Alta Terra di Lavoro

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L’ITALIA, LA CALABRIA E LA RIVOLUZIONE

Posted by on Mar 5, 2020

L’ITALIA,  LA  CALABRIA  E  LA  RIVOLUZIONE

  La “piccola era glaciale” volgeva al termine; la laguna di Venezia era ancora completamente ghiacciata e si poteva andare a piedi dalle Fondamenta Nuove a Murano, quando già la Rivoluzione francese aveva decretato la fine della società feudale ed aveva gettato le premesse per l’ascesa della borghesia.

La Gran Bretagna aveva acquistato dagli indigeni la Sierra Leone, in Africa, e gli inglesi erano sbarcati in Australia. George Washington era stato nominato primo presidente degli Usa ed alla Confederazione americana cominciavano ad aderire altri Stati.

            A Valmy, villaggio francese nel dipartimento della Marna, un improvvisato esercito popolare tiene testa alle truppe organizzate dei generali prussiani ed i volontari di Marsiglia combattono cantando la “Canzone dell’esercito del Reno”, ribattezzata poi “Marsigliese” e diventata l’inno della Repubblica. Lo scrittore tedesco J. Wolfgang Goethe, testimone oculare dalla parte della Prussia, dirà che la battaglia segnò “l’inizio di una nuova epoca nella storia del mondo”.    

              Il 25 aprile 1792 entra in servizio a Parigi la macchina inventata dal dottor Guillotin ed il 21 settembre viene abolita la Monarchia. La Francia è proclamata “Repubblica una ed indivisibile”, il re Luigi XVI muore sulla ghigliottina il 21 gennaio 1793 ed il 16 ottobre dello stesso anno a salire sul patibolo è la moglie Maria Antonietta, che i francesi chiamano “l’austriaca”.

            L’assalto alla Bastiglia era stato un gesto simbolico, perché furono liberati sette detenuti in tutto, un giovane aristocratico, quattro falsari e due pazzi; ma era il simbolo dispotico della monarchia che doveva essere abbattuto ed il gesto era destinato a caricarsi di significato, perché il sommovimento divenne il punto di riferimento di una “rivoluzione” apportatrice di libertà, anche se alcuni storici si sono poi chiesti se, per vincere l’antico regime, fossero davvero necessari più di cinque anni di guerra civile e di terrore, seguiti da conflitti che dissanguarono la Francia: 35 mila cittadini ghigliottinati tra il 1793 ed il 1794, decine di migliaia di vittime nella provincia della Vandea, due milioni di soldati francesi uccisi al seguito di Napoleone ed altrettanti soldati europei caduti nelle guerre.

            Tra la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo del 1789 e la sanguinosa repressione operata dal Terrore a partire dal 1793, la Rivoluzione aveva determinato il trionfo dell’ideale democratico e aveva espresso il diritto di ciascun cittadino di perseguire il proprio benessere. Vinta la reazione monarchica e nobiliare con Robespierre, la Francia aveva sconfitto le forze della coalizione europea a Fleurus, località del Belgio nei pressi di Charleroi, e aveva allontanato per sempre il pericolo dell’invasione straniera. Era il 26 giugno 1794, e nel corso della battaglia per la prima volta venne fatto uso di palloni aerostatici a scopo d’osservazione.

            La guerra di difesa si tramuta in guerra di espansione e la Francia inizia ad estendere le frontiere oltre i confini naturali delle Alpi e del Reno. L’obiettivo è di diffondere gli ideali di libertà, fratellanza e uguaglianza in tutti i territori europei e di esportare il modello politico nei paesi conquistati.

            A quel tempo i Savoia regnavano sul Piemonte e la Sardegna; la Lombardia era una provincia austriaca; Genova, che nel 1769 aveva ceduto la Corsica alla Francia, conservava la sua autonomia; il Veneto era riunito nella repubblica di Venezia, con dipendenze istriane e dalmate fino a Corfù. I Ducati di Parma e Piacenza erano governati dai Borbone, Modena e Reggio dagli Este. Ferrara e Bologna erano Legazioni di uno Stato Pontificio che si allargava dal Lazio alle Marche, all’Umbria e alla Romagna. La Toscana era un Granducato sotto i Lorena e solo Lucca si manteneva repubblica indipendente. Gli altri territori della Penisola, dall’Abruzzo in giù, costituivano il regno di Napoli.

