Luigi Toro: la storia e le Opere – Parte II (a cura di C. A. Del Mastro)
Luigi Toro, pittore Aurunco: la storia e le opere.
Parte II – La gioventù, le opere e la guerra.
Prof. Cecilia Aida Del Mastro
Quando nel 1853 il giovane Luigi Toro compì 18 anni e diventò maggiorenne poteva vendere e comprare, il diabolico patrigno ne approfittò: gli disse che se voleva andare a Napoli e frequentare l’Accademia Artistica doveva vendergli tutti i suoi diritti sulla proprietà (case e terreni). Egli gli avrebbe depositato i soldi in banca da dove avrebbe ritirato, di volta in volta, il necessario per studiare e incominciare a dipingere. Il giovanissimo Luigi non ci pensò due volte, fece subito quello che il patrigno voleva e partì per Napoli. Tutti i conoscenti e i parenti restarono senza parole, nessuno aveva pensato che il patrigno arrivasse ad una simile espoliazione.
A Napoli il giovanissimo pittore diventò alunno del bravissimo Giuseppe Mancinelli nel 1853. Già nel secondo anno il nostro pittore vinse il secondo premio al “Concorso della seconda classe della Scuola di Disegno”. Durante il soggiorno napoletano conobbe anche Domenico Morelli e Filippo Palizzi. Dopo due anni Luigi Toro fu ammesso alla “Biennale Borbonica di Belle Arti” e partecipò all’esposizione artistica più importante del Regno delle Due Sicilie, inaugurata a Napoli dal re Ferdinando IV il 30 maggio 1855 presso il Real Museo Borbonico.
È commovente notare che nella cerchia di artisti napoletani il nostro giovanissimo pittore occupava il primo posto; stupendi a parer mio e di tanti critici, sono i suoi quadri dipinti in quel periodo, perché rappresentano scene che uscivano dai suoi ricordi: i personaggi, i paesaggi che dipingeva non erano davanti ai suoi occhi, ma erano nel suo cuore ed ecco perché tutti i quadri dipinti in quegli anni sono ancora oggi 2016, pittura e poesia insieme:
- L’ Ammuto: le giovani lauresi vestite con l’Ammuto che parlano in gruppo e il bellissimo Ammuto viene dipinto davanti e di dietro.
- La raccolta delle Regne: bellissimo! Una campagna piena di sole, un cielo terso, la terra ammantata di grano dorato. Una contadina miete, un’altra prepara il manipolo di spighe, una terza prepara la regna, la quarta contadina trasporta la regna sull’aia tra voli di uccelli e rossi papaveri. I movimenti sono così sincronizzati che si ha l’impressione che quel lavoro si stia facendo intorno a chi guarda. Ogni gesto parla.
- E cosa dire del terzo?: “ La scogna all’Aria Nova”? è la sua terra, che rivive in questo quadro, quella terra che non aveva più, ma restava sempre nel suo cuore. Questo quadro non solo fa vedere i movimenti degli <scognatori>, ma ha la magia di far sentire anche il rumore degli <uvigli> sulle spighe di grano sparse sull’aia.
- Il riposo dei cacciatori: per me questo quadro è commovente, perché ho la certezza di vedere la masseria di Leverano, la bella masseria della mia famiglia paterna, dove il pittore aveva i suoi amici più cari: i fratelli del Mastro e tutti insieme facevano belle partite di caccia e poi mangiavano e si riposavano al fresco degli alberi o fra enormi <metali> di paglia.
Sono tutti quadri “Loquaces” perché dipinti secondo l’anticchisima tecnica greca: “gli artisti – dicevano i greci-, devono far parlare i loro dipinti e le loro sculture altrimenti non è arte”. Negli anni ’58,’59, Toro è invitato anche a Firenze e a Parigi, dove nel cerchio degli artisti parigini completa la sua formazione, ma alla fine del 1859 ritorna a Napoli e lo troviamo a Sessa Aurunca. Gli anni napoletani, però, non solo lo fecero diventare bravissimo pittore e cominciò a fare e a vendere anche molti ritratti, ma lo fecero diventare anche un entusiasta mazziniano, pronto a lottare per l’unità nazionale anche a fianco dei Savoia se questi promettevano di attuarla.
Per quanto riguarda la pittura gli anni 58-59 furono molto belli per il nostro giovanissimo pittore, che pensò di fare un grande quadro per ricordare un episodio storico della amata Sessa “l’incontro dell’imperatore Carlo V con il filosofo suessano Agostino Nifo” avvenuto nel 1500. Agostino Nifo nacque a Sessa nel 1470 e fu grande filosofo, insegnò nelle Università di Padova, di Napoli e di Pisa. Confutò – De Immortalitate Animae- dedicato al papa Leone X, commentò Aristotele e scrisse in latino un’opera bellissima e importantissima “De Regnandi Peritia” che tanto piacque all’imperatore Carlo V tanto da voler conoscere l’autore e chiedergli di diventare precettore dei suoi figli. Carlo V, evidentemente, voleva imitare Filippo di Macedonia quando affidò suo figlio Alessandro al grande filosofo Aristotele, che lo curò fino al sedicesimo anno quando per la morte del padre (340 a.C.), fu nominato imperatore ed è stato, veramente, il più grande imperatore di tutti i tempi, tanto da meritare l’appellativo “Magno”.
