Lombroso e il Sud e le fosse comuni di domiciliati coatti nel Castello di Ischia di Giuseppe Gangemi
Un saggio del volume Lombroso e il Sud presenta un titolo che non ha niente a che vedere con il Sud (Per una storia della craniologia del Museo Lombroso, di Cristina Cilli, Silvano Montaldo e Marina Sardi, pp. 113-144). È stato inserito nella seconda sezione, Razze, Razzismi, Associazioni criminali.
Il saggio è tra i più importanti perché è firmato anche da Silvano Montaldo, unico professore ordinario tra i curatori del volume (gli altri sono De Ceglia e De Cristoforo) e tra i firmatari del saggio (gli altri sono Cigli e Sardi). Montaldo, in un saggio in francese del 2018 – Le début de la pensée raciste de Lombroso (1860-1871) -, si presenta come ordinario di Storia del Risorgimento e Direttore del Museo Lombroso. Precisa che, negli ultimi tempi, ha dedicato le proprie ricerche “alla figura e all’opera di Lombroso”.
Il collegamento tra il saggio e il Sud sembra consistere nella ricerca di quanti crani di Meridionali Lombroso ha studiato e nel concludere che “i resti degli italiani del Sud in suo possesso erano sempre pochi” (p. 123) e insufficienti. Di conseguenza, carente era anche il metodo di studio che “non raggiungeva il rigore scientifico standard della sua epoca” (p. 128). Questo standard richiedeva che si confrontassero un numero adeguato di crani di Meridionali con un numero adeguato di crani di Settentrionali per trarre conclusioni sull’esistenza o meno di due razze diverse.
Questa scarsa presenza di crani di Meridionali al Nord è speculare alla scarsa presenza di crani di Settentrionali al Sud. Eppure, i crani di Meridionali al Nord erano molto numerosi, volendoli andare a cercare. Per il semplice fatto che circa 85.000 domiciliati coatti erano stati inviati al Nord tra il 1863 e il 1866-67 (la legge Pica condanna al confino dall’agosto 1863 al 31 dicembre 1865 gente che resta al confino per almeno uno o due anni).
Anche accettando la stima di Giuseppe Alongi, il poliziotto siciliano, lombrosiano e sociologo, secondo cui la percentuale dei coatti morti durante il confino era dell’1%, questo porterebbe alla conclusione che circa 850 di questi coatti sono morti al Nord e, volendo, se ne poteva cercare il cranio nelle più di cinquanta colonie in cui erano stati confinati. Spiega Alongi che, “in realtà, le colonie erano bagni pensali in cui i coatti erano costretti a lavorare a basso costo quando trovavano un’occupazione … i più deboli e indifesi erano preda sia della camorra interna sia dell’arbitrio degli agenti di P.S. che svolgevano mansioni di custodia”. Alcuni di essi, per esempio Giuseppe Villella, muoiono di pellagra, ovvero scorbuto italico, perché le loro paghe sono così basse che riescono ad alimentarsi solo di polenta.
In un mio recente volume (Senza tocco di campane, Magènes Milano, 2023) ho provato che i documenti ufficiali relativi ai coatti di Livorno presentano indicano solo 29 malati nelle 7 colonie penali della provincia, per gli anni 1863-1868, mentre un documento, relativo a una sola di quelle sette località, mostra 116 ricoverati nell’ospedale di Piombino in soli 222 giorni. Questo farebbe stimare in una percentuale dell’8% i coatti ammalatesi al confino. Se questo è vero per la malattia, sarà a maggior ragione vero per la mortalità. Poiché i documenti di Livorno riferiscono di 26 morti in 5 anni, il numero dei porti effettivo dovrebbe essere moltiplicato per 8 (e gli 850 diventano circa 6.800). Il che significa che, cercandoli, si potevano trovare, al Nord, migliaia di crani in fosse comuni identiche a quelle, ben note, allocate a Ischia, nel Castello aragonese.
Proprio in quel castello, Angelo Zuccarelli, lombrosiano e docente all’Università di Napoli li estraeva scavando a mani nude nella terra. Così Zuccarelli descrive la facilità dell’opera di scavo: la presenza di crani “tratti dalle fosse [comuni] del Castello dell’Isola d’Ischia … erano ben noti al Prof. Giuseppe Sergi, dell’Università di Roma”, anch’egli seguace di Lombroso. Sergi “ad ora avanzata d’una sera del luglio 1892 … mi tenne compagnia, là sul Castello dell’Isola d’Ischia, allorché io, lasciatomi cadere in una fossa ben profonda, scavai con le mani molti di quei crani, lanciandoli pure a lui che era al difuori” (p. 55).
Il quadro che ne emerge è agghiacciante: trenta anni dopo la Legge Pica, due noti studiosi di antropologia criminale riesumano e si lanciano crani come ragazzi che stanno giocando a palla. Se avessero voluto fare una ricerca comparata di crani di Settentrionali e di Meridionali per confermare o smentire la teoria dell’atavismo la numerosità dei crani richiesti dagli standard scientifici, rispettati negli altri paesi europei, era facilmente ottenibile. Se questa ricerca non la si è fatta è perché trovare la prova dell’atavismo non interessava nessuno o perché, peggio, si temeva che, cercandola, era più facile smentire che confermare la teoria.
Mi si dirà che i coatti non erano briganti. Le risposte a questa obiezione sono due: 1) Giuseppe Villella, come ho mostrato nel volume già citato, viene spacciato per brigante ed era invece un domiciliato coatto; 2) oltre ai coatti trovati, in più fosse comuni a Ischia, Zuccarelli riferisce di briganti facilmente ritrovabili nei luoghi più impervi del Meridione.
Messosi a caccia di crani nel 1884, Zuccarelli comunica, nel 1885, di avere raccolto oltre 300 “crani di delinquenti, epilettici, prostitute, ruffiani, suicidi; molti cervelli e qualche testa conservata a secco o in umido … tra cui la testa di Giona La Gala”, brigante (p. 53); “cinque briganti esumati a Cusano Mutri, nel cuore del Matese, non lontano dal paese natale” (p. 54); altri provenienti dalle “collezioni craniche interessantissime raccolte da alcuni in quei paeselli semiselvaggi, sperduti tra le rocce e i boschi del Matese, privi, come tutt’ora, di strade rotabili” (p. 55).
Per troppo tempo, dopo la Legge Pica e la Guerra Meridionale del 1860-1870, quanti sapevano hanno fatto finto di non sapere. Forse è ora di scavare la verità e portarla alla luce.
fonte
quotidianodelsud