            Nel Sud la pressione delle truppe rivoluzionarie aveva spinto Ferdinando di Borbone e la regina Maria Carolina d’Asburgo a stipulare un armistizio con la Repubblica Francese, e sulle navi ormeggiate in rada nel golfo di Napoli i patrioti meridionali erano entrati in contatto con i francesi. Ma dopo la partenza della flotta di Latouche Tréville massoni e giacobini erano rimasti senza protezione, la congiura del 1794 era stata sventata ed il re aveva mandato a morte tre patrioti; il tentativo insurrezionale del 1795 aveva coinvolto Luigi De’ Medici, principe di Ottaviano e reggente della Vicaria sotto il governo di Acton, e questo tipico gentiluomo dell’antico regime, nutrito d’idee illuministe e amico dei filosofi, era stato denunciato come complice e arrestato.

            Nel frattempo in Sicilia Francesco d’Aquino principe di Caramanico, già Gran Maestro della Massoneria nel regno di Napoli e membro del Consiglio di Stato, era subentrato al Caracciolo nella carica di vicerè, e nel 1790 aveva emesso un’ordinanza storica, con la quale si disponeva l’uso della lingua italiana al posto di quella latina, adoperata fino ad allora, ricorda Giuseppe Quatriglio, in tutte le prescrizioni e decisioni dei tribunali supremi relative a questioni siciliane.

            La spinta riformatrice aveva fatto sentire i suoi effetti anche nell’isola. Il Caracciolo, prima di essere richiamato a Napoli per assumere la carica di primo ministro, era riuscito ad abolire il Sant’Uffizio siciliano e Francesco d’Aquino si era adoperato per creare scuole elementari, condurre inchieste sulle condizioni economiche del territorio, limitare i privilegi feudali, dividere le terre comunali al fine di trasformarle in libere proprietà.

            Ma il potere baronale restava forte e quando nel 1794 la corte di Napoli, dopo la proclamazione della guerra contro la Francia, avanzò la richiesta di forti contributi finanziari, il parlamento siciliano, dominato dai grandi feudatari, rifiutò di rispondere in pieno alle esigenze della corona. L’equilibrio che si era formato sotto il viceregno del principe di Caramanico si ruppe ed anche in Sicilia ebbe inizio il movimento di opposizione contro il potere regio. Un movimento che farà dire ad Ernesto Pontieri che in quell’occasione si manifestò il “risveglio della coscienza costituzionale dei baroni siciliani”, ed il parlamento, controllato da un  braccio baronale forte e vigoroso, divenne il simbolo del “sicilianismo” intorno al quale, aggiunge Giuseppe Giarrizzo, vecchio e nuovo si combatterono, il vecchio prevalse e la “nazione siciliana” era salva!

            Anche nell’isola la congiura che nel 1795 doveva dare luogo ad una sollevazione generale al grido di “viva la repubblica” fallì; tutti gli elementi sospetti furono incarcerati, il re borbone si appellò ai baroni siciliani e furono costituiti corpi di volontari per la difesa della religione, del trono e della patria, pronti ad accorrere in difesa del regno.

            Il 20 maggio 1795 fu decapitato Francesco de Blasi, prima illustre vittima della reazione borbonica nell’isola, letterato e giurista riconosciuto da Quatriglio come una delle menti illuminate di maggiore spicco dell’ultimo Settecento siciliano. L’anno dopo fu imprigionato a Napoli Mario Pagano, che era stato coraggioso difensore dei congiurati nel processo del 1794.

            Le vicende della rivoluzione francese, nell’isola occupata dagli inglesi e diventata rifugio della corte napoletana, finiranno per rinsaldare la posizione conservatrice della nobiltà, scrive ancora Quatriglio, proprio mentre molti sostenitori del riformismo vicereale spingevano su posizioni democratiche e mentre lo stesso viceré Francesco d’Aquino (“grato e forse caro alla regina”, scriverà Pietro Colletta), amico di molti francesi importanti, improvvisamente moriva, “colto da subito accidente” il 9 gennaio 1795.