Il pittore Luigi Toro decise di rappresentare l’incontro dell’imperatore Carlo V, accompagnato dalla sua corte, col nostro filosofo in un quadro enorme, che tutti i critici considerano un vero capolavoro. Il pittore chiese in prestito al teatro San Carlo di Napoli i costumi di scena del 1500 con i quali fece vestire i suoi amici (chiamò tutti i suoi amici lauresi, perché voleva rappresentarli nel quadro. Molti rappresentano i baroni e i nobili, uno l’imperatore ed un altro il filosofo Agostino Nifo. Fra i lauresi c’era anche il mio prozio: zio Titta, l’amico carissimo del pittore). Il pittore, mentre preparava il quadro, convinse tutti i suoi amici a seguirlo nella guerra che si stava preparando per unificare l’Italia sotto la dinastia Savoia.
L’entusiasmo era tale che tutti si lasciarono convincere, anche i fratelli del Mastro erano pronti a partire con lui. Titta si era sposato con Olimpia Mascolo ed era padre di tre bambine: Maria n.1854, Caterina n.1856 e Brigida n.1858. il fratello Michele non volle fare il prete e, uscito dal seminario, si era fidanzato e poi sposato con Angela Prisco di San Castrese e tutti e due i fratelli, anche se avevano il fratello Antonio militare di carriera nell’esercito borbonico, erano pronti a seguire l’amico pittore e confortavano la loro mamma, che piangeva, dicendole che avrebbero preso anche Antonio e l’avrebbero portato con loro. Sogni! Quanti sogni! Partirono tutti e il quadro restò non finito, ma sul Volturno si trovarono immersi in una carneficina paurosa. L’esercito borbonico dove combattevano i due colonnelli Toro e il giovanissimo (24 anni) sottotenente Antonio del Mastro, si trovò davanti l’esercito savoiardo guidato dal re Vittorio Emanuele II e l’esercito garibaldino guidato da Garibaldi. Titta e Michele non riuscirono ad incontrare il fratello Antonio, ma anche se l’avessero incontrato, Antonio non li avrebbe seguiti.
Il mio caro bisnonno era borbonico nella mente, nel cuore e nell’animo. Lo scontro a cui Titta e Michele parteciparono fu un massacro <una accisaglia di fratelli> che li sconvolse al punto tale che presero i cavalli e scapparono via. Arrivati a casa trovarono la mamma morta, la poveretta non aveva retto al pensiero di avere i figli in due schieramenti opposti. Per Titta e Michele furono giorni di immenso dolore, quando si ripresero, misero da parte le idee garibaldine e ritornarono borbonici e cominciarono a portare con i loro cavalli tutto ciò che poteva essere utile agli assediati di Gaeta, dove si era trasferita la corte da ottobre del ’60 a febbraio del ’61. Gaeta è stata la terza capitale del Regno delle Due Sicilie col titolo onorifico di fedelissima.
I due fratelli del Mastro depositavano i loro carichi di aiuti presso la masseria del barone Dorvè, che era sul lato destro del Garigliano vicino ad una mulattiera, nascosta tra i monti Aurunci da dove facevano arrivare al forte di Gaeta tutti gli aiuti necessari. Il barone Dorvè era il nonno del nostro bravissimo prof. Francesco Volpe, perché padre della sua mamma, la cara signora Lavinia e quindi bisnonno dei nostri carissimi amici l’ing. Gianpaolo Volpe e l’ing. Luciano Volpe.
Tutto fu inutile. Il glorioso Regno delle Due Sicilie finì e cominciarono le punizioni savoiarde e garibaldine che, i libri di storia scolastici non hanno mai portato sia perché fino al 1946 l’Italia è stata governata dai Savoia, sia perché i comunisti atei presero come loro simbolo araldico del partito Garibaldi, che, come tutti sappiamo, era ateo e “mangiapreti”. Finalmente nel 1955 Napoli ha aperto i suoi archivi storici e possiamo conoscere le <punizioni> che i savoiardi e i garibaldini fecero sulla popolazione rimasta fedele ai borboni. Prima <punizione> Eleonoro Negri di Vicenza per ordine di Vittorio Emanuele II fece bruciare le due cittadine Casalduni e Pontelandolfo con tutti i loro abitanti ben 8000, perché erano rimasti fedeli ai Borbone.
Nessuno poté scappare, perché le due cittadine, come è scritto negli archivi, erano circondate da soldati piemontesi, tiratori scelti. La stessa cosa aveva fatto Nino Bixio in Sicilia con la città di Bronte, per ordine di Garibaldi, facendo morire 6000 civili innocenti. La seconda <punizione> tutti i militari borbonici dovevano andare sulle Alpi a scavare trafori a San Maurizio e alle Fenestrelle, chi non voleva partire doveva pagare una tassa in danaro, secondo il grado occupato nell’esercito. Ai colonnelli Toro furono tolti tutti i doni che avevano ricevuto dai Barbone, più la metà del terreno che da millenni era sempre stato della loro famiglia.
Il giovane Antonio del Mastro stava per partire, ma i fratelli Titta e Michele lo fermarono e il Dinosauro Savoiardo ingoiò subito 30 moggia di Maiano, più parte del terreno di Leverano e Casarini e più la fresca dote di Giulia de Tora che, a guerra finita aveva sposato il giovane Antonio, portando in dote ben 10 moggia delle Tora. La terza <punizione> Garibaldi smaniava: voleva arrivare a Roma e voleva infilare la sua spada nel cuore del Papa, ma Vittorio Emanuele II anche se non amava il Papa, capì che non era il momento di marciare su Roma e impedì a Garibaldi di continuare la marcia fino a Roma e per tenerlo sotto controllo lo spedì a Caprera, sempