni continue delle grandi potenze (28). nella narrazione di De sivo però, ferme restando le pesanti responsabilità di queste ultime -soprattutto della Gran Bretagna- sul triste destino del regno, le carenze della corte napoletana nella gestione della propria classe dirigente e nelle scelte di politica interna prevalevano nell’economia generale del discorso assumendo valore decisivo al momento di indagare sulle cause remote del lento declino della macchina statale che avrebbe favorito la caduta delle Due sicilie (29). ad esempio, anche i più lusinghieri

  • 25) Ivi cit., I, pp. 18 e 57-8; ma anche ivi p. 135: «ora, distrutta la feudalità, è surta la classe mezzana; la quale per la nuova civiltà, e pel buon governo, fatta ricca e numerosa, agogna a pigliar lo scettro».
    • 26) sul punto cfr., ad esempio, M. meriGGi, Gli Stati italiani prima dell’Unità. Una storia istituzionale, Bologna, Il Mulino, 2002, p. 111 ss.
    • 27) G. De sivo, Storia, cit., I, p. 70 ss.
    • 28) p. ulloa, Lettere, cit., p. 23.
  • 29) sul crollo del Regno borbonico, indagato nell’ambito del mutamento della bilancia di potere europea, rimando a e. Di rienzo, Il Regno delle Due Sicilie e le Potenze europee, 1830-1861, soveria Mannelli, Rubbettino, 2012. per l’inserimento della fine dello stato duosiciliano nel più generale contesto di debolezza dei regni borbonici cfr. c. pinto, Sovranità, guerre e nazioni. La crisi del mondo borbonico e la formazione degli Stati moderni (1806-1920), in «Meridiana», Xv, 2014, 81, pp. 9-25 e R. De lorenzo, Sistemi patriottici: tempi e spazi delle identità nazionali, ivi, pp. 105-130, e in generale tutti i saggi contenuti nel volume citato. si veda anche c. pinto, Guerras europeas, conflictos civiles, proyectos nacionales. Una interpretación de las restauraciones napolitanas (1799-1866), in «pasado y Memoria. Revista de Historia contemporánea», 13, 2014, pp. 95-116.

risultati dell’opera di governo di Ferdinando II, la raggiunta stabilità finanziaria e la prosperità delle casse dello stato, non si erano rivelati privi di gravi limiti ed effetti collaterali (30). pesanti tagli ai bilanci ministeriali e la necessità di risparmio a ogni costo avevano condotto a numerose frizioni tra le varie branche dell’amministrazione e a un pericoloso scollamento tra le esigenze dei vari dicasteri sottoposti a un asfissiante controllo da parte del ministero delle Finanze.

Le tante economie, se coordinate con gli altri principi governativi, sarebbero state gran bene; ma sole, in disarmonia col resto, ne furono talora danno. esse così assorbirono gli occhi de’ governanti, che questi sol badando al risparmio non vedevan altro. In ogni cosa si voleva spendere poco. poco per soldi a uffiziali, e n’erano spinti a disonestà; poco per molte opere pubbliche, e talora se ne avean melense; poco per indennità di viaggi, e non s’andava a vedere le cose; poco per la polizia, e quasi più non v’era polizia; poco per tutto, e spesso mancava il decoro. soprattutto fu cieca l’economia su’ bassi impiegati. […] e il più per campare si vendé alla setta. […] La Finanza per risparmiare battagliava con tutti i ministeri […] quasi il governo non fosse uno, ogni ministero attendeva a stringere tutti; ogni primario amministratore studiava la lesina per presentare risparmii alla fine dell’anno. […] tanti stringimenti si facevano per non imporre altre tasse, ma essi partorivano una maniera di tasse illegali; perciocché gli uffiziali bisognosi e pagati male, si vantaggiavano sulla povera gente; la quale giudicando grosso, a ogni motto dicevali tutti ladri. Quindi mance per ogni cosa, a uscieri, a servitori, regalie indecorose il natale e la pasqua, gli onomastici e i morti; s’era fatto andazzo nel quale pur qualche onesto cadeva (31).

Le economie rigorose e la corruzione diffusa che ne derivava, pertanto, avevano effetti devastanti su tutto il buon funzionamento della macchina amministrativa, in particolari su settori vitali come la pubblica sicurezza.

Dissi iti alle Finanze i fondi per le spese di polizia: ciò tolse al ministero la potenza preventitrice de’ reati; ché chi per niente fa l’arte della spia? e chi la fa a prezzo, se questo è palese, fuggito da tutti, niente spia. nelle province gl’intendenti non avevano un ducato da spendere in segreto, e per averne aperto era uno stento. però mancandosi di occhi ad appurare i maneggi settarii, la

(30) sul punto si vedano le acute riflessioni sul regno di Ferdinando II di a. spaGnoletti, Storia del Regno delle Due Sicilie, Bologna, Il Mulino, 1997, pp. 271-306; più recentemente, cfr. anche R. De lorenzo, Borbonia Felix. Il Regno delle Due Sicilie alla vigilia del crollo, Roma, salerno, 2013, passim.

(31) G. De sivo, Storia, cit., III, pp. 107-8.

polizia stava solo per le cose comuni, dove riusciva pianta parassita anzi che fruttuosa. I suoi bassi agenti scarsi di soldo, e talor d’onestà, s’ingegnavano a render servizii per mance a’ ricchi; su’ poveri pesavano; ond’essa in breve restò fiacca per la sicurezza dello stato, valida per noiar la buona gente. così s’avvez-zavano a poco guardare, a niente operare; e chi si zelava tacciavano imprudente

o almanaccante, mandavanlo viaggiando per province discoste. Finì ch’anco i buoni uffiziali si turarono la bocca, per non aver guai da quello stesso governo che dovea premiarli (32).

In tale situazione, inoltre, non c’era da meravigliarsi della scarsa efficienza delle forze armate, oppresse dai tagli agli organici, dall’inesistenza di reali periodi di addestramento, dai mancati reintegri, e da una progressione di carriera di fatto bloccata sino al limite del possibile con pochissimo spazio al merito. così, anche il semplice rischieramento di un reggimento da una provincia all’altra diventava un’autentica calamità per le autorità locali e i sindaci che spesso erano costretti a pagare di tasca propria il mantenimento delle truppe onde evitare incidenti. con poche eccezioni riguardo i battaglioni cacciatori e la cavalleria, l’esercito di terra si presentava all’appuntamento con Garibaldi privo di armamento moderno, con organici scheletrici, quadri invecchiati e senza adeguata istruzione militare, ma soprattutto profondamente spaccato sul versante politico con generali e ufficiali superiori tra i quali da tempo serpeggiava il “veleno” della setta. Già dal 1858, al primo oscurarsi dell’orizzonte internazionale, si era proceduto all’arruolamento di 36000 nuove reclute alle quali se ne aggiunsero altre 18000 nel ’60, mentre si supplì alla carenza di sottufficiali con un’ondata di promozioni all’ultimo minuto (33). Le conseguenze di tutto ciò erano facili da immaginare ed erano affiorate in piena luce durante le sfortunate operazioni contro il nizzardo (34).

all’intreccio tra corruzione e politica fiscale si aggiungeva poi la progressiva paralisi politico-istituzionale del regno, questa volta diretta conseguenza dell’in-dirizzo di governo perseguito da Ferdinando II. proprio l’energia, l’attivismo e l’indubbio carisma del sovrano avrebbero aggravato i già evidenti limiti dell’im-palcatura statale che risaliva alle riforme di epoca francese favorendo, nel tempo,

  • 32) Ivi, p. 114.
  • 33) Ivi, pp. 117-122.

(34) per riscontri e conferme della narrazione di De sivo cfr. t. BattaGlini, Il crollo militare del Regno delle Due Sicilie, Modena, società tipografica Modenese, 1939; iD., L’organizzazione militare del Regno delle Due Sicilie. Da Carlo III all’impresa garibaldina, Modena, società tipografica Modenese, 1940, in part. pp. 163 ss.; p. pieri, Storia militare del Risorgimento, torino, einaudi, 1962, pp. 684-726.

un soffocante accentramento amministrativo cui faceva da corrispettivo una parallela elefantiasi burocratica.

tratta la potestà al re, i ministri suoi l’imitavano ove potevano; sicché ogni dì più si tirava al centro, con vero danno pubblico. Il governare vuol essere, accentrato, ché un sol pensiero dee volgere tutte volontà ad un fine; ma l’am-ministrare, che non volontà ma cose riguarda, non si può accentrare. confuso l’amministrare col governare, se n’eran pur confuse le branche e i concetti; né più se ne sapeva o voleva vedere la differenza. si governano gli uomini, e si amministrano le cose; però si può da lontano governare, non si può da lontano amministrare. eppure tutti da napoli volevano amministrare province, ospizii, soldatesche, collegi, fortezze, diocesi e ogni cosa. Mentre i direttori nelle cose di governo mancavano d’indirizzo uno, tutti poi le cose amministrative tiravano a sé, pel piacere di comandare. non isceglievano uffiziali buoni, e volevanli macchine, passatori di carte; il che n’avvezzò a non pensare, né a provvedere, altrimenti che schizzando inchiostro (35).

In questo modo, risultava per De sivo molto più agevole comprendere anche le cause del tracollo delle forze armate durante i mesi cruciali del 1860. al di là di considerazioni di natura politica, posti di fronte all’intraprendenza garibaldina, i reparti del regio esercito si erano dimostrati privi di qualsiasi spirito di iniziativa con ufficiali avvezzi alla passività o intralciati da ordini superiori non adeguati alla situazione operativa contingente.

Da un punto di vista generale, tutto il regno di Ferdinando II si poteva dividere in due periodi attorno allo spartiacque del Quarantotto. In una prima fase, la tendenza del giovane sovrano a invadere la sfera di competenza dei propri ministri era stata contenuta da una maggiore fiducia nel personale di governo, scelto per lo più tra elementi di estrazione murattiana. ciononostante, e anche grazie al servilismo e alla chiusura mentale di questi ultimi, i limiti della monarchia amministrativa non erano stati affrontati, accentuando così l’annoso problema del rapporto tra centro e periferia, tra la capitale e le sue province. poi, dopo la ventata rivoluzionaria, venuta meno la fiducia verso i propri collaboratori, l’attivismo del re non avrebbe avuto più freno con effetti devastanti su tutta la pubblica amministrazione (36), ponendo così le basi per la futura implosione del regno. sul

(35) G. De sivo, Storia, cit., III, p. 109.