            Il clima politico generale nel Regno era ormai mutato – sottolinea Stuart J. Woolf – e quando, nel 1794, fu posto fine ad ogni tentativo di riforma, Filangieri e molti altri illuministi erano morti; Longano morì poco più tardi, Domenico Grimaldi e Mario Pagano furono arrestati e Odazzi morì in prigione. Di fronte al pericolo rivoluzionario esterno e alle congiure interne l’esperimento riformistico napoletano si era interrotto, dando inizio ad un periodo di sospetti e di repressione che si manifestò con incarcerazioni, esilio e deportazioni contro congiurati veri o presunti. Acton era diventato molto potente e l’abbraccio con l’Austria aveva portato la corte borbonica napoletana a scavare una frattura profonda non solo tra il regime e i democratici più accesi, ma anche con l’intellettualità riformista di sicura fede monarchica, che non avrebbe esitato nel 1799 a sostenere la Repubblica Napoletana.

            Tra il 1792 ed il 1799 la crisi della società napoletana continuò ad aggravarsi, investendo sia le strutture economiche che quelle politiche. Come abbiamo ampiamente scritto nei capitoli precedenti, Ferdinando IV era riuscito ad impedire che il malessere generale si trasformasse in un elemento di rottura, spingendo le idee rivoluzionarie in un angolo ristretto dove solo pochi intellettuali potevano accedere, ed il malcontento dei contadini era tenuto sotto controllo e non costituiva un effettivo pericolo di rivolta generale.

            Una delle realizzazioni più importanti dell’epoca, capace di sorprendere per le caratteristiche di esperimento e di utilità sociale, era stata la Real Colonia di San Leucio, fondata nel 1789; uno stabilimento dove venivano trattate “sete grezze e lavorate di diverse specie”, inserito in una colonia “con tutto ciò che è necessario pe’ comodi della vita”.

            La colonia di San Leucio – ha scritto Bruno Bisogni – fu istituita con uno statuto che assumeva molte delle idee del riformismo illuminista e che teneva conto della lezione di pensatori che avevano segnato il Settecento napoletano, dal Filangieri al Galante e al Genovesi. San Leucio – aggiunge l’articolista de Il Sole-24ore – divenne un centro di produzione del tessile, ma anche una sorta di piccola città. Accanto allo stabilimento erano state costruite alcune scuole e una parrocchia. Tutto il sistema delle relazioni sociali era codificato in apposite regole, che stabilivano diritti e doveri, orari di lavoro, attività commerciali possibili, fino ai riti di fidanzamento, al giorno consacrato per il matrimonio (quello di Pentecoste) e ai precetti per una sana convivenza coniugale. Un nuovo modello di lavoro integrato in una comunità sperimentale. Qualcosa che all’epoca fece scalpore, non soltanto per il successo quasi immediato ottenuto dalle sete pregiate prodotte dalla colonia tessile.

            Il progetto e la realizzazione del complesso manifatturiero avevano seguito la scuola di pensiero di Luigi Vanvitelli, uno dei più grandi architetti del tempo, che aveva dato vita alla Reggia di Caserta. L’esecuzione dell’opera era stata affidata a due suoi allievi: Francesco Collecini, che aveva trasformato l’antico palazzo del Belvedere di San Leucio in edificio della seta e che aveva costruito i rioni per consentire agli operai di alloggiare di fronte allo stabilimento, e Giovanni Patturelli, che da lì a qualche anno completerà il complesso con la creazione di una moderna Real Fabbrica delle sete e di una Filanda. 

            Ma la colonia di San Leucio rappresenta un’eccezione, nel panorama economico del regno di Napoli sul finire del Settecento, quando la morsa dei privilegi baronali era ancora forte, visto che su 2.765 città, terre o luoghi abitati non più di duecento si collocavano al di fuori della giurisdizione feudale; la capitale continuava ad esercitare il predominio sulle province e l’egemonia dei mercati di esportazione contribuiva a frenare lo sviluppo dell’industria e l’espansione della produzione nazionale.

