Alta Terra di Lavoro

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L’Italia sta riscoprendo il grande Vittorio De Sica, uomo da 4 Oscar

Posted by on Mar 29, 2017

L’Italia sta riscoprendo il grande Vittorio De Sica, uomo da 4 Oscar

Il cinema Nestor di Frosinone, in occasione degli ultimi anniversari della nascita di Vittorio De Sica, ha proiettato cinque pellicole tra le più importanti dell’attore e regista sorano, vincitore di ben quattro Oscar, che ha creato capolavori inimitabili, come Ladri di biciclette e Matrimonio all’italiana, giocatore incallito e donnaiolo, ma talentuoso attore.

L’iniziativa, organizzata dall’amministrazione comunale di Frosinone e da Cinearte, ha visto la proiezione di La Ciociara, di Miracolo a Milano, di Ladri di biciclette, di Sciuscià e de Il giardino dei Finzi Contini.

Nato nel 1901, a Sora in Alta Terra di Lavoro, Vittorio De Sica crebbe a Napoli, in un ambiente modesto. Lo si destina alla contabilità, ma il suo bel portamento e la sua facondia gli assicurano, sin dall’adolescenza, buoni successi a teatro e nel cinema. Attore fascinoso, De Sica si rivela, negli anni ’40, grande cineasta. I ragazzi ci guardano, scritto assieme a Cesare Zavattini, testimonia una maestrìa assoluta della forma del melodramma: mai questo ritratto di un maschietto devastato dal divorzio dei suoi genitori sprofonda nel phatos. La stessa sensibilità all’infanzia è all’opera in Sciuscià, che, prendendo per eroi due piccoli lustrascarpe, coglie al volo lo smarrimento e la miseria dell’Italia del dopoguerra.

La pellicola è emblematica di quel neorealismo con cui Vittorio De Sica contribuisce a forgiare i principii. Anche raccontando il più terribile dell’esperienza umana, come Ladri di biciclette (1948, Oscar per il miglior film straniero), De Sica non perde mai la sua fede nell’uomo né il suo talento per far sorgere la poesia alla svolta di una scena di strada.

Il film, tratto dall’omonimo romanzo di Luigi Bartolini, tratta del dopoguerra, delle periferie di Roma, della disoccupazione, della miseria, della sconvolgente avventura di un operaio e del suo giovane figlio. Un grande classico del neorealismo sociale, secondo Vittorio De Sica e Cesare Zavattini. A Roma Antonio Ricci, operaio che abita, con sua moglie e i suoi due figli, in un piccolo alloggio di periferia, è disoccupato da due anni. Egli si vede attribuire un impiego di attacchino per il quale ha bisogno di una bicicletta. La sua al monte di pietà. Sua moglie la recupera impegnando le lenzuola matrimoniali. Appena Antonio inizia a lavorare, gli si ruba la bicicletta. Sfiduciato, tenta di rubarne una allo stadio, ma è bloccato ed aggredito dalla folla. Viene lasciato libero per le lacrime del figlio Bruno, che commuovono la gente.

Una sceneggiatura di Cesare Zavattini, degli interpreti non professionisti e degli scenarii naturali: nessuna pellicola quanto questa ha rappresentato la verità sociale del neorealismo italiano. Non è un semplice resoconto sulla disoccupazione e sulla delinquenza causata dalla miseria, ma la storia di un operaio che si scontra con una fatalità sociale, sotto gli occhi del suo giovane figlio, suo testimone e sua coscienza. Una grande opera umanistica, una “lucida e profonda analisi della dura realtà di quegli anni”, “il punto più alto della collaborazione tra De Sica e Zavattini”, in cui “si armonizzano sia la loro poetica del quotidiano e del “pedinamento” (scoprendo, sulle orme degli uomini comuni, un mondo di miseria e di problemi mai risolti) sia il loro amore per i personaggi, che qui si fa vero senso di pietà”.

Tre anni dopo, De Sica gira Miracolo a Milano: una vecchia brava signora, Lolotta (Emma Grammatica), dal cuore puro, trova, nel suo giardino della periferia di Milano, un bambino in un cavolo. Lo raccoglie e l’alleva con principii di bontà e di solidarietà, che lo portano poi a venir in aiuto agli esseri più sforniti di denaro. A diciott’anni, il ragazzo, interpretato da Francesco Golisano, vuol essere la fortuna dei poveri e dei barboni che abitano le baracche della zona.

Una volta mortagli la madre, Totò si ingegna di portare la fortuna a numerosi barboni che vivono miseramente nella periferia milanese. Egli li incita a costruire una città su un terreno, da cui scaturisce petrolio…

“La mia sola ambizione è di tentare una fiaba nel XX sec.”, rivelava De Sica all’uscita del film. Precursore, con il suo soggettista Zavattini, della corrente neorealista del cinema italiano, il regista abbandona il verismo denunciatore per offrirsi la ricreazione di una fiaba. Questa storia meravigliosa ed edificante, che evita la derisione come la leziosaggine, è come uno sbuffo, un forte soffio d’aria nuova. Ciò non gli impedisce di avere una portata, perfino una morale, che lo classifica fra i capolavori di questa epoca.

Tratto da un romanzo di Cesare Zavattini, Totò il buono, è una bellissima fiaba sociale sulla miseria dell’Italia dell’epoca e sulla lotta di classe.

L’aspetto poetico e la mescolanza del realismo e del meraviglioso sconcertarono i sostenitori del “neorealismo”, malgrado la Palma d’oro al Festival di Cannes dello anno, ex-aequo con La notte del piacere di Alf Sjoberg, da una pièce di August Strindberg, oltre al premio della critica negli Stati Uniti.

Nel 1954 Vittorio gira L’oro di Napoli, film ad episodi, quattro: Il guappo, I giocatori, Teresa e Pizze a credito, tratti da un romanzo di Giuseppe Marotta. Originariamente erano sei le scenette. Due furono soppresse nello sfruttamento commerciale.

Una modesta famiglia napoletana si sbarazza di un parassita che la tiranneggia; una procace venditrice di pizze inganna il marito facendolo becco e si trae, con astuzia, d’impaccio; una prostituta sposa un folle mistico; un aristocratico, rovinato economicamente, gioca a carte con il figlio del suo portinaio…Storie buffe, emozionanti, pittoresche, truculente, sulla vita di Napoli, di una città piena di voglia di vivere, secondo i racconti del già citato Marotta, adattate da Cesare Zavattini. In questa pellicola, che presenta una schiera di formidabili attori, misconosciuta al suo tempo ed infine presentata in una versione molto più completa di quella che era circolata inizialmente, il neorealismo originario si congiunge con la commedia italiana.

I bozzetti fanno vivere diversi aspetti della vita partenopea, triste e gaia, appassionata, costantemente agitata. L’adattamento fu scritto dall’autore e da Cesare Zavattini, sceneggiatore del neorealismo. Le riprese ebbero luogo in scenarii naturali, ma con dei divi, quali Sophia Loren e Silvana Mangano, oltre a Vittorio De Sica e a Totò. Vilipeso, alla sua uscita, dal sindaco di Napoli e dai critici italiani, il film, si è imposto, dopo, come una summa di cronache sul tragico quotidiano napoletano. Vi si mischiano realismo drammatico, umorismo e truculenta, come nelle migliori commedie italiane. Totò nella parte del pazzariello, don Saverio, che si ribella al guappo prepotente, don Carmine, che lo angaria da dieci anni, installandosi a casa sua, è geniale; Vittorio De Sica, spiantatissimo conte Prospero, inveterato giocatore, che al gioco ha perso tutto, si fa battere, a carte, dall’irrispettoso figlio del portiere, un ragazzino; Silvana Mangano appare sotto una luce nuova, quella di una peripatetica, Teresa; la prorompente pizzaiola Sophia Loren scoppia di femminilità e di malizia; Eduardo de Filippo (il venerato don Ersilio) dà lezioni di pernacchio ai popolani stufi delle prepotenze di un boss.

Come regista, De Sica firma ancora 19 films, di cui alcuni di non eccelsa lega o addirittura sconclusionati, che non fanno molto onore al realizzatore. Di essi, ne salviamo quattro: La ciociara (1960), tratto dal romanzo di Alberto Moravia, con Sophia Loren, Jean-Paul Belmondo, Raf Vallone, Renato Salvatori, Carlo Ninchi e Pupella Maggio. La Loren, che interpreta la parte della giovane vedova Cesira, ottiene l’Oscar per la migliore interpretazione e lo stesso riconoscimento al Festival di Cannes. Ieri, oggi, domani (1963), Oscar per il miglior film straniero, in cui donna Sophia si spoglia mettendo in evidenza un cumulo di curve, come al mondo non ce n’è, avrebbe cantato Fred Buscaglione buonanima. Matrimonio all’italiana (1965), ancora con Sophia Loren e Marcello Mastroianni, tratto dalla commedia Filumena Marturano di Eduardo De Filippo, una delle pellicole più riuscite in formato esportazione, piacevole ma in fondo superficiale. Il giardino dei Finzi Contini (1970), tratto dal libro omonimo di Giorgio Bassani, con Dominique Sanda, Helmut Berger, Romolo Valli, Lino Caporicchio. Tratta di un’antica ed agiata famiglia israelita, che, sotto il peso delle discriminazioni raziali, preferisce un dignitoso isolamento. Dramma sentimentale, dai toni sommessi, lievi, dai tenui colori, dalla squisita eleganza figurativa. Ha vinto l’Oscar per il miglior film straniero e l’Orso d’oro al Festival di Berlino. La pellicola costituì il trampolino di lancio per la bellissima Dominique Sanda.

Nel 1974 l’attore-regista scompare lasciando un’opera di primaria importanza, profondamente umanistica, la cui macchina narrativa costringe lo spettatore non solo ad accettare l’immagine di una condizione umana, ma a riconoscervi il proprio destino ineluttabile, il tutto in una sublime economia dei piani e dei dialoghi.

 Alfredo Saccoccio

 

 

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