(36) «tutto si tirò al ministero; quindi istruzioni, regolamenti, lettere, rampogne a milioni, per indurre l’amministrazione a formole da risolvere tutti i casi a una misura: si volea napoli preveder tutto, saper tutto, approvare o disapprovar tutto. Gl’intendenti e i sindaci non potean muovere un

versante internazionale, il protagonismo del sovrano si sarebbe concretizzato in un crescente isolamento diplomatico, in un’ostinata neutralità alla quale faceva da corrispettivo un nocivo disinteresse nel difendere l’immagine pubblica delle Due sicilie dalle critiche e dalle calunnie della propaganda liberale che, invece, avevano modo di trovare ampio credito presso l’opinione pubblica e i gabinetti occidentali (37). sul piano della politica interna, al crescente accentramento si aggiungeva ora una malcelata ostilità verso la cultura, l’intelligenza e il merito, finendo per compromettere definitivamente le possibilità della monarchia di creare attorno a sé una valida classe dirigente.

temuti gli uomini di testa, s’andò cercando la mediocrità, perché più mogia; non si volle o non si seppe cercare i migliori e porli ai primi seggi. e come tutto si tirava alla potestà, i ministri volean parer di fare essi tutto, e però anche del bene che facevano non trovavan merito. Fur messi a una spanna amici e nemici, dotti e ignoranti, operosi e infingardi; e per non fidarsi in nessuno, e non aver bisogno d’intelletti, fu ridotta a macchina l’amministrazione e il governo. si credeva così non s’avesse mestieri a pensare; e una certa forma d’architettura moveva il tutto. Ma gli uffiziali stessi, usati a mo’ di strumenti, se ne ridevan, o sbottoneggiavano, e profetavano l’impossibilità della durata. La nave dello stato non provveduta di piloti andò in tempo di calma più anni barcollando; poi al primo sbuffo, non trovandosi mano esperta al timone, senza guida affondò (38).

carlino, non rimuovere un servo comunale. conseguitava uno scrivere eterno, un andare e venire di carte, dimande, spiegazioni, incertezze ed errori […]. non si lasciavano amministrare secondo la legge a quindici Intendenti le province loro; e per accentrare la amministrazione la si sparpagliava in mille del ministero; onde udivi definizioni dissimili da casi consimili, e vedevi capricci, arroganze, deferenze e peggio», Ivi, p. 111.

(37) G. De sivo, I Napolitani, cit., p. 30 ss.

(38) iD., Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, Roma, salviucci, 1864, II, p. 255; ma cfr. anche Storia, III, pp. 102-3: «visti i danni venuti da ministri discordi e potenti, passato il 48 [Ferdinando] fe’ l’opposto; ché prese volentieri uomini mezzani a uffiziali. e il più li volle non ministri ma direttori, cioè capi d’amministrazione non di governo, d’esecuzione non di comando, facitori non pensatori. a sé volse la somma delle cose alte e basse; e spese la vita a un lavorio immenso, cui uomo non bastava, e vi macerò i giorni suoi. […] Quindi molta forma, poco pensiero, spesso la forma alterava la legge, tra tante carte filtrava l’arbitrio; quindi falli di macchina senza responsabilità, pregio l’ubbidienza, non rampognato il mal fatto. ciò adusava gli uffiziali a cercar piuttosto di trovarsi bene che di far bene: però salivan su i mediocri, perché docili ad andare a verso di chi poteva più. correa come di sapienza il motto: chi più fa meno fa. sinchè fu bonaccia s’andò avanti, al primo uragano si perigliò e il senno del non fare la die’ vinta a’ congiuratori che facevano. Ferdinando avea nelle mani tutte le volontà; mancato esso appunto nel gran momento del bisogno, non si trovò chi abbrancasse il timone; lo stato fra’ marosi fu nave senza pilota».

esasperato accentramento amministrativo e conseguente dittatura burocratica, inefficienze e squilibri nella spesa pubblica, corruzione diffusa in ogni ramo delle istituzioni, isolamento internazionale e gretto conservatorismo all’interno assieme alla progressiva alienazione da parte della monarchia delle forze vive del paese: ce n’era a sufficienza per avvicinare sorprendentemente De sivo alle grandi firme dell’opposizione liberale e democratica da settembrini a Ricciardi. certo, il punto di partenza dello storico di Maddaloni era opposto a quello dei suoi colleghi liberali. esso prendeva le mosse dal rigetto totale dei risultati della filosofia dei Lumi e della Rivoluzione francese, del liberalismo e dello stesso romanticismo accomunati nella medesima categoria di epifenomeni dell’ormai secolare sforzo della setta sovvertitrice di ogni tradizione e dei valori cristiani. Di fronte della gravità dei mali, De sivo si affrettava a svalutarne il peso specifico giudicandoli frutto più della qualità degli uomini al governo- altra accusa, a ben vedere, alla costante incapacità della monarchia nel crearsi un ceto di governo responsabile- che al complesso delle leggi e dell’architettura amministrativa. eppure, con molta onestà di storico, pur stigmatizzandone la virulenza, De sivo non aveva difficoltà ad ammettere la fondatezza delle accuse mosse, ad esempio, da settembrini nella sua impietosa Protesta del popolo delle Due Sicilie (39). onestà intellettuale che, come spesso purtroppo accade, gli sarebbe costata la progressiva emarginazione dal ristretto circolo legittimista di Roma. Lo stesso Mascia, autore dell’unica biografia dello storico di Maddaloni, di fronte alla profondità dell’analisi storica di De sivo, avrebbe avuto difficoltà ad affibbiargli tout court l’etichetta di borbonico (40), mentre nella Roma papalina già a pochi anni dalla sua scomparsa non mancava chi, paradossalmente, credeva di rilevarne la vicinanza con le idee liberali (41).

Da un altro punto di vista, inoltre, la visione di De sivo della nazionalità napoletana differiva per certi aspetti da quell’immagine delle Due sicilie come plurisecolare nazione-regnum consolidatasi da tempo nella cultura storico-politica

(39) G. De sivo, Storia, cit., I, pp. 155-6. per un utile confronto si veda L. settemBrini, Protesta del popolo delle Due Sicilie, napoli, Morano, 1891, in part. pp. 3-5, 11-29 e passim, ma cfr. anche iD., Ricordanze della mia vita, a cura di F. De sanctis, napoli, Morano, 1926, I, pp. 201-7 e 225-8; sul settembrini cfr. il saggio ancora utile di a. scirocco, Luigi Settembrini politico e patriota, in «Rassegna storica del Risorgimento», LXIv, 1977, 2, pp. 131-141; iD., Settembrini cospiratore, in «esperienze Letterarie», II, 1977, n. 2-3, oltre al vecchio profilo biografico di a. omoDeo, Luigi Settembrini, in Difesa del Risorgimento, torino, einaudi, 1951, pp. 236-267.

  • 40) R. mascia, La vita e le opere, cit., p. 24.
  • 41) Ivi, p. 15.

del Mezzogiorno preunitario (42). certamente, gli elementi fondanti di quest’ulti-ma, basati sull’intreccio tra la lunga durata del sentimento di fedeltà monarchica, il primato della capitale e il protagonismo dell’iniziativa politica delle istituzioni pubbliche rispetto a quella delle forze economiche e sociali, affioravano ancora nitidi nella narrazione desiviana, ma si prestavano a torsioni interpretative significative che erano il prodotto della riflessione stessa sulle cause profonde della fine ingloriosa del regno.

Già dalle prime pagine della Storia, in effetti, De sivo ricordava ai lettori il costante carattere legittimista delle insurrezioni nel regno, le cui popolazioni si erano sollevate sempre allo scopo di reinsediare sul legittimo trono la dinastia borbonica (43). Del resto, «la consuetudine al principato, otto secoli di colleganza fra re e popolo, la gratitudine e la simpatia, fan qui della monarchia un sentimento, che s’afforza negli affetti, nelle tradizioni, negli interessi e nel bisogno del paese» (44). allo stesso modo, la perdita per napoli dello status di capitale aveva costituito un vulnus di portata eccezionale all’autocoscienza nazionale delle Due sicilie: «una napoli senza re, senza ministero, senza nobiltà; una napoli monumentale diventare uguale a salerno od a chieti, è idea da non si poter concepire» (45). non bisogna però dimenticare quanto la tenace fedeltà al Borbone delle popolazioni meridionali avesse incontrato, per De sivo, un grosso contrappeso nel malfido atteggiamento della classe media liberaleggiante e proprio quanto napoli, assieme agli altri centri maggiori, avesse costituito il terreno di coltura ideale e naturale per la diffusione della velenosa pianta settaria rispetto alle province (46). pure, lo stesso primato politico delle istituzioni pubbliche rispetto agli impulsi delle forze economiche e sociali si era tramutato, come si è visto, in fattore di criticità allorquando l’iniziativa sovrana avrebbe posto proprio le istituzioni pubbliche in condizioni di nuocere alla sopravvivenza del regno.

Inoltre, dalle pagine della Storia e dal resto della produzione storiografica desiviana emergeva un’immagine della nazione napoletana quale prodotto di natura prettamente storico-culturale più che etnico-naturale che, come vedre-

(42) sul punto, cfr. le acute considerazioni di a. musi, Mito e realtà della nazione napoletana, napoli, Guida, 2016, passim; iD., La nazione napoletana prima della nazione italiana, in Nazioni d’Italia. Identità politiche e appartenenze regionali fra Settecento e Ottocento, a cura di a. De Benedictis, I. Fosi, L. Mannori, Roma, viella, 2012, pp. 75-89; cfr. pure c. pinto, La guerra del ricordo. Nazione italiana e patria napoletana nella memorialistica meridionale (1860-1903), in «storica», XvIII, 2012, 54, pp. 45-76.

  • 43) G. De sivo, Storia, cit., I, pp. 15-17.
  • 44) Ivi, p. 18.
  • 45) G. De sivo, I Napolitani, cit., p. 86.
  • 46) iD., Storia, cit., I, p. 113.

mo, avrebbe condotto lo storico di Maddaloni a considerazioni e conclusioni sul tema molto lontane da quelle del resto della memorialistica legittimista (47). ogni «paese» dell’Italia preunitaria costituiva per De sivo «uno stato intiero» e condividendo «sangue, storie e passioni e bisogni suoi» si era sempre mostrato geloso della propria indipendenza, delle «sue leggi, il suo nome, e la sua vita: e niuno vorrà perdere l’essere, cioè uccidere sé, per far presente del suo spento corpo ad una città lontana o ad un tutto ideale» (48). Ma proprio nel tentativo di dimostrare l’impossibilità e l’innaturalità dell’unificazione della penisola, egli giungeva subito a stemperare di molto, nel complesso della sua opera, il tono di affermazioni del genere e a riconoscere la multiforme varietà etnica su cui si fondavano le stesse Due sicilie il cui collante andava, pertanto, ricercato a livello culturale e storico attorno ai pilastri, per quanto giudicati diversamente rispetto ad altri autori legittimisti, costituenti l’immagine della nazione-regnum sul quale ci siamo soffermati.

L’Italia antica più ancora della Grecia fu sin dai principii popolata da popoli molti e diversi. a’ tempi eroici furono guerre in Flegra, che adombrano, come chiarì il vico, le lotte campane fra gli opici e i Greci, fra gli uomini della terra e quelli giunti dal mare. I pelasgi non fecero una Italia, né gli etruschi, né i Greci, né i troiani. ciascun popolo si adagiò sur un canto di terra; e fur parentele e guerre e paci fra loro, senza più. virgilio numera centinaia di popoli confederati con turno o con enea. e Livio narra le fatiche de’ Romani per domarli. Umbria, etruria, Lazio, Liguria, venezia, Gallia, Lucania, campania, sannio, Irpinia, apulia, caonia, sabinia, sicania, ernicia, Daunia e cento altri nomi avevano queste contrade. I savii Romani non pensarono a fonderle mai; ma lor serbarono le autonomie, cioè leggi, magistrati e governo; e soltanto le federarono, onde n’ebbero aita e forza. e pure patirono la rivoluzione, detta

(47) In breve, sull’evoluzione dell’idea di nazione e sulla sua sistemazione concettuale, oltre al classico lavoro di F. chaBoD, L’idea di nazione, Bari, Laterza, 1961, cfr. anche i saggi contenuti nel volume What is a Nation? Europe 1789-1914, t. Baycroft – M. Hewitson (eds.), new York, oxford University press, 2006; cfr. anche F. tuccari, La nazione, Roma-Bari, Laterza, 2000; Nationalism and Ethnic Conflict: Philosophical Perspectives, n. Miscevic (ed.), chigaco and La salle, open court, 2000; D. schnapper, Community for Citizens: On the Modern Idea of Nationality, new Brunswick and London, transaction publishers, 1998; interessanti, inoltre le considerazioni di B. c. J. sinGer, Cultural versus Contractual Nations: Rethinking Their Opposition, in «History and theory», 35, 1996, 3, pp. 309-337, che suggerisce di semplificare nella contrapposizione tra nazione culturale (nella quale ricomprendere anche gli elementi di natura “etnico-naturale”) e politico-contrattuale la classica tripartizione schematica del concetto di nazione.

(48) G. De sivo, I Napolitani, cit., p. 78.

guerra sociale, per la federazione de’ socii contro di essi. e quando dopo con

cedettero a tutti gl’Italiani la cittadinanza romana, cioè il diritto del suffragio,

allora venne meno il senno di Roma (49).

Del resto, come è agevole notare scorrendo i testi, i riferimenti alle «popolazioni», o ai «popoli», del regno erano frequenti in tutta la produzione storiografica di De sivo e la repulsione verso un’idea di nazione fondata su basi etniche sorgeva spontanea anche dal profondo senso religioso e cristiano che ne caratterizzava tutta l’opera.

veggiamo per contrario che si fan qua e là sorger desiderii esclusivi di nazionalità. Invece di anelare ad esser tutti una famiglia, tentiamo a disunirci con l’egoismo delle razze. anzi che abolire la idea di straniero, la esageriamo, e risvegliamo le gelosie e le ambizioni. Ma questo pensiero che ne richiama a’ tempi rozzi, e fa considerare nemico qualunque parli una diversa lingua, è un pensiero vecchio che accenna a disgiungere quanto cristo annodava; è ritorno al paganesimo che appellava barbaro lo straniero, e lo voleva morto o servo. Ma noi siam tutti […] fratelli; e piuttosto che evocare dalla notte de’ secoli i pagani concetti delle nazionalità, per isconvolgere e saccheggiare il mondo, ci sarebbe opera insigne il torre via per sempre il mal vezzo delle guerre e delle conquiste (50).

come vedremo, dunque, tanto la Storia quanto tutto il resto della produzione storiografica di De sivo offrivano profondi spunti di riflessione per meglio comprendere la dimensione del dramma, per lungo tempo irrisolto, scaturito dalla scomparsa della nazione napoletana e dalla sua forzata inclusione nella più grande nazione italiana. per giungere a questo punto, però, è necessario volgere prima lo sguardo al tema relativo alla natura del brigantaggio e alla guerra civile insorta all’indomani del 1860.

(49) Ivi, pp. 73-4.

(50) Ivi, p. 8, e cfr. anche, ivi, pp. 7-8: «così se il mondo avesse potuto contenere una società sola, non avrebbe veduto le guerre che sono la brutalità delle nazioni. Ma per lunghi secoli l’una società insidiava o asserviva l’altra; sicché il cristianesimo le strinse quasi tutte nel suo amplesso. La religione fu il magistrato che mise in potenza di civiltà le nazioni. però la guerra è un ritorno della società allo stato brutale; è dar ragione alla gagliardia del pugno. Il mondo pertanto sarà pienamente civile, allora quando le stirpi umane, di qualsivoglia linguaggio, congiunte in cristo, avranno il magistrato che diffinisca le loro liti, e vieti il tuonar del cannone».

2. Brigantaggio e guerra civile

«Quello ch’appellavano brigantaggio era guerra, e la più terribile che mai popolo facesse a dominatori ingiusti; perché lor toglieva sangue, moneta, e riputazione» (51). con queste parole De sivo riconosceva con chiarezza la natura squisitamente politica dell’insieme delle insorgenze antiunitarie che travagliarono il Mezzogiorno a partire dagli ultimi mesi del 1860: una legittima prosecuzione, con le armi della guerriglia, della “guerra grossa” conclusasi sfavorevolmente per le bandiere borboniche lungo il corso del volturno e le mura di Gaeta e civitella del tronto. Riconoscimento che in campo liberale, come è noto, fu concesso solo a fatica e spesso risultò confinato entro il sicuro recinto delle conversazioni private e della corrispondenza epistolare (52).

conferire piena dignità politica alle insorgenze antiunitarie rischiava, infatti, di mettere in discussione i presupposti ideologici di tutto il processo risorgimentale (53), soprattutto in presenza di una pericolosa polemica a distanza col governo borbonico in esilio di fronte all’incrudelirsi della spirale di violenza (54). L’insorgere del brigantaggio, inoltre, dissolvendo le illusioni degli uomini della Destra storica di una rapida integrazione dei territori delle Due sicilie, aveva favorito il consolidarsi in essi, e negli stessi esuli meridionali, di una serie di pregiudizi negativi sulla società civile meridionale e sulle sue capacità di partecipazione attiva e spontanea entro gli spazi politici offerti dallo stato liberale e unitario (55). pertanto, la difficoltà a decifrare la realtà sociale, politica ed economica

  • 51) G. De sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, viterbo, sperandio pompei, 1867, v, p. 165.
  • 52) s. lupo, Il grande brigantaggio, in Storia d’Italia, Guerra e pace. L’Elmo di Scipio. Dall’Uni-tà alla Repubblica, torino, einaudi, 2002, 28, p. 473 e ss; cfr. anche iD., L’unificazione italiana. Mezzogiorno, rivoluzione, guerra civile, Roma, Donzelli, 2011, p. 124 ss.
  • 53) a. M. Banti, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita, torino, einaudi, 2000, p. 200 e passim.
  • 54) a. scirocco, Introduzione a Guida alle fonti per la storia del brigantaggio postunitario conservate negli archivi di Stato, Roma, Ministero per i beni culturali e ambientali, 1999, pp. XIv-XXIv.
  • 55) p. macry, Unità a Mezzogiorno. Come l’Italia ha messo assieme i pezzi, Bologna, Il Mulino, 2012, pp. 25-6; cfr. anche J. Dickie, Darkest Italy. The Nation and Stereotypes of the Mezzogiorno 1860-1900, new York, palgrave Macmillan, 1999; n. moe, «Altro che Italia!». Il sud dei piemontesi (1860-61), in «Meridiana», 1992, 15, pp. 53-89 e iD., Un paradiso abitato da diavoli. Identità nazionale e immagini del Mezzogiorno, napoli, L’ancora del Mediterraneo, 2004; a. De Francesco, Brigandage méridional ou révolte politique? Les lectures culturelles des élites politiques italiennes dans les années 1860, in La Contre-révolution en Europe, a cura di J. c. Martin, Rennes, pUR, 2001, pp. 269-277 e iD., Insorgenze e identità italiana, in Nazione e Controrivoluzione nell’Europa

del Mezzogiorno rendeva quasi naturale e obbligata la lettura delle insorgenze antiunitarie come il prodotto inevitabile del trauma dell’unificazione in un contesto segnato dall’arretratezza, dalla debolezza delle istituzioni statali, e da decenni di malgoverno borbonico a cui si aggiungeva ora l’azione sobillatrice della corte in esilio e del clero legittimista. In tali circostanze, per la maggioranza moderata al potere, il rimedio per le regioni meridionali passava per una politica di rilancio economico subordinata alla preventiva restaurazione dell’ordine pubblico (56). L’asprezza della contrapposizione politica tra moderati e democratici, che si era palesata in modo drammatico dalla decisione di sciogliere l’esercito garibaldino e dal durissimo scontro che ne era seguito tra cavour e lo stesso Garibaldi (57), aggiungeva pertanto ulteriori ostacoli a una lettura distaccata e costruttiva del tema

contemporanea 1799-1848, a cura di e. Di Rienzo, Milano, Guerini e associati, 2004, pp. 85-116;

L. musella, Giustino Fortunato, il brigantaggio meridionale e la difficile unità d’Italia, in «nuova Rivista storica», XcIX, 2015, 2, pp. 399-420.

  • 56) Il 6 maggio del 1861, ad esempio, intervenendo nel dibattito parlamentare sulla «torbida condizione delle provincie napoletane», Ruggiero Bonghi, mentre auspicava l’avvio di un programma di riforme che rendesse «l’amministrazione più capace, più benefica, più giusta», si manteneva attento a negare qualsiasi origine spontanea del fenomeno del brigantaggio, alimentato «dai danari e da forze non indigene», e contro il quale non si vedeva «altro mezzo (…) che quello di mandar laggiù soldati e carabinieri». cfr. Discorsi parlamentari di Ruggiero Bonghi, Roma, tip. della camera dei Deputati, I, 1918, p. 18. cfr. anche R. De lorenzo, Il giornale “La Stampa” di Ruggiero Bonghi e l’inserimento del Mezzogiorno nello Stato unitario, 1862-1865, in «Rassegna storica del Risorgimento», LX, 1973, 4, p. 556-592. Dal canto suo, l’8 dicembre dello stesso anno, nel rispondere alle critiche dell’opposizione, mentre la situazione nel Mezzogiorno era peggiorata di molto, silvio spaventa avrebbe ribadito ancora una volta dalla tribuna parlamentare la marginalità dell’elemento politico nella formazione delle bande brigantesche. per l’esule abruzzese, infatti, la distinzione tra bande reazionarie e briganti comuni aveva poco senso dal momento che le stesse formazioni che nei primi mesi si erano date alla macchia in nome di Ferdinando II erano risultate in realtà composte in maggioranza da evasi e criminali. Inoltre, gran parte della responsabilità dell’incandescente situazione nelle province napoletane era da ascriversi, secondo spaventa, anche alla sinistra democratica che continuava a soffiare sul fuoco del malcontento. cfr. Discorsi parlamentari di Silvio Spaventa, Roma, tip. della camera dei Deputati, 1913, pp. 4-5, ma cfr. anche a. scirocco, Silvio Spaventa e il Mezzogiorno negli anni dell’unificazione, in Gli hegeliani di Napoli e la costruzione dello Stato unitario, napoli, Istituto poligrafico dello stato, 1989, p. 200 ss., e D. Breschi, Silvio Spaventa da rivoluzionario a statista. Il contributo di un patriota abruzzese al Risorgimento d’Italia e al nuovo Stato Nazionale, in L’Aquila e l’Abruzzo nella storia d’Italia, a cura di M. zaganella, Roma, nuova cultura, 2013, pp. 55 e ss.
  • 57) sullo scioglimento esercito garibaldino cfr. F. molFese, Lo scioglimento dell’Esercito Meridionale garibaldino, in «nuova Rivista storica», XLIv, 1960, 1, pp. 1-53; iD., Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Milano, Feltrinelli, 1964, p. 22-31, e iD., La repressione del brigantaggio post-unitario nel Mezzogiorno continentale (1860-1870), in «archivio storico per le provincie napoletane», XXII-cII, 1983, p. 35 ss.; cfr. anche p. pieri, Storia militare del Risorgimento, cit., pp. 727-744; M. mazzetti, Dagli eserciti pre-unitari all’Esercito Italiano, in «Rassegna storica del Risorgimento», XLIX, 1972, 4, pp. 564-592.

del brigantaggio entro il perimetro parlamentare (58), e rischiava di effettuare una paradossale saldatura politica tra il fronte democratico-federalista e quello borbonico-legittimista (59).

In tali circostanze, nei risultati dell’inchiesta parlamentare affidata ai deputati Massari e Mosca, sul finire del 1862 dopo una serie di interpellanze che avevano costretto la camera ad affrontare direttamente il tema (60), fra le «cause predisponenti» del brigantaggio venivano individuate soprattutto le condizioni economiche e sociali delle masse contadine, il cui costante deterioramento era dipeso dalla lunga erosione dei diritti comunitari sui terreni demaniali da parte delle classi possidenti che era proseguita ben oltre l’abolizione della feudalità effettuata durante il decennio francese (61). pertanto, ricollegandosi esplicitamente al filone di pensiero antifeudale del tardo settecento (62), la relazione parlamentare suggeriva, quale via maestra per risolvere le turbolenze sociali nel Mezzogiorno, una riforma degli assetti fondiari che raddrizzasse gli strascichi della questione demaniale. alla mancata, o difettosa, soluzione di quest’ultima si erano poi aggiunti, secondo Massari, da un lato gli effetti nocivi del malgoverno borbonico che aveva prodotto nelle masse un’istintiva sfiducia nelle istituzioni e nella giustizia, dall’altro le speranze sollevate nei ceti subalterni dalla vittoriosa marcia di Garibaldi.

  • 58) sulla percezione del fenomeno del brigantaggio nell’opinione pubblica settentrionale, e milanese in particolare, tanto democratica quanto moderata, cfr., invece, il sempre valido saggio di
  • umi, L’opinione pubblica milanese e il brigantaggio, in «archivio storico per la calabria e la Lucania», XLII, 1975, ora in L’Italia delle cento città. Dalla dominazione spagnola all’unità nazionale, a cura di a. Musi e M. L. cicalese, Milano, Franco angeli, 2005, pp. 13-28; cfr. pure c. klinkmann, L’Italia meridionale dal 1860 al 1865 nel giudizio di alcuni contemporanei, in «Rassegna storica del Risorgimento», LXXXI, 1994, 2, pp. 224-245; cfr. anche K. visconti, L’immagine del Mezzogiorno nelle Lettere napoletane di Cesare Correnti, in La Basilicata per l’unità d’Italia. Cultura e pratica po-litico-istituzionale (1848-1876), a cura di a. Lerra, Milano, Guerini e associati, 2014, pp. 559-565.
  • 59) ad esempio, secondo il patriota nicola nisco, Storia civile del Regno d’Italia, Morano, napoli, 1890, v, pp. 120-1, il partito borbonico guidato da Ulloa avrebbe fatto passi concreti verso Giuseppe Ricciardi onde verificare le possibilità di un’azione politica comune contro i moderati al potere, soffiando sul malcontento di chi vedeva perduta l’identità del regno e rilevava gli effetti negativi dell’unificazione forzata. sul nisco, in particolare, cfr. a. De spirito, Storia di vita e storiografia di Nicola Nisco patriota risorgimentale, in «Ricerche di storia sociale e Religiosa», XXXIv, 2005, 67, pp. 187-216 e iD., Risorgimento, Chiesa e Stato unitario negli scritti di Nicola Nisco, in «atti dell’accademia pontaniana», LXI, 2012, pp. 277-287.
    • (60) a. BisceGlia, Giuseppe Massari in parlamento, in «Rassegna storica del Risorgimento», LIII, 1966, 3, p. 440-455.
    • (61) G. massari, Il Brigantaggio nelle Province napoletane, Milano, Ferrario, 1863, p. 19 ss.
  • 62) emblematico in tal senso era il richiamo di Massari alla classica Storia degli abusi feudali del 1811 di Davide Winspeare.

tuttavia, come giustamente osservato diversi anni or sono, la componente politica del brigantaggio non era del tutto ignorata -seppure in filigrana- nelle pagine dell’inchiesta parlamentare (63). certo, la formazione delle bande andava fatta risalire in primis ai torbidi maneggi della corte borbonica coadiuvata dall’appoggio della chiesa, e del legittimismo internazionale (64), ma essa era stata anche il frutto dell’ingresso spontaneo nelle formazioni brigantesche di forti nuclei di soldati del disciolto esercito delle Due sicilie e, soprattutto, della stessa permanenza fisica di Francesco II a Roma che con la sua sola presenza contribuiva a mantenere in stato di agitazione le provincie limitrofe agli stati pontifici. nelle pagine dedicate alla narrazione degli eventi salienti della lotta al brigantaggio, inoltre, pur non traendone le dovute conseguenze politiche, dalla relazione del deputato pugliese emergevano -attraverso le crude immagini di una guerra civile col suo corollario di violenze, assassinii e stragi di intere famiglie- i sintomi di una società profondamente spaccata in senso politico. nonostante Massari individuasse, in modo sostanzialmente corretto, nella lunga persistenza delle fratture notabilari a livello locale la causa principale dell’incrudelirsi della spirale di violenza nelle provincie sconvolte dal cambiamento di regime (65), l’intrecciarsi degli odi municipali col dato politico generale non per questo veniva sottaciuto. anzi, proprio l’esistenza della contrapposizione politica a livello generale avrebbe garantito ulteriore alimento e spazio alla prosecuzione dei conflitti di fazione nei comuni meridionali (66).

ad ogni modo, sempre volendo restare in ambito moderato, al di fuori delle aule parlamentari e nelle riflessioni più meditate, il carattere politico del brigantaggio diventava meglio percepibile, pur sempre senza giungere a una sua chiara equiparazione alla guerra civile. nel 1864, ad esempio, nelle sue considerazioni Sul brigantaggio nelle provincie meridionali d’Italia il giurista carlo capomaz-

  • 63) G. Galasso, Unificazione italiana e tradizione meridionale nel brigantaggio del sud, in «archivio storico per le provincie napoletane», XXII-cI, 1983, pp. 13-14.
  • 64) sul punto cfr. a. alBonico, La mobilitazione legittimista contro il Regno d’Italia. La Spagna e il brigantaggio antiunitario meridionale, Giuffrè, Milano, 1979; L. tuccari, Brigantaggio postunitario. Il legittimismo europeo a sostegno della reazione nel Napoletano, in «Rassegna storica del Risorgimento», LXXv, 4, 1988, pp. 475-483; s. sarlin, Fighting the Risorgimento: Foreign Volunteers in Southern Italy (1860-63), in «Journal of Modern Italian studies», XIv, 2009, 4, pp. 476-490.
  • 65) sul punto vedi p. pezzino, Risorgimento e guerra civile. Alcune considerazioni preliminari, in Guerre fratricide. Le guerre civili in età contemporanea, a cura di G. Ranzato, torino, Bollati Boringhieri, 1994, pp. 56-85; cfr. anche c. pinto, 1857. Conflitto civile e guerra nazionale nel Mezzogiorno, in «Meridiana», XI, 2010, 69, pp. 171-200 e iD., Tempo di guerra. Conflitti, patriottismi e tradizioni politiche nel Mezzogiorno d’Italia (1859-66), ivi, n. 79, pp. 57-84.

(66) G. massari, Il Brigantaggio, cit., p. 45 ss.

za condivideva le riflessioni di Massari sulle condizioni sociali delle plebi rurali come sostrato socio-economico favorevole allo sviluppo delle insorgenze (67). ad una prima fase di agitazioni spontanee e confuse, frutto del disagio delle plebi rurali, era poi seguita la vera e propria politicizzazione dei moti in senso legittimista a seguito della confluenza nelle bande degli elementi più attivi del disciolto esercito delle Due sicilie e del crescente malcontento dovuto alle modalità dell’annessione del Mezzogiorno al Regno d’Italia (68). tuttavia, il termine guerra civile veniva accuratamente lasciato ai margini del discorso e ne veniva invocato lo spettro soltanto per giustificare l’azione repressiva dell’esercito italiano che avrebbe impedito alla situazione di degenerare ulteriormente (69).

posizioni molto simili erano peraltro espresse anche nel saggio di alessandro Bianco di s. Jorioz, che in qualità di ufficiale dell’esercito aveva partecipato sul confine pontificio alle azioni di contrasto del brigantaggio. anche in questo caso, la distinzione netta tra quest’ultimo e gli episodi di banditismo comune appariva chiara sin dalle prime pagine e si riconosceva il nesso stretto tra la dissoluzione dell’esercito borbonico e la diffusione delle bande legittimiste (70). a differenza di capomazza, però, e in modo più incisivo di Massari, Bianco evidenziava con maggiore forza gli effetti disastrosi che la frattura politica generale aveva avuto sulle comunità locali, dove la lotta dei maggiorenti per il predominio sulle istituzioni si era rivestita del linguaggio politico corrente e alla quale si erano sommati i rancori e l’atavica volontà di riscatto delle plebi rurali. Inoltre, il raggiungimento dell’Unità aveva finito per aggravare la situazione poiché tanto la dittatura che le luogotenenze erano risultate incapaci di frenare l’assalto alle istituzioni da parte della fazione “unitaria”, a tutto discapito del merito individuale e dunque del buon funzionamento delle amministrazioni, aumentando gli odi e il malcontento già fisiologici in frangenti come quelli successivi alla dissoluzione di un regime. pertanto, in presenza di una situazione sociale così esplosiva, per il figlio del grande teorico della guerra di insurrezione per bande, il brigantaggio politico avrebbe potuto rappresentare una minaccia mortale per il giovane stato

  • 67) sul punto si veda G. F. De tiBeriis, Il brigantaggio meridionale ed il pensiero di Carlo Capomazza, in «Rassegna storica del Risorgimento», LIII, 1966, 4, pp. 594-605.
    • 68) Ivi, p. 604.
    • 69) c. capomazza, Sul brigantaggio nelle provincie meridionali d’Italia, napoli, vitale, 1864,
  • umi, L’opinione pubblica milanese, cit., pp. 23-4.
  • 70) a. Bianco Di s. Jorioz, Il brigantaggio alla frontiera pontificia dal 1860 al 1863, Milano, Daelli e c., 1864, pp. 16-18, 27-30; più indicative delle difficoltà da parte dei militari impegnati nell’opera di repressione a comprendere la realtà meridionale erano, invece, le memorie di G. Bourelly, Il brigantaggio dal 1860 al 1865, venosa, osanna venosa, 2004.

unitario se solo avesse avuto una guida strategica in grado di sfruttare in modo intelligente il “santuario” operativo offerto alle formazioni legittimiste dal confine con i territori pontifici.

Molto più articolata risultava, invece, la precoce lettura del brigantaggio offerta da un osservatore esterno come Marc Monnier. nel suo noto volume, pubblicato già nel 1862 e subito diffuso a livello europeo, il giornalista svizzero osservava che la politicizzazione delle insorgenze aveva vissuto fasi distinte (71). Dalla prima ondata, squisitamente politica e favorita dai reparti dell’esercito borbonico ancora attivi prima della caduta di Gaeta e di civitella del tronto, si sarebbe giunti, nella seconda metà del 1861, a una deriva progressiva in senso criminale delle bande il cui colore politico sarebbe stato riacquisito più tardi, dopo lo scioglimento definitivo dell’esercito gigliato e la crescita del malcontento nel Mezzogiorno a seguito dell’imposizione della leva, dell’annessione forzata allo stato unitario e dei provvedimenti contro la proprietà ecclesiastica (72).

come si vede, dunque, in campo borbonico e legittimista la rivendicazione della natura politica del brigantaggio veniva a costituire il punto di partenza obbligato per ogni tentativo di ricostruzione degli eventi di fronte agli sforzi dei liberali o di sminuirne la portata o comunque di evidenziare la presenza in esso, in misura più o meno preponderante, delle comitive di grassatori e criminali comuni. tuttavia, per ragioni uguali e contrarie a quelle che muovevano le analisi in campo liberale, agli stessi borbonici conveniva battere maggiormente sul tasto della lotta per l’indipendenza nazionale lasciando il termine guerra civile per lo più all’intuizione del lettore.

per Ulloa, ad esempio, il carattere politico delle insurrezioni, scoppiate sin dal ritiro dell’armata napoletana sul volturno, appariva di solare evidenza guardando alla restaurazione, per quanto effimera, dei gigli e delle insegne borboniche in tutti i paesi occupati dalle bande degli insorgenti (73). pertanto, in esplicita polemica contro quanti si sforzavano di negare la matrice politica dei moti antiunitari, Ulloa, rifiutando il termine “briganti”, definiva gli insorti «partigiani della causa nazionale» e sottolineava quanto gli eccessi di violenza fossero il naturale prodotto della crudeltà della lotta in atto piuttosto che il portato della presenza di facinorosi nelle bande (74). D’altro canto, lungi dall’essere state preordinate dal governo di Francesco II, le insorgenze erano state il risultato spontaneo del

(71) M. monnier, Histoire du Brigandage dans l’Italie Méridionale, paris, Lévy, 1862, pp. 35-6.

(72) Ivi, pp. 37-42 e passim. sullo scioglimento dell’esercito borbonico cfr. a. scirocco, Governo e paese nel Mezzogiorno nella crisi dell’unificazione (1860-61), Milano, Giuffrè, 1963, pp. 123-4, e M. Mazzetti, Dagli eserciti pre-unitari all’Esercito Italiano, cit., pp. 564-592.

  • 73) p. ulloa, Delle presenti condizioni del reame delle Due Sicilie, s.l., s.n.t., 1862, p. 19.
  • 74) Ivi, p. 21.

sentimento patriottico delle masse popolari meridionali e della lunga serie di soprusi all’onore nazionale perpetrati dalle autorità italiane, la cui ferocia repressiva avrebbe risuscitato nelle contrade del Mezzogiorno «i più nefandi ricordi delle guerre civili» (75). Il fantasma della guerra civile così evocato, della quale –non a caso- il sovrano in esilio veniva esonerato da ogni responsabilità, era però subito dissolto da Ulloa con l’equiparazione della repressione dell’esercito italiano a una vera e propria «guerra di sterminio» analoga a quelle condotte dai conquistatori europei nelle americhe (76). anzi, Ulloa stesso riteneva del tutto fuorviante ogni confronto tra l’insorgenza meridionale e uno tra i più classici esempi di guerra civile: la vandea. In un paragone del genere, in effetti, le innegabili assonanze che la rivolta di chouans e vandeani per la difesa del trono e dell’altare poteva suscitare rischiavano di far perdere di vista il dato politico fondamentale, ossia il carattere dell’insorgenza delle popolazioni Mezzogiorno quale genuina lotta contro un oppressore a tutti gli effetti straniero (77). sulla medesima lunghezza d’onda si sarebbe posta, nel recensire proprio la pubblicazione dell’inchiesta Massari, anche Civiltà Cattolica, il principale organo di stampa dell’ordine dei Gesuiti in Italia, che avrebbe calibrato il fuoco della sua critica alle tesi liberali sulla spontaneità delle rivolte e sul loro incontestabile significato politico di rigetto del risultato unitario (78).

anche in De sivo, dunque, l’istinto a preservare intatta la genuinità della lotta per il sentimento nazionale delle popolazioni del Mezzogiorno tendeva a velare sia le connessioni inevitabili tra brigantaggio e criminalità comune, pur ammettendo che «parecchi malandrini col pretesto di servire Francesco andavano pe’ monti taglieggiando», sia la gravità della contrapposizione politica nel Regno diviso tra liberali e legittimisti. nel lumeggiare la differenza di condotta tra le popolazioni meridionali e quelle del centro Italia che avevano soggiaciuto passivamente alla corruzione della “setta” liberale che ne aveva abbattuto i regni legittimi, De sivo, infatti, tendeva a restringere al massimo la cerchia entro la quale individuare gli attivi sostenitori dell’Unità in terra napoletana

Ma tai mene non bastavano a muovere il nostro regno, più lontano dalle fonti corruttrici, più chiuso alle istigazioni, più tenace alle istituzioni patrie, e men rotto (fuorché napoli) a quelle mollezze ch’oggidì falsano la civiltà. Qui

  • 75) Ivi, p. 48.
  • 76) Ivi, pp. 17, 60.
  • 77) Ivi, pp. 52-3.

(78) G. Galasso, Unificazione italiana e tradizione meridionale, cit., p. 11-12; sul tema cfr. anche, tra gli altri autori “minori” della letteratura filoborbonica, B. coGnetti, Passato e presente nel reame delle Due Sicilie, Bruxelles, s.n.t, 1862 e G. De mari, Le Due Sicilie sotto i Borboni e sotto i Savoia. Memorandum ai potentati d’Europa, s.l., s.n.t, 1862.

non bastò comprare i nostri più alti inciviliti, ché il rozzo popolo riluttò; e bisognò sforzarlo a cannonate […]. I Lombardi e toscani sottostettero senza reagire; i regnicoli, compri i pochi, riluttarono in moltitudine. cotale opposizione fa più luccicare tradimenti de’ nostri, perché singolari; sicché l’orbe cita con orrore i nomi di tre o quattro dozzine di traditori napoletani, mentre ha quasi dimenticati i traditori toscani e lombardi.

eppure, nella descrizione degli eventi, risaltava in modo chiaro quanto la lotta feroce tra “piemontesi” e “briganti” si svolgesse sullo sfondo di un’ancora più efferata faida tra meridionali stessi, inquadrati in uniforme entro i ranghi delle compagnie della Guardia nazionale a difesa delle municipalità assediate dagli insorti oppure ammassati in folle variopinte inneggianti a Francesco II (79). se l’istinto nazionale aveva mosso le popolazioni a battersi per sorreggere l’esercito e aveva spinto migliaia di soldati a raccogliersi attorno alle bandiere bianco-gigliate sulle rive del volturno, la vittoria dei liberali aveva infatti rappresentato il trionfo di una fazione diffusa capillarmente dalla “setta” nelle contrade più remote del Regno che aveva, ad esempio, provocato i moti unitari in calabria e Basilicata che avevano a volte preceduto l’arrivo delle camicie rosse (80). Questo significava sottintendere l’esistenza di una frattura politica nel Regno ben più ampia e profonda di quanto i termini “setta” e “settario” potessero lasciar intendere al lettore. D’altro canto, la contrapposizione netta tra il rozzo, ma evidentemente “sano”, popolo meridionale e gli inciviliti, richiamava le pagine di De sivo relative alla mezzana classe, principale responsabile della diffusione delle idee rivoluzionarie, in una sorta di ripresa della categoria cuochiana dei “due popoli” in termini del tutto ribaltati.

come vedremo, però, la guerra civile, che abbiamo visto aleggiare spettralmente nei testi di tutti gli scrittori, liberali e borbonici, avrebbe assunto nell’ope-ra di De sivo –non soltanto nella Storia– un significato più vasto e profondo che avrebbe qualificato le sue riflessioni sulla scomparsa della nazionalità napoletana su un livello interpretativo profondamente diverso rispetto a quello del resto degli scrittori legittimisti.

3. L’Italia contesa

come abbiamo visto, l’esigenza di esaltare la lotta per l’indipendenza, battendo con insistenza sul tasto della fedeltà del “buon” popolo meridionale alla dinastia borbonica e riducendo al minimo il peso politico dei liberaleschi e degli unitari, non riusciva –anche in De sivo- a esorcizzare lo spettro della guerra civile

  • 79) G. De sivo, Storia, cit., Iv, pp. 211-225 e 267 ss, e v, p. 16 ss.
  • 80) iD., Storia, cit., Iv, pp. 12-22.

che l’unificazione aveva resuscitato nelle infelici comunità del Mezzogiorno (81). anche la celebrazione del valore dell’esercito napoletano, pura espressione del popolo napoletano, tradito dai suoi ufficiali corrotti, non faceva altro che ripresentare sotto altra veste la frattura politica che affliggeva la società meridionale. In effetti, poche righe sono incisive come quelle nelle quali De sivo riconosceva negli effetti disastrosi dell’unità il sapore di una funesta profezia ormai avveratasi in tutta la sua drammaticità.

La fittizia e sforzata unità farebbela schiava d’una fazione, e però cento fiate più debole e infelice; sarebbe risuscitare Guelfi e Ghibellini, veleni e pugnali, ferali convitii e crudi esilii, nefandi sacchi, e arsioni atrocissime di città e campagne. e già si sono resuscitati (82).

anche nell’Italia e il suo dramma politico, contemporanea alla riscrittura della Storia, lo storico di Maddaloni aveva richiamato –più volte e, stavolta, esplicitamente- il termine guerra civile, innanzitutto quale portato inevitabile della diffusione dei principi dell’ottantanove nella penisola italiana e poi dell’idea di unità seminata dagli adepti della setta (83). L’utilizzo del termine in un’opera dedicata alla situazione politica dell’Italia nel suo complesso, così come il richiamo di una metafora politicamente pregnante in questo senso, quale quella dei Guelfi e dei Ghibellini, non erano casuali. essi erano il sintomo della propensione di De sivo a travalicare gli angusti limiti geografici e storici delle Due sicilie e ad abbracciare con lo sguardo di storico la situazione di tutta la penisola, da considerarsi un’entità inscindibile da un punto di vista geopolitico. pure, ne I Napolitani al cospetto delle nazioni civili, agli occhi di De sivo, il piemonte si era reso reo non solo della violazione del diritto delle genti, con l’aggressione perpetrata a tradimento contro un regno pacifico e neutrale e con la sponsorizzazione della piratesca impresa dei Mille, ma era stato soprattutto responsabile dello scatena-mento di una terribile guerra civile tra italiani e italiani.

Le nazioni civili […] saran per fermo stupefatte al mirar la rea lotta che spezialmente nel reame delle sicilie procede cruenta ed atrocissima fra Italiani ed Italiani. Dopo tante lamentazioni contro lo straniero, non è già

(81) «Il giorno del plebiscito iniziò in tutto il reame la reazione, e il brigantaggio delle due parti; guerra civile, nazionale, e sociale. e plebiscito sì insanguinato è oggi il dritto di vittorio emmanuele», ivi p. 274.

  • 82) G. De sivo, Storia, cit., I, pp. 46-7.
  • 83) iD., L’Italia e il suo dramma, cit., p. 1 ss.

contro lo straniero che aguzza e brandisce le arme quella fazione che vuol parere d’esser la italica nazione. pervenuta ad abbrancare la potestà, ella non assale già il tedesco, né il Franco, né l’anglo, che tengono soggetta tanta parte d’Italia; ma versa torrenti di sangue dal seno stesso della patria, per farla povera e serva. ella grida l’unità e la forza; e frattanto ogni possibilità d’unione fa svanire, con la creazione di odii civili inestinguibili; e distrugge la sua stessa forza in cotesta guerra fratricida e nefanda, che la parte più viva e generosa della italiana famiglia va sperperando ed estinguendo. L’Italia combatte l’Italia (84).

Già nel discorso per i caduti napoletani sul volturno, inoltre, De sivo aveva utilizzato quasi le stesse parole evocando i «campi insanguinati» dal turbine della guerra fratricida, percorsi da «schiere di combattenti nati sulla stessa italica terra» destinati a darsi la morte a vicenda a tutto vantaggio dello straniero (85). D’altro canto, ad aggravare le colpe del piemonte stava anche il dato di fatto di aver intrapreso la sua criminale espansione nonostante l’impossibilità, per la sua debolezza diplomatica e militare e per l’opposizione delle grandi potenze, di rannodare davvero –come sarebbe stato logico-sotto un solo scettro tutte le terre dove «il sì sona». La funesta politica espansionista subalpina si era infatti realizzata al carissimo prezzo di aver dovuto svendere allo straniero altre terre abitate da italiani, nizza e savoia, mentre il resto degli stati pontifici, la corsica, l’Istria, la Dalmazia e gli altri territori sotto dominio austriaco sembravano, per De sivo, assolutamente al di fuori della portata di torino (86).

L’idea di un’Italia unita, era certo per De sivo un’idea «speciosa», per tutte le motivazioni dell’armamentario polemico tipico del fronte legittimista, dalle differenze geografiche e economiche delle regioni ai diversi caratteri delle popolazioni (87). eppure, egli stesso non aveva difficoltà a riconoscere la nobiltà dell’ideale di voler riunificare l’Italia «ché certo far la patria grande, potente, e rispettata, saria onesta e bella impresa. e dove ella potesse esser unita sarebbe fortissima, per l’indole de’ suoi abitanti fervidi e ingegnosi, per le sue naturali ricchezze, per lo stare in mezzo al mare, fra asia, africa ed europa, e per la coscienza dell’antica e moderna grandezza» (88). Invece, l’unificazione aveva avuto

  • 84) iD., I Napolitani, cit., p. 5.
  • 85) iD., Discorso pe’ morti nelle giornate del Volturno difendendo il Reame, Roma, s.n.t, 1861,

p. 3.

  • 86) iD., I Napolitani, cit., pp. 71-80.
  • 87) Ibidem e iD., Storia, cit., I, p. 46 ss.
  • 88) Ivi, p. 46, il corsivo è mio.

come unico risultato la consegna di napoli nella mani della camorra (89), e la devastazione morale e materiale del Mezzogiorno.

e che ci ha guadagnato l’Italia nostra, anzi non più nostra? […] I fatti delle Due sicilie sono specchio orribile delle nefandezze della setta. Dalla prosperità invidiata che le faceva prime in Italia a campo di battaglia e oppressione. Leviamo la voce in nome del diritto delle genti contro il servaggio che ha fatto del più bel giardino del mondo uno spettacolo di devastazione. non è risorgimento è il subissamento del paese (90).

come si vede, dunque, il termine patria, e quello equivalente di paese, venivano progressivamente estesi da De sivo, nell’evoluzione della sua opera storiografica, dalle Due sicilie a tutto il resto dell’Italia. La sacrosanta difesa dell’individualità e delle peculiarità del Mezzogiorno, della “piccola patria”, non conduceva l’autore a perdere di vista la grande patria italiana nella ferma consapevolezza che la salute di entrambe fosse inscindibilmente legata da un rapporto di stretta interdipendenza. Le accuse al piemonte di essersi asservito alle potenze estere garantendo la prosecuzione dell’influenza straniera in Italia anche a unificazione compiuta erano dunque, in De sivo, una sorta di richiamo a quel concetto di “libertà d’Italia” che si era andato formando a valle del lungo processo di condensazione della coscienza di una specificità della penisola italiana, sia pur in presenza della sua suddivisione interna in stati e popolazioni tra loro differenti (91). pertanto, una volta estesa la visuale sino ad abbracciare tutta l’Italia, De sivo stesso era portato, nonostante il suo rigetto del romanticismo, ad attingere a piene mani all’immaginario iconico e mitico del Risorgimento stesso. e così, la discesa dei piemontesi nel Mezzogiorno veniva equiparata a una nuova calata dei barbari.

così attila, Genserico ed alarico, già molti secoli innanzi, avean devastate queste terre istesse; ma quelli antichi barbari, il cui diritto era solo la forza, non

  • (89) G. De sivo, I Napolitani, cit. pp. 49-50. sul punto il rimando è, naturalmente, a M. marmo, Quale ordine pubblico. Notizie e opinioni a Napoli tra il luglio ’60 e la legge Pica, in Quando crolla lo Stato. Studi sull’Italia preunitaria, a cura di p. Macry, napoli, Liguori, 2003 in part. p. 197 ss., ed eaD., Il coltello e il mercato. La camorra prima e dopo l’Unità, napoli, L’ancora del Mediterraneo, 2011; cfr. anche, più recentemente, F. BeniGno, La mala setta. Alle origini di mafia e camorra 1859-1878, torino, einaudi, 2015.
    • (90) G. De sivo, I Napolitani, cit., p. 16.
  • 91) sul punto il richiamo è, naturalmente, a G. Galasso, Dalla libertà d’Italia alle preponderanze straniere, napoli, esi, 1997 e iD., L’Italia come problema storiografico, torino, Utet, 1979. sulla persistenza del concetto di “libertà d’Italia” nelle pagine degli scrittori legittimisti cfr. a. musi, Mito e realtà della nazione napoletana, cit.

usarono l’arti del mendacio e della frode; e certo le avrebbero essi con disdegno

e raccapriccio respinte. L’aggressione degli attila è sublime nella sua atrocità;

l’atrocità de’ pinelli e dei cialdini è ipocrisia avida e codarda (92).

proprio quei barbari e quell’attila che, in ambito risorgimentale, costituivano tra i più pregnanti simboli della lotta allo straniero e della schiavitù dell’Ita-lia (93). Una volta intrapreso tale sentiero, dunque, De sivo giungeva a rielaborare in chiave tutta italiana non solo la classica rivendicazione, tipica della letteratura filoborbonica, della prosperità del Mezzogiorno preunitario ma anche le sue stesse origini storiche (94). Infatti, accanto della rivendicazione dei diversi “primati” delle Due sicilie nel campo delle lettere, delle arti e dell’economia che contribuivano a giustificare il rimpianto per la perduta prosperità delle province napoletane, lo storico di Maddaloni si impegnava nella costruzione del mito delle origini meridionali dell’Italia stessa dalle quali restava fuori il piemonte del quale erano evidenti le origini galliche e barbariche.