            Le campagne meridionali erano state la sede delle trasformazioni più importanti, derivanti dal processo di privatizzazione delle terre. In Calabria l’albero da frutto aveva modificato il paesaggio e l’ulivo aveva soppiantato progressivamente il gelso. Ma l’assalto alle terre comuni da parte dei nuovi ceti borghesi aveva determinato un cambiamento dei contratti agrari ed una diminuzione dei salari reali dei braccianti agricoli. La difesa dei contadini poveri in presenza di una usurpazione sfrenata dei loro secolari diritti esercitati sulla terra veniva assunta saltuariamente dagli amministratori dei Comuni e dai rappresentanti del basso clero.

            Nelle campagne, precisa Lepre, l’odio dei contadini si rivolgeva essenzialmente verso i piccoli proprietari locali, verso gli amministratori comunali corrotti e al soldo dei possidenti e contro gli impiegati dell’amministrazione baronale.

            Un lungo elenco di balzelli, dazi e gabelle caratterizzava la società del tempo. Per dare un’idea di come tutto fosse soggetto al controllo degli agenti finanziari dello Stato e dei baroni, nonché degli arrendatori ai quali, dopo i moti di Masaniello del 1647/48, il governo vicereale spagnolo aveva appaltato la riscossione delle tasse su ferro, acciaio, pece, carni fresche e salate, formaggi e salumi, vino e sale, riteniamo utile fornire alcuni esempi di “diritti imposti per legge o pretesi per consuetudine” che erano in vigore in quell’epoca.

            Cominciamo con la citazione del diritto di tratta a carico di cereali, seta, legname, vini, agrumi, uva e fichi secchi, prodotti che potevano circolare solo con un nulla osta rilasciato dal trattiere e chiamato provisione; e proseguiamo con la fida, che dovevano pagare i pastori per pascolare gli armenti nel territorio demaniale; il diritto di dormituro era a carico dei pastori che intendevano dormire sul luogo del pascolo; il diritto di salmaggio di cinque grana a soma, a carico di chi trasportava merce sul mulo; i mercanti dovevano pagare il diritto di fondaco per la custodia delle merci nei depositi; il diritto di passi toccava per il trasporto da una sponda all’altra di fiumi, laghi e di altre acque stagnanti; la dogana di piazza colpiva tutti i generi commestibili.

            E come se ciò non bastasse, era stata introdotta pure l’imposta della crociata, ordinata da Pio VI con Bolla del 1777 e concessa al governo napoletano nel 1778.

            Galanti ha riferito che nel Settecento un prodotto, per andare dalla Calabria a Napoli via terra, era soggetto a tredici diverse gabelle, ed anche se già nel lontano 1538 l’imperatore Carlo V  aveva stabilito che “i vassalli potessero cuocere il pane, macinarsi il grano, tener taverna, ed intraprender viaggi, senza essere obbligati ad altri servigi…”, gli esempi che abbiamo fornito dimostrano che in Calabria gli abusi feudali continuarono e furono perpetrati da funzionari regi e baronali, tant’è vero che nel 1755, scrivono Saverio Di Bella e Giovanni Iuffrida, il feudatario locale, invocando lo jus prohibendi tabernas, impediva ai marinai di Pizzo la vendita di salumi fatta in una bottega di Girifalco.      Giuseppe Brasacchio ci informa che nel 1792, per merito del ministro Giuseppe Palmieri, furono aboliti i diritti di passo, ma in Calabria l’imposta rimase ancora per qualche anno, e la sua completa abolizione di fatto avvenne con l’arrivo degli eserciti di Napoleone. I diritti di passo, continua lo studioso, erano difesi ad oltranza dai feudatari calabresi e danneggiavano anche la pastorizia transumante che lungo gli itinerari tra la Sila e le marine joniche incappava nelle spire dei famelici agenti feudali che esigevano con rigore i balzelli.

            Nella Turchia ottomana, che dominava tutto il Mediterraneo Orientale, era in vigore un solo dazio doganale nella misura del 7%, mentre nel regno di Napoli, su alcuni prodotti, si arrivava a pagare il 40% del valore delle merci. I sovrani borbonici avevano abolito, è vero, gli arrendamenti del tabacco, della manna (una sostanza medicinale, purgativa), dell’acquavite, dello zafferano e in alcune province della seta; e da lì a qualche anno aboliranno ventuno altri diritti marinari e di terra (alcuni dei quali imposti dai Normanni sette secoli prima); ma, precisano Di Bella e Iuffrida, l’incapacità della riforma catastale tendente a sostituire le imposte indirette sui consumi con la più equa imposta diretta sui beni censiti, e l’espropriazione legalizzata delle risorse delle province periferiche del regno da parte della capitale, sviluppata attraverso la concessione a terzi delle dogane regie, aumentarono l’incertezza del sistema fiscale e favorirono il consolidamento di posizioni di privilegio economico e sociale, con inevitabili conseguenze negative sulla gente povera.

