L’OMBRA DELLA MASSONERIA SULLA MARCIA SU ROMA
Può la massoneria aver avuto un ruolo incisivo nella presa del potere fascista? Perché Mussolini incontrò fugacemente i vertici di un ramo massonico pochi giorni prima della fatidica Marcia su Roma? Quale fu la natura dei rapporti tra il Duce e il “gran maestro” della loggia di Piazza del Gesù, Raul Palermi? Le influenze massoniche, presenti anche nei vertici dell’Esercito, potrebbero aver indotti il Re a cedere al colpo di mano fascista? |
Nella fase cruciale in cui il destino del movimento fascista appariva sospeso tra il trionfo e la catastrofe, tra la conquista del potere e la repressione da parte dell’esercito regio, la vasta rete di relazioni massoniche potrebbe aver avuto un ruolo determinante. Il condizionale è d’obbligo: scarseggiano infatti le prove inoppugnabili della capacità della massoneria di influire sulle decisioni di Vittorio Emanuele III nelle ore convulse della marcia su Roma. Resta un vago sospetto che la storiografia sul fascismo non ha mai voluto ignorare del tutto.
Ogni volta che affiora, seducente e fallace, la teoria del complotto si avvinghia ad una testimonianza in apparenza lucida e circostanziata che le conferisce attendibilità, gettando un insperato raggio di luce su fatti altrimenti inspiegabili. Nel caso dell’avvento del fascismo non mancano né la testimonianza circostanziata capace di accreditare l’ipotesi del complotto, né tanto meno una decisione, quella del re riguardo alla firma dello stato d’assedio, che appare per molti versi misteriosa ed inspiegabile se non facendo riferimento ad interventi esterni ed occulti.
Il 25 ottobre 1922, di ritorno dall’adunata di Napoli, in cui erano stati definiti i dettagli operativi per la marcia su Roma, Mussolini avrebbe incontrato alla stazione Termini Raul Palermi, gran maestro della massoneria di Piazza del Gesù, nata nel 1908 dalla scissione dal Grande Oriente d’Italia in cui si riconosceva la maggior parte dei liberi muratori italiani. A riferire del fugace incontro sulla banchina della stazione romana è Cesare Rossi, stretto collaboratore del futuro duce dalle origini del movimento fascista sino al delitto Matteotti: “Risalito in treno per Milano . Mussolini . mi disse: ‘Quello era Raul Palermi. Mi ha assicurato che ufficiali del comando della Regia Guardia, alcuni comandanti di reparto della guarnigione di Roma, ed il generale Cittadini, primo aiutante di campo del re, ci aiuteranno nel nostro moto. E’ tutta gente della sua Massoneria.’ Divenuto anch’io amico di Palermi, questi mi garantì che anche il duca del Mare, il grande ammiraglio Thaon de Revel, era iscritto alla Massoneria di Piazza del Gesù. Può darsi che nelle assicurazioni di Palermi ci sia stato un po’ di bluff o per lo meno una certa esagerazione, ma sta di fatto che nei giorni 27-28-29 ottobre il sovrano gran maestro del Rito Scozzese ‘riconosciuto ed accettato’ – come vuole la formula – fece la spoletta fra la sede del Partito Fascista, Montecitorio, il Viminale ed il Quirinale, dove fu ricevuto da Cittadini in varie ore senza preavviso anche di notte.”
Senza dubbio le diverse obbedienze massoniche non furono immuni dalla tentazione di salire per tempo sul carro del vincitore, assicurandosi così buone relazioni con quella che si annunciava come la nuova classe dirigente. La massoneria di Piazza del Gesù, assai poco sensibile agli scrupoli democratici ed intenzionata a sfruttare l’abbraccio con Mussolini per imporsi sul rivale Grande Oriente d’Italia di Palazzo Giustiniani, si affrettò ad irrobustire il proprio sostegno politico con generosi contributi economici. Stando alla testimonianza del fratello Michele Terzaghi, eletto deputato nelle file fasciste nel 1921, i seguaci di Palermi avrebbero versato la ragguardevole somma di tre milioni e mezzo di Lire nelle casse del movimento mussoliniano. Nella serrata gara liberomuratoria per conquistare la benevolenza del futuro duce.