Dicono esser noi nemici d’Italia, quasi che questa patria non fosse Italia per eccellenza. Gli antichi intendevano Italia appunto questa. La scuola di pitagora crotoniate, era detta la scuola italica; perché qui divampò la prima italiana, anzi europea, scintilla del sapere. più su era Gallia, eterna nemica del nome latino; e fra essa e l’Italia era il Rubicone. Dopo la barbarie, qui risorgeva la civiltà, alla corte di Federico II. […] nell’età moderna il settentrione della penisola è stato ritenuto terra italiana, per geografica designazione, e altresì per una qualche simiglianza di favella, per le glorie e le sventure comuni, e per una certa comunanza d’insieme, che dà a tutta la penisola una ideale incontrastabile unità. Ma niuno al mondo pensò mai che l’alpigiano esser più italiano di chi nasce nella patria di cicerone e d’orazio, di Giovanni da procida, del

(92) G. De sivo, Discorso pe’ morti, cit., p. 2.

  • 93) si veda, ad esempio, a. M. Banti, Le invasioni barbariche e le origini delle nazioni, in Immagini della nazione nell’Italia del Risorgimento, a cura di a. M. Banti e R. Bizzocchi, Roma, carocci, 2002, pp. 21-44; s. solDani, II Medioevo del Risorgimento nello specchio della nazione, in Arti e storia nel Medioevo, a cura di e. castelnuovo e G. sergi, torino, einaudi, 2004, Iv, pp. 149-86. sulla pervasività di tali immagini su ogni livello, anche nell’opera classica verdiana intrisa –come è noto- di valori risorgimentali cfr. D. L. ipson, “Attila” takes Rome: the reception of Verdi’s opera on the eve of Revolution, in «cambridge opera Journal», XXI, 2009, 3, pp. 249-256; c. sorBa, “Attila” and Verdi’s Historical Imagination, ivi, pp. 241-248.
  • 94) sull’elaborazione del “primato” meridionale in De sivo cfr. anche B. iorio, Il primato napolitano. Giacinto De Sivo e la dialettica della controrivoluzione, in Quaderni di Sudeuropeo, n. 1, Minturno, 1988.

tasso e del vico. era serbata a noi viventi l’onta del soffrire i cinguettatori d’un

semi-gallico dialetto, venuti a insegnare l’italianità a noi, maestri d’ogni arte, e

iniziatori di ogni scienza (95).

come giustamente notato, si era così giunti a una sorta di Platone in Italia di cuochiana memoria, dagli esiti ovviamente del tutto rovesciati (96), così come ribaltata era –lo abbiamo visto- l’immagine dei due popoli tratta dalla lezione storiografica del patriota molisano (97).

come era prevedibile, la costruzione del primato napoletano si snodava, peraltro, in un costante incontro-scontro con Gioberti dal quale De sivo traeva diversi elementi che tornavano utili alla sua polemica antipiemontese, soprattutto il postulato secondo cui lo stato dovesse fondarsi innanzitutto sulla tradizione e l’istintiva avversione per le sette e i partiti, oppure rovesciava il significato di altre intuizioni giobertiane (98). se per l’abate torinese dei Prolegomeni la mezzana classe rappresentava lo specchio della nazione, la parte attiva e operosa su cui fondare la costruzione della libertà (99), per De sivo essa era, come abbiamo visto, il ricettacolo naturale della diffusione della maligna setta liberale. allo stesso modo, la pubblica opinione, esaltata da Gioberti come naturale correttivo all’opera dei governi (100), era da De sivo condannata alla stessa stregua della classe media al cui sviluppo era intimamente connessa.

comunque, come abbiamo visto, la messa in sicurezza dei fondamenti della specificità delle Due sicilie mediante l’utilizzo di argomentazioni tratte dalle pagine di Gioberti serviva a De sivo per avvalorare il discorso sul primato napoletano e di qualificarne il significato in ambito italiano. La traslazione del primato dall’Italia al regno delle Due sicilie era, infatti, più apparente che reale e schiudeva la porta al riconoscimento della missione storica del Mezzogiorno, che il concetto di primato conteneva in sé in nuce: quella di “redimere” il piemonte, montando una lotta a morte contro la setta liberale i cui gangli avevano avvele-

  • 95) G. De sivo, I Napolitani, cit., pp. 115-6; cfr. anche, ivi p. 117: «noi, la Dio mercè, siamo ancora gl’italiani per eccellenza».
    • 96) B. iorio, Il primato napolitano, cit., p. 21.
    • 97) sul punto il rimando è, naturalmente, ad a. De Francesco, Vincenzo Cuoco: una vita politica, Roma, Laterza, 1997 e Vincenzo Cuoco nella cultura di due secoli, a cura di a. De Francesco e L. Biscardi, Roma, Laterza, 2002.
    • 98) B. iorio, Il primato napolitano, cit., p. 19.
    • 99) v. GioBerti, Prolegomeni del primato morale e civile degli italiani, capolago, tipografia

elvetica, 1846, pp. 31-4. (100) Ivi, pp. 37-8.

nato ogni contrada della penisola, e giungere finalmente a un assetto confederale consono agli specifici caratteri delle sue regioni.

L’Italia può esser collegata. con la lega restan sacri tutti i diritti preesistenti, le autonomie, le leggi, le tradizioni, le consuetudini e i desiderii di ciascun popolo. non si combatte il papa, non si rinnega cristo, non si sconvolgono le coscienze, le menti, gl’interessi, si uniscono le forze di tutti, e si pon fine alla guerra. […] La storia dimostra come sempre per leghe fummo rispettati e salvi. La lega delle città campane, quella delle etrusche, l’altre sannitiche e Latine e della guerra sociale, le leghe romane onde uscivano quelle legioni che vinsero il mondo ne sono prova. e quando l’Italia fu serva d’un despota, e retta da avidi proconsoli non ebbe più difesa, e cadde ne’ Barbari. ancora nel medio evo le leghe ne salvarono. Gregorio II forse il primo fu che federava parecchie città italiane, ed era imitato da Gregorio vII. poi sotto il terzo alessandro la lega Lombarda fugava Federico svevo; e più tardi quel magnifico Lorenzo de’ Medici un’ampia confederazione di stati italiani compieva. Fu una lega italica che ricacciava di là dall’alpe il Francese carlo vIII; e Giulio II nel secolo XvI fidava alle leghe il suo famigerato motto: Fuori lo Straniero! […] se il trattato di zurigo che fermava le basi della confederazione si fosse eseguito, noi non ispargeremmo tante lagrime. […] Fra zurigo e Gaeta è un abisso; ed ei bisogna colmarlo col cadavere della setta. Il settario piemonte non volle la convenuta lega; e l’Italia non potrebbe voler con sé quel piemonte. Mal s’accoppiano lupi ed agnelli. L’Italia, quando col voler di Dio sarà collegata, e che i protettori stranieri la lasceranno far da se (sic!), ha anzi il sacro debito d’accorrere su quelle infelici ligure e alpigiane terre conquistate dalla setta, per discacciare la rivoluzione dal suo seggio, e liberare quelle già felici contrade dal giogo di chi le ha carche di debiti e di vergogne (101).

napoli, infatti, secondo De sivo, non avversava l’Italia «ma combatte la setta, ch’è anti-italica, com’è anti-cristiana, ed anti-sociale» (102). La vera unità poteva provenire solo dalla legittima resistenza napoletana alla fittizia, e dannosa, unificazione imposta dal piemonte per giungere a una confederazione che la

(101) G. De sivo, I Napolitani, cit., pp. 118-21.

(102) «La setta finge unificar l’Italia per derubarla; Napoli vuole unire l’Italia davvero, perché proceda a civiltà, non retroceda a barbarie, perché salga al primato della sapienza e della virtù, non perché inabissi nel sofisma e nella colpa. napoli vuole agglomerare intorno a sé le percosse forze sociali, perché la società non pera. e come da’ monti calabri uscivano i primi lampi della pitagorica favilla, così da questi luoghi i primi concetti di vera libertà contro le sette sfavilleranno. La società aggredita si dissonni dal suo letargo, ne porga la mano, e si persuada che nel vincer nostro è la nostra e la universale libertà», ivi pp. 117-8 (corsivi miei).

storia, come i richiami ai campioni dell’antica “libertà d’Italia” avvaloravano, indicava essere la soluzione naturale per la penisola.

Imparerà torino da napoli il vero costume italiano, e la carità patria, e l’amor di Dio, e che sia libertà e indipendenza. Le sue reggie ritorneranno con le nostre santuarii d’amore; e la vecchia stirpe de’ suoi re, rionorando la croce del suo nobile scudo, ripiglierà le avite virtù, prenderà da’ Borboni di napoli esempi di magnanimità e di valore; e apprenderà come sia più grande il combattere per la patria, che rapire l’altrui con la corruzione e la menzogna. Il piemonte allora entrerà nella famiglia italiana; e l’Italia sarà davvero fatta.

La confederazioni di piccoli stati, inoltre, era garanzia di pace e stabilità e, da questo punto di vista, l’Italia «per le sue cento città, pe’ suoi varii mari, per le sue naturali ricchezze e divisioni, è fatta per essere collegata, e diventare una grande nazione!».

Dunque, attraverso il concetto di primato delle Due sicilie e passando per quello della loro missione storica, De sivo recuperava il discorso giobertiano sulla soluzione confederale dell’Italia, sotto l’egida del cattolicesimo, che le avrebbe consentito di prendere il posto d’onore nella famiglia delle nazioni europee (103). naturalmente, il federalismo di De sivo distava molto da quello di Gioberti, e piegava più verso le concezioni di un Rosmini (104). esso non lasciava spazio all’ideologia liberale che, come abbiamo visto, andava combattuta sino in fondo, e per questo somigliava più a un recupero dell’antica libertà d’Italia che a un moderno federalismo poiché non presupponeva un livellamento delle istituzioni interne dei singoli stati italiani. non per questo però l’approdo alla soluzione federale da parte di De sivo deve essere considerato, come è stato sostenuto, un mero espediente polemico, un’arma in più da lanciare nella lotta politica ingaggiata dalla corte borbonica in esilio per riacquistare i propri legittimi domini (105). Innanzitutto, l’idea federalista, esposta ne I Napolitani in modo chiaro e più esplicito, è presente anche nel resto delle opere desiviane (106). Inoltre,

(103) sul punto cfr. G. rumi, Gioberti, Bologna, Il Mulino, 1999, p. 35 ss.