            Nelle città e terre feudali, continuano i due autori citando Schipa, al potere sulla giustizia e sulle braccia dei vassalli, si aggiunsero nell’ambito del sistema fiscale locale le dogane baronali, gestite dal governatore, “inteso a far giustizia e a riscuotere diritti” attraverso il “pubblico parlamento”, ed in questa situazione il Mezzogiorno d’Italia continuò a fornire prodotti alimentari e materie prime, confermando una specializzazione agricola obbligata non solo dalle specifiche condizioni naturali, ma anche dalla forza economico-finanziaria di chi determinava i circuiti commerciali.

            Giuseppe Galasso ha scritto che dobbiamo agli scrittori napoletani della seconda metà del Settecento le prime indagini sistematiche sulla realtà fisica, demografica, economica, sociale del Regno. Ma un contributo determinante per la conoscenza della realtà napoletana, ed in particolare della Calabria, viene pure dai numerosi viaggiatori stranieri che nel corso degli anni hanno intrapreso avventurosi viaggi a piedi o con mezzi di fortuna per arrivare nelle terre più a Sud del regno di Napoli.

            E Carlo Carlino ha aggiunto che la letteratura di viaggio ci ha lasciato della Calabria differenti immagini; immagini che ubbidiscono, almeno in parte, a schemi precisi e a miti ampiamente diffusi in Europa, a testimonianza della scarsa conoscenza che si aveva della regione. Del resto, continua Carlino, i tantissimi viaggiatori che visitarono la Calabria nel corso del Settecento sono la testimonianza di un profondo interesse della cultura europea per la regione. Ed i motivi sono fin troppo noti: oltre al terremoto, c’è la ricerca e il richiamo dei fasti della Magna Grecia, a cui si aggiunsero altri interessi e altre direttrici, seguendo l’impulso dell’illuminismo, che aveva contribuito a creare una mentalità che spingeva gli osservatori verso un’analisi critica dei problemi del territorio.

            Nel 1767 il tedesco Von Riedesel parlò di Crotone come “il più infelice paese d’Italia e forse del mondo”, e qualche anno dopo l’inglese Henry Swinburne trovò la città immersa nella miseria e nel malumore.

            Jean Claude Richard Saint Non, un abate che visitò la Calabria nel 1778 con al seguito due disegnatori, il Déspres e lo Chatelet, i quali hanno lasciato preziose tavole che danno un’immagine viva del paesaggio settecentesco, nel libro di memorie pubblicato a Parigi scrisse che in una vecchia torre, tra Roccelletta e Gerace, le pulci hanno la meglio sui viaggiatori che sono costretti a sloggiare; mentre a Tarsia sono ospitati in un convento, immerso nello squallore, dove dormono vestiti vicino al caminetto dopo aver mangiato fagiolini all’olio e uova sode.

            Alcune note mettono in evidenza l’ospitalità e la generosità degli abitanti (“Andammo ad abitare presso uno di loro che ci trattò con tutta la cordialità di cui sono capaci i nostri contadini; perché i calabresi, nonostante la loro cattiva reputazione, hanno solo la barba e il vestito più nero degli altri”,  dirà Denon), ma in tutti i visitatori prevalgono l’osservazione di un paesaggio aspro e selvaggio e le annotazioni sui comportamenti della popolazione con i suoi usi e costumi.

            La Calabria del Settecento era, per il Saint Non, come la Francia dell’undicesimo secolo, solo che “i baroni non hanno né fortezze né ponti levatoi, le merlature senza cannoni rovinano di giorno in giorno e vanno in malora, mentre i baroni vanno in rovina alla Corte di Napoli”.