Palermi si distinse per piaggeria e prontezza nell’assecondare la politica fascista. Durante l’incontro romano del 25 ottobre, oppure qualche tempo dopo, a seconda delle versioni, Mussolini avrebbe addirittura ricevuto da Palermi, ed accettato senza battere ciglio, la sciarpa ed il brevetto ad honorem del 33° grado, che nel Rito Scozzese Antico e Accettato esprime il vertice della gerarchia tra gli iniziati. All’indomani della marcia su Roma, Palermi sottopose a Mussolini una dichiarazione con la quale la sua famiglia massonica esprimeva piena adesione agli ideali fascisti, ostentando una maggiore solerzia rispetto al Grande Oriente d’Italia, il cui gran maestro, Domizio Torrigiani, pur avendo salutato il fascismo come “una rivolta necessaria”, come una “liberazione” dalla confusione politica in cui versava il paese, aveva preferito invece adottare un generico atteggiamento benevolo ed attendista, condizionando l’appoggio dei liberi muratori italiani al rispetto delle libertà democratiche e parlamentari. Palermi non negò neppure al capo del governo il credito delle sue relazioni internazionali e si adoperò presso i confratelli delle logge inglesi ed americane per dissiparne i timori verso i caratteri autoritari ed illiberali della rivoluzione fascista. Tale docile e deferente sottomissione ai voleri di Mussolini valse a Palermi ed ai suoi adepti un trattamento privilegiato che alimentò per qualche tempo l’illusione che fascismo ed una certa massoneria potessero convivere. Nel novembre del 1923, quando il Gran Consiglio del fascismo si era già da tempo pronunciato, seppur con l’astensione di alcuni fratelli in camicia nera come Dudan, Acerbo, Balbo e Rossi, sull’incompatibilità tra militanza fascista ed obbedienza massonica, Mussolini accettò di ricevere una delegazione ufficiale di Piazza del Gesù e non si astenne dall’esprimere la propria simpatia “per un ordine nazionale che all’infuori di ogni settarismo serve la Patria con fedeltà al Governo Nazionale.”
Acclarato il legame tra la massoneria di Piazza del Gesù ed il fascismo prima e dopo la marcia su Roma, restano comunque prive di convincenti conferme le affermazioni attribuite a Palermi circa le ramificazioni delle sue relazioni all’interno delle forze armate a partire dai vertici più influenti sulla Corona, sino agli ufficiali di reparto.
Non abbiamo elementi per escludere l’affiliazione all’obbedienza di Piazza del Gesù di un non meglio precisato numero di comandanti della Guardia Regia e di reparti della guarnigione di Roma, ci pare tuttavia lecito dubitare che tali ufficiali posti difronte all’alternativa tra l’esecuzione degli ordini del re e le indicazioni del loro gran maestro avrebbero infangato il loro onore militare e rischiato la propria carriera. Tale dubbio è confermato dalle affermazioni del generale Pugliese, comandante della guarnigione di Roma, secondo cui, salvo sporadiche eccezioni, le sue truppe sarebbero state immuni da ogni tentazione sediziosa e determinate nella volontà di eseguire ad ogni costo gli ordini superiori. Anche ammettendo che il pugno di ufficiali pronti a venir meno al proprio giuramento ed al vincolo di fedeltà alle istituzioni prendesse ordini da Palermi, appare decisamente improbabile che il loro tradimento sarebbe stato determinante per le sorti del fascismo se il re avesse scelto di firmare lo stato d’assedio e di procedere al disarmo delle squadre in camicia nera.
Pertanto, lasciamo da parte ogni ulteriore sforzo di quantificare l’influenza massonica tra gli ufficiali posti a difesa della capitale e torniamo al tema centrale della repentina decisione di Vittorio Emanuele III di non firmare lo stato d’assedio, su cui le trame di Palermi e dei suoi fratelli potrebbero essere state determinanti.
Lo stesso Rossi nel riferire le confidenze avute dal gran maestro non esclude che questi potesse aver bluffato sulle proprie entrature in alto loco per darsi una maggiore importanza. Peraltro sul carattere intrigante e ciarlatanesco di Palermi esistono ben pochi dubbi. Durante il regime, dopo che la legge sulle associazioni approvata nel 1925 aveva costretto gli adepti di entrambe le obbedienze massoniche ad “entrare in sonno”, cioè a scivolare nella clandestinità per evitare la repressione fascista, Palermi non esitò ad arruolarsi tra i confidenti dell’OVRA, la polizia segreta fascista, riprendendo una attività che aveva svolto già prima dell’avvento di Mussolini. Un uomo del tutto estraneo alla massoneria come Francesco Saverio Nitti ebbe nel 1929 parole sprezzanti per l’integrità morale del gran maestro di Piazza del Gesù: “Ora a me consta che il Sig. Raul Palermi è stato per molti anni sussidiato al Ministero degli Interni come informatore, cioè praticamente come spia (.)
Durante la guerra il Signor Palermi ha tenuto una condotta ignobile (.) era al servizio di Dante Cavallini, condannato (.) per intese col nemico in guerra. Il Palermi non disdegnò di ricevere sussidi anche dai nemici.”
Contro l’ipotesi della centralità del complotto massonico nella conquista del potere da parte di Mussolini depone non solo la scarsa attendibilità di Palermi, la cui disinvoltura morale e la consuetudine con le arti proprie del sicofante inducono a crederlo capace di ogni bluff pur di ingraziarsi il potere, ma anche l’assenza di conferme circa l’affiliazione massonica sia dell’ammiraglio Paolo Emilio Thaon di Revel, sia del generale Arturo Cittadini. Tuttavia l’ipotesi complottistica massonica vacilla, ma non crolla definitivamente. Infatti, un profondo conoscitore della massoneria come Aldo Mola, pur non conferendo alcun peso all’influenza massonica nella decisione reale a proposito dello stato d’assedio, indica Cittadini come probabile membro “coperto” della loggia Propaganda massonica. Dunque l’assenza del nome del generale negli elenchi ufficiali di Piazza del Gesù troverebbe una spiegazione plausibile, tornando ad alimentare il sospetto che la longa manus della setta verde potrebbe aver avuto un ruolo di rilievo. Riguardo all’ammiraglio Thaon di Revel non disponiamo di indicazioni circa la sua appartenenza ad una loggia e su coperta, ma non possiamo neppure escluderla con certezza. Anche il voto espresso in Senato dall’ammiraglio, nel novembre del 1925, a favore della legge sulla disciplina delle associazioni, il cui intento antimassonico, per quanto implicito nel testo, era evidente, non è di per sé sufficiente a smentire qualsiasi legame tra il duca del Mare e l’obbedienza di Palermi. Non pochi senatori notoriamente massoni di entrambe le obbedienze decisero, per opportunismo o per rassegnazione, per viltà o per la certezza che in ogni caso la “vera luce” sarebbe sopravvissuta al regime, di avallare la legge voluta da Mussolini.
Anche se l’affiliazione massonica di Cittadini e di Thaon di Revel non può essere né affermata né smentita con assoluta certezza, ciò non toglie che entrambi godessero di ampio credito presso il sovrano. In particolare Cittadini, in virtù del suo ruolo di primo aiutante di campo, ebbe molteplici occasioni di colloquio con il re in cui avrebbe potuto spendere qualche parola decisiva per convincerlo a non firmare lo stato d’assedio ed a lasciare mano libera a Mussolini. I fatti accertati ci inducono tuttavia a considerare come improbabile tale eventualità.
Nei giorni precedenti la fase culminante della crisi dello stato liberale, in cui la minaccia delle squadre fasciste si faceva incombente, il generale Cittadini si trovava nella tenuta di San Rossore al seguito del re. Durante tale permanenza nulla fa supporre che egli agì su Vittorio Emanuele III per modificarne l’atteggiamento ostile verso il fascismo.
A San Rossore il re e Cittadini non si limitarono a cacciare quaglie, ma seguirono con attenzione l’evolversi della situazione politica e non esitarono ad allertare il governo sulle velleità golpiste di Mussolini. Il 19 ottobre 1922 il generale inviò, per ordine del re, al presidente del Consiglio Facta questo telegramma: ” Eccellenza, persona che non vuol essere nominata e merita di essere ritenuta attendibile ha fatto avere a S.M. il Re notizie le quali danno conferma alle voci corse in questi ultimi tempi circa un colpo di mano che verrebbe prossimamente tentato su Roma. (.) Le date, indicate come possibili, sono quelle del 24 ottobre e del 4 novembre; in ogni modo, prima dell’apertura della Camera.”.
Va pertanto esclusa l’esistenza sia di un accordo preventivo tra il re e Mussolini, sia di incertezze nel proposito della corona di sbarrare la strada al movimento fascista, almeno sino alla notte tra il 27 ed il 28 ottobre.
Quando giunse a Roma alle 20 del 27 ottobre il re ostentò con Facta la determinazione a reagire alla minaccia fascista che aveva già assunto forme violente ed apertamente eversive in molte città, come Pisa, Firenze e Cremona. Secondo la testimonianza del ministro della Guerra Soleri, alla stazione il re avrebbe esortato il presidente del Consiglio a difendere la capitale per sottrarre la corona alla pressione dei moschetti fascisti, garantendole così piena libertà azione nella difficilissima crisi politica in atto. Facta e Soleri interpretarono le parole del sovrano come un invito ad adottare quanto prima lo stato d’assedio, cioè il trasferimento dei poteri per la tutela dell’ordine pubblico dall’autorità civile a quella militare. Un’ora più tardi, circa alle 21, Facta si recò dal re a Villa Savoia per presentare le sue dimissioni, che con ogni probabilità furono respinte. Ben poco si sa di questo secondo colloquio, l’unica testimonianza in merito è fornita dal generale Cittadini: “A Facta, il Re disse, tanto alla stazione quanto a Villa Savoia: mi proponga con il consenso totale dei ministri, i provvedimenti che crede debbano essere messi in effetto; vedrò io poi – giacché non conosco i dettagli della gravissima situazione che lei mi descrive – cosa si deve fare.”. Dunque la volontà del sovrano di reagire all’aggressione fascista rimase immutata.
Uscito da Villa Savoia intorno alle 22, Facta si recò all’Hotel Londra dove alloggiava e dopo qualche ora di sonno fu svegliato dai sottosegretari Rossini e Beneduce che lo informarono di aver appreso da autorevoli esponenti fascisti come Grandi e De Vecchi che nella mattina del 28 ottobre le forze mussoliniane erano intenzionate a marciare sulla capitale. Preso atto del precipitare della situazione, Facta convocò per le 5,30 al Viminale il Consiglio dei ministri, poi si recò immediatamente al ministero della Guerra dove partecipò ad una riunione preliminare con il ministro degli Interni Taddei, il ministro della Guerra Soleri ed il generale Pugliese, comandante della Divisione di Roma. Come risulta dal verbale della riunione, Facta e Taddei espressero il proprio stupore per l’incapacità delle forze armate di impedire tanto l’occupazione da parte delle camicie nere di prefetture e centrali postelegrafoniche in varie parti d’Italia, quanto la concentrazione delle milizie fasciste attorno alla capitale. Il generale Pugliese replicò lamentando la totale assenza di collaborazione tra autorità politiche ed autorità militari, che prive di ordini precisi si erano trovate nell’impossibilità di agire. Esauritesi le reciproche accuse, il confronto tra politici e militari si concluse con la decisione di sottoporre al Consiglio dei ministri il decreto per la proclamazione dello stato d’assedio. Il generale Cittadini fu contattato telefonicamente affinché prospettasse al re l’eventualità di un suo trasferimento per ragioni di sicurezza al Quirinale. Il capo del governo sciolse la riunione enfatizzando la sua volontà a resistere ad ogni costo, una volontà che il verbale registrò freddamente: “L’on. Facta aggiunge che si ritirerà nel Viminale, di dove non uscirà che morto.”
Mentre Facta si abbandonava, forse per darsi coraggio, ad esclamazioni melodrammatiche, il ministro Soleri, coadiuvato da Rossini e Bevione, redasse il manifesto per la proclamazione dello stato d’assedio, che fu posto all’attenzione del re. Secondo la testimonianza di Amedeo Paoletti, segretario particolare del presidente del Consiglio, intorno alle 2,30 Facta lasciò il ministero della Guerra per recarsi a Villa Savoia e conferire con il re. Il colloquio durò una ventina di minuti, uscendo dall’udienza Facta disse a Paoletti che occorreva preparare il decreto dello stato d’assedio che il re avrebbe firmato in mattinata.
Nelle prime ore del 28 ottobre nessuna influenza di Piazza del Gesù o genericamente filofascista era ancora riuscita a fare breccia nella volontà del sovrano.
Intorno alle 5 del mattino tutti membri del governo, tranne il ministro della Giusitizia Alessio, al momento irreperibile, ed il ministro dei Lavori Pubblici Dello Sbarba, in ritardo, giunsero al Viminale. Arrivò anche il generale Cittadini per raccogliere notizie precise sulle occupazioni fasciste da riferire al re. La presenza del generale alla riunione, negata da De Vecchi nelle sue memorie, è invece puntualmente registrata da Efrem Ferraris, capo di gabinetto del ministro degli Interni.
Il dibattito si protrasse per circa un’ora, alcuni ministri si mostrarono riluttanti ad adottare una misura così grave come lo stato d’assedio. A vincere tali resistenze intervenne il generale Cittadini, informando il Consiglio che qualora non fosse stato deliberato lo stato d’assedio il re si sarebbe visto costretto ad abbandonare l’Italia.
Se il primo aiutante di campo del re fosse stato realmente in sintonia con i sentimenti filofascisti di Palermi avrebbe senza dubbio sfruttato le incertezza dei ministri per spaccare il Consiglio e cercare di orientarlo verso più miti decisioni, invece fu determinante per spronare il governo verso la resistenza al fascismo. Al di là dei dubbi circa la sua possibile affiliazione massonica, è il comportamento di Cittadini nelle ore cruciali della crisi dello stato liberale a smentire le affermazioni di Palermi che perciò meritano di essere relagate tra le eventualità più remote.
Deliberato lo stato d’assedio, che fu formulato sul modello di quello adottato a Milano nel maggio 1898, il ministro delle Colonie Giovanni Amendola esclamò: “I fascisti non passeranno . domani questi scalzacani saranno messi al loro posto.”. Bastarono poche ore per cancellare negli ultimi difensori dello stato liberale ogni entusiasmo.
Mentre i prefetti e le autorità militari venivano allertate sull’imminente entrata in vigore dello stato d’assedio e nelle strade di Roma già venivano affissi i manifesti che informavano la popolazione della volontà del re e del governo di non cedere alle intimidazioni di Mussolini, Facta, accompagnato da Paoletti, si recò al Quirinale. Alle 9 fu ammesso alla presenza del sovrano che oppose un netto rifiuto alla firma del decreto.
Quasi tutte le testimonianze, a cominciare da quella dello stesso Vittorio Emanuele III, escludono nettamente che Facta possa aver indotto il re ad evitare di adottare una misura estrema come lo stato d’assedio. Solo il ministro Soleri è di parere opposto ed attribuisce a Facta, ingannato dalle promesse di Mussolini in merito ad un rimpasto del governo in carica, un atteggiamento ambiguo già durante il Consiglio dei ministri tenutosi all’alba del 28 ottobre: “.durante la discussione durata quasi un’ora, il presidente Facta rimase pensieroso e non parlò. Mi diede quasi l’impressione che subisse una deliberazione a lui poco gradita, ma alla quale non avrebbe certo potuto opporsi, e che meditasse per conto suo qualcosa di diverso.”. Nessun riscontro oggettivo conferma però le impressioni di Soleri. Pertanto dobbiamo ritenere che il re mutò opinione senza l’intervento del presidente del Consiglio.
Un autorevole storico del fascismo come Renzo De Felice considera che nel determinare il rifiuto del re pesarono i timori per le possibili trame del duca d’Aosta ed ancor più i giudizi filofascisti espressi dai vertici militari, tra cui quello dell’ammiraglio Thaon di Revel, nonché una certa sfiducia nella compattezza e nell’energia del governo Facta.
Nei rapporti tra Vittorio Emanuele III e suo cugino il duca d’Aosta Emanuele Filiberto non mancarono né attriti, né incomprensioni, né sospetti alimentati dalle aperte simpatie fasciste del duca, che nei giorni precedenti la marcia su Roma, contravvenendo alle disposizioni del re di rimanere a Torino, aveva deciso di porre la sua residenza nella villa di Bevagna, a poche decine di chilometri dal quartier generale fascista di Perugia. L’idea che il ramo cadetto di casa Savoia potesse seriamente ambire al trono con il sostegno dei fascisti potrebbe aver sfiorato il re, tuttavia è difficile credere che, in assenza di elementi concreti che provassero gli intenti sediziosi del duca, tale idea abbia potuto da sola determinare l’improvviso voltafaccia di Vittorio Emanuele nei confronti di Facta e del governo.
Difronte al profilarsi del rischio di una guerra civile, decisiva avrebbe potuto essere invece l’opinione espressa al re dai vertici delle forze armate. Nonostante manchino del tutto le prove sia di incontri, sia di contatti telefonici, è probabile, secondo alcuni storici come Repaci e De Felice addirittura certo, che nelle prime ore del 28 ottobre il re si sia consultato con i generali Diaz e Pecori Giraldi e con l’ammiraglio Thaon di Revel, i quali
avrebbero confermato la fedeltà dell’esercito, raccomandando però al sovrano di non metterla alla prova.
L’appartenenza alla massoneria tanto di Thaon di Revel quanto di Diaz è asserita, ma non accertata. L’intitolazione di logge al duca della Vittoria, contrariamente a quello che si potrebbe credere, non costituisce infatti una prova certa di affiliazione massonica. I liberi muratori, in Italia ed all’estero, amavano rendere omaggio nelle loro “officine” anche ad illustri personalità “profane” che ritenevano vicine agli ideali ed alle aspirazioni politiche della massoneria. Nessun dubbio può invece sussistere sull’atteggiamento filofascista dei due altissimi ufficiali, confermato non solo dalla loro diretta partecipazione, come ministri della Guerra e della Marina, al primo governo Mussolini. In occasione dell’adunata delle milizie fasciste in preparazione della marcia su Roma Diaz espresse in una intervista rilasciata alla Nazione di Firenze parole di viva simpatia per il movimento mussoliniano che a suo avviso si proponeva le più alte finalità patriottiche. Il figlio del generalissimo, Marcello, che aveva aderito fin dal 1921 al P.N.F, prese parte alla marcia su Roma ed avrebbe poi ricoperto importanti incarichi durante il regime.
Più riservato di Diaz, ma non meno filofascista, fu l’ammiraglio Thaon di Revel che, per ragioni di servizio, si trovava a Napoli nei giorni dell’adunata delle camicie nere. Alla stazione, in procinto di far ritorno a Roma, dopo aver potuto constatare il forte seguito di cui godeva Mussolini, Thaon sarebbe stato avvicinato dal quadrumviro Cesare Maria De Vecchi e da Costanzo Ciano, l’eroe della “beffa di Buccari”, che lo avrebbero messo al corrente di ogni dettaglio relativo alla marcia su Roma, pregandolo di informarne il re. L’ammiraglio avrebbe accettato con entusiasmo il delicato incarico ed espresso piena fiducia in Mussolini e nel suo lealismo monarchico, ottenendo in cambio la promessa di un incarico ministeriale nel futuro governo fascista.
Dunque Thaon, indipendentemente dalla sua dubbia affiliazione massonica, sarebbe stato scelto come “messaggero” fascista. In quale misura fece effettivamente pressione sul re per indurlo a negare la sua firma in calce allo
stato d’assedio è tuttavia impossibile da stabilire sulla base dei documenti a disposizione. Inoltre, ammesso che Thaon agì sul sovrano, senza risposta resta l’interrogativo se fu ispirato da De Vecchi oppure da Palermi, o addirittura da entrambi.
Riguardo infine al terzo elemento giudicato da De Felice capace di spiegare il voltafaccia di Vittorio Emanuele III, cioè la sua sfiducia nelle capacità e nella tenuta politica del governo in carica, molti sono gli indizi. Il re subì senza dubbio l’influenza dell’idea giolittiana di depotenziare e controllare le spinte eversive del fascismo attirandolo nell’area di governo. Tale disegno politico avrebbe potuto affacciarsi nella mente del sovrano quando nella sera del 27 ottobre il presidente del Consiglio Facta si presentò dimissionario. Le residue incertezze del re avrebbero poi potuto cadere definitivamente non appena il generale Cittadini gli riferì dei contrasti presenti nel governo a proposito dello stato d’assedio. Vittorio Emanuele III avrebbe quindi optato per l’apertura a Mussolini, giudicandola meno rischiosa di una guerra civile da affrontare con un governo debole e diviso al suo interno ed un esercito giudicato dai suoi stessi vertici non del tutto affidabile. Quanto il resoconto di Cittadini sul Consiglio dei ministri svoltosi all’alba del 28 ottobre sia stato determinante resta ovviamente un mistero.
BIBLIOGRAFIA
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fonte http://win.storiain.net/arret/num171/artic2.asp