(104) B. iorio, Il primato napolitano, cit., p. 23.

(105) Ivi, p. 63.

(106) G. De sivo, L’Italia e il suo dramma, cit., in part. il cap. vIII, nel quale, tra l’altro, De sivo stesso ammetteva esplicitamente che, dopo gli odi e i rancori suscitati dall’annessione del regno, anche l’idea di una confederazione appariva ormai poco percorribile: «Questa causa di scontentamento oggi così grandemente estesa, ha resa impossibile ogni pacificazione, e fa vedere la necessità di una pronta restaurazione per scongiurare una guerra a tutto sangue, e la continuazione

come notato già da croce a suo tempo, che per primo ne riscoprì il valore di storico, l’immagine di una federazione tra gli stati della penisola era stata risvegliata in De sivo già dagli eventi del Quarantotto, i cui ideali gli avevano suscitato nell’animo più di un’assonanza (107).

Restano, infatti, indicative le parole che De sivo stesso rivolse agli elettori del suo circondario in vista della tornata elettorale del giugno del ’48 nelle quali, nonostante i tragici eventi del 15 maggio precedente, egli sembrava serbare ancora intatta la speranza della formazione di un parlamento nazionale che fosse espressione della migliore “intelligenza” del regno e potesse concorrere alla gloria della grande nazione italiana sullo sfondo di un generale processo di rinascita –si sarebbe portati a dire Risorgimento– dell’Italia stessa sulla scena europea:

noi viviamo nel momento culminante della italica famiglia: noi della sua civile grandezza saremo i fabbri o gli ultimi diroccatori […]. Io mi penso –concludeva- che, ove le camere legislative serbassero questa proporzione d’intel-ligenze, forse che i nuovi ordini costituzionali risponderebbero a’ bisogni della nazione-, e, vestendosi della legalità trionfatrice che indarno si cercò di abbattere, compirebbero l’altissima missione di costituire il reame in quell’equilibrio e uniformità di poteri che indirizza il popolo ed il re verso il vero cammino della grandezza. allora i napoletani saranno liberi, ed il loro re glorioso; allora napoli potrà stendere vigorosa la mano alle altre italiche città; e la parola di pio nono, e la spada di un gran popolo redento, accompagnato col giusto diritto che è la spada fortissima delle nazioni, renderanno Italia fuori temuta e dentro indipendente, siccome già fu classica trionfatrice. e noi avremo meritato dai nostri nepoti lagrime di riconoscenza; lagrime ahimè! che non possiamo dare agli sfortunati avi nostri (108).

di una guerra civile, poiché nello stato di cose dove si verte, forse non m’ingannerei con dire essere vana anche l’idea di una confederazione». Del resto, la gravità del danno prodotto dall’unificazione forzata voluta dal piemonte risaltava chiara agli occhi di De sivo se si poneva mente al processo lento, ma costante, di progressiva unione delle varie parti d’Italia dalla fine del Medioevo in poi che avrebbe avuto come sbocco una naturale confederazione della penisola, cfr. Storia, cit., I, p.

47: «I mali del medio evo già l’età civile leniva; scomparse le furiose e turbolente repubblichette, la comune patria ridotta in pochi principati, gloriosa per arti, paga per mitezza di leggi, maestra di sapienza […] l’Italia era fra le nazioni venerata e rispettata. era ancora regine delle genti, non con armi mortifere, ma con l’impero dell’eterno vero e la parola di Dio. Il papato con le cattoliche braccia stringevala in un amplesso con l’unità della religione, e sollevava l’italiano pensiero su tutte le genti. La piena pace menavala innanzi; le spente rivalità già ne affratellava i figli; e i telegrafi e le strade ferrate ne avvicinavan le regioni».

(107) B. croce, Uno storico reazionario, cit., pp. 147-160.
(108) Ivi, p. 149.

La lacerante esperienza del biennio rivoluzionario passò come un turbine sulle generazioni che la vissero, conducendo alcuni su posizioni fortemente anticlericali (109), o spingendo altri sulla via di quel lungo esilio che avrebbe reso per essi difficile comprendere la realtà meridionale a unificazione avvenuta (110). De sivo, come noto, avrebbe invece reagito rinsaldando i suoi principi religiosi e spostandosi su una posizione di netto rifiuto del liberalismo. Ma se l’esito infelice della rivoluzione liberale nel Mezzogiorno avrebbe acceso in lui la vena di storico proprio in funzione antiliberale, non per questo sarebbero venute meno, come si è visto, le sue convinzioni in merito all’idea federalista, che sarebbero riaffiorate nei difficili anni dell’esilio, e soprattutto la sua visione della unitarietà politica della penisola, e della stretta interdipendenza degli stati di cui essa si componeva. seppure giustificati dagli eccessi del ’48 e dalla volontà di proteggere il regno da ulteriori sconvolgimenti, la chiusura retriva e l’isolamento internazionale delle sicilie promosse da Ferdinando II avrebbero ricevuto, come si è visto, amare parole di biasimo nelle pagine della Storia.

per le Due sicilie vincere la battaglia per la difesa della propria individualità e per l’affermazione del principio federale doveva, pertanto, servire a colmare la loro assenza dall’agone politico italiano prodottasi negli anni precedenti, il cui vuoto era stato occupato proprio dallo spregiudicato dinamismo del piemonte di cavour che aveva cavalcato per i suoi fini l’alea del liberalismo facendosi difensore e patrocinatore della setta.

più che lo scontro di opposte nazionalità tra loro irreconciliabili, la lotta innescatasi con lo sbarco dei Mille sulle sponde siciliane era, del resto, solo l’ultimo atto di una vera guerra civile tra due principi in contrasto nella penisola, quello federativo e quello unitario, che si affrontavano armi alla mano da sempre, per risolvere una volta per tutte il problema italiano. e in questa lotta senza quartiere, logico corollario dell’antitalianità della setta, al nemico non poteva essere riconosciuta alcuna dignità politica poiché «i liberali non han patria» (111). nella privazione della nazionalità al proprio avversario (112), in questo respingerlo al di fuori del perimetro della comune civile convivenza, vi era, in De sivo, la percezione più netta della vera natura della guerra in corso, della guerra civile tra

(109) È, ad esempio, il caso di n. nisco studiato da a. De spirito, Risorgimento, Chiesa e Stato unitario, cit., pp. 277-287.

(110) sul punto cfr., ad esempio, M. petrusewicz, Come il Meridione divenne una questione: rappresentazioni del sud prima e dopo il Quarantotto, soveria Mannelli, Rubbettino, 1998.

(111) G. De sivo, I Napolitani, cit., p. 49.

(112) sul punto, interessanti le considerazioni sull’opera di De sivo di p. pezzino, Risorgimento e guerra civile, cit., pp. 56-61 e 66-72.

italiani, proprio come, in campo liberal moderato, l’incomprensibile resistenza delle popolazioni meridionali poteva spingere alcuni a equiparare gli insorgenti ai ferini abitanti dell’Affrica.

e così, nell’ultima opera di De sivo, a pochi mesi dalla sua prematura scomparsa, la canzone all’Italia, pubblicata in un volume miscellaneo promosso dalla santa sede e dedicato al seicentenario della nascita di Dante, la dissoluzione fisica delle Due sicilie dalla storia lasciava ormai spazio all’immagine di un’Italia non più donna di provincie ma bordello, serva dello straniero, ma soprattutto quella di una madre dilaniata dalla lotta fratricida dei suoi figli.

Mi s’appresenta agli occhi
Quest’Italia già donna, or fatta ancilla;
stride il foco, di morte odo la squilla;
[…]
odo barbare trombe,
veggo folli e perversi, e sangue e tombe

o patria mia che gemi? e che ricordi
Fabii, camilli, Regoli e Fabrizii,
e annibàlle disfatto?
[…]
che valser l’alpi e l’appenino e ‘l mare
onde pietoso il creator ti cinse?
Quelle un tuo re fe’ vuote.
[…]
che ti valse il saper, che valser l’arti
ch’eccelsa in terra e in mar mandan tua fama?
che ti valse esser bella,
perch’altri ti vagheggi ad insozzarti?
ogni stranier si sfama
Della tua carne
[…]
né manca tra’ tuoi figli, infami
sozii del mal, chi di sua man ti sveni,
e ti dia con le labbia
Morsi crudi, e a sbranarti esteri chiami!
Ben gridan patria e beni,
Ma evocano l’antica itala scabbia
Della discorde cittadina rabbia (113).

(113) G. De sivo, All’Italia, in Omaggio a Dante Alighieri offerto dai cattolici italiani nel maggio 1865, sesto centenario dalla sua nascita, Roma, Monaldi, 1865, pp. 93-95.

L’identificazione patria/Italia era, come si vede, ormai completa e si nutriva delle tipiche immagini romantiche dell’epopea risorgimentale come il mito della romanità, cui seguiva un nuovo accenno ad attila- il quale, atro flagello della penisola d’altri tempi, persino lui si sarebbe commosso allo spettacolo offerto dai tempi recenti- oppure il primato italiano nelle ricchezze naturali, nelle arti e nella cultura. Dante stesso, dei cui versi i responsabili della presente ruina si facevano scudo, si sarebbe indignato di fronte alle immagini crude della guerra fratricida che devastava l’Italia. Quell’Italia, madre di tutti gli italiani, da compiangere e da amare.

Emilio Gin

Università degli studi di salerno

Giacinto De Sivo (Maddaloni 1814 – Rome 1867) was the leading pro-Bourbon historian after the fall of the Kingdom of Naples and his books provided the main intellectual support in the struggle to undermine the legitimacy of the Kingdom of Italy. At a closer analysis, however, his image of the Neapolitan nation profoundly differs from other legitimist authors. Although recognising the traditional pillars of the Neapolitan national consciousness, De Sivo was well aware of how the latter was inseparable from the broader Italian nation. At the same time, his works offered valuable insights into the political crisis of Naples and the brigandage that followed the birth of Italy.

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