            E sempre nel 1778 a visitare la Calabria venne Dominique-Vivant Denon, scrittore e diplomatico francese, il quale lasciò testimonianze sugli aspetti contraddittori della regione: “Casalnuovo è una città sporca, spopolata, apparentemente devastata dai terremoti; la povertà è dipinta sul volto degli abitanti, nel modo più disgustoso. E’ veramente sorprendente scoprire in questo santuario della miseria il più bel paese che la terra abbia mai prodotto; è l’aspetto della terra promessa vista dal deserto; un’immagine dell’età dell’oro, del paradiso terrestre”.          

            Nei primi giorni del 1784 giunse a Napoli in visita privata  l’imperatore austriaco Giuseppe II, il quale, colpito dalle notizie che provenivano dalla Calabria, aveva manifestato il desiderio di visitare quelle terre rovinate dal terremoto dell’anno prima; ma i disagi del cammino, la stagione invernale e l’assenza di strade regie o buone, scrive Colletta,  sconsigliarono il viaggio.

            Giovanni Vivenzio, protomedico del Regno, inviato in Calabria per seguire da vicino le vicende del dopo terremoto, nelle sue osservazioni parlò di 20 mila morti di malaria nella piana di Rosarno e nell’intera provincia di Calabria Ultra: la vallata del Mesima si era abbassata di un metro, i fiumi erano diventati laghi o paludi ed avevano reso sterili i campi.

            Johann Heinrich Bartels, borgomastro di Amburgo, nel 1786 pernottò a 8 miglia da Nicastro e scrisse: “Tutta la locanda si compone di un solo stanzone, per metà stalla e per l’altra metà cucina e stanza da letto. In un angolo c’è un piano di legno sul quale non ci si può nemmeno allungare comodamente: ebbene, questo sarà il nostro giaciglio per questa notte”.

            Nel 1791 l’inglese Brian Hill non vedeva l’ora di lasciare la Calabria, tormentato com’era dalle pulci, dopo aver cercato invano di dormire in un vero letto con lenzuola e coperte.

            Federico Leopoldo von Stolberg, che visitò la regione nel mese di maggio del 1792, su Crotone scrisse che “l’acqua straripante del fiume e la decadenza del porto hanno contribuito senza dubbio alla cattiva aria di questa città; comunque, a peggiorare ulteriormente il tutto, ci sono i vicoli stretti e la sporcizia degli abitanti”.

            Il diplomatico tedesco, in Calabria dal 17 al 30 maggio, si ritenne fortunato nell’aver trovato, nei pressi di Catanzaro, una locanda “che secondo la mentalità di qui è un grande albergo, mentre in Germania la si chiamerebbe stamberga”. Nel corso del viaggio egli si accorse che “anche la mancanza di strade aggrava lo stato di questa bella provincia, dove non è ancora stata costruita nemmeno una strada carrozzabile. Nella Calabria Citra la situazione è la stessa. La strada di campagna che parte da Napoli non va oltre Lago Negro, nella Basilicata. In realtà dovrebbe arrivare fino a Reggio; ma, può essere sufficiente una sola strada per delle province così meravigliose?”.

            Questo si chiedeva il nobile diplomatico sul finire del Settecento, e poi aggiungeva: “I sentieri per viandanti sono praticabili solo d’estate e sempre con difficoltà. I fiumi che si sono prosciugati hanno devastato il paese, lasciando nella terra profonde crepe. Abbiamo cavalcato attraverso fiumi, in parte del tutto asciutti, in parte molto poco profondi. La larghezza dei loro letti, le rive divelte con violenza, i profondi crepacci che lacerano la terra, mostrano come questi fiumi si rigonfino in autunno ed in inverno”.

            Nel 1798 una relazione da Nicastro ricorda “le penose carestie, le stentate ricolte, che àn tenuto quella popolazione abbattuta e la tengono tuttavia”. Nel frattempo Napoleone ha concluso la sua prima campagna in Italia, al Nord della Penisola è stata proclamata la repubblica Cispadana, il Congresso di Reggio Emilia ha adottato il Tricolore e a Roma è stata proclamata la Repubblica. Nel Sud continuano a regnare i Borbone, ma ancora per pochi giorni.

fonte http://www.sanmangomia.it/arte_cultura_personaggi/armando_orlando/la_calabria_del_settecento/16_italia_calabria_rivoluzione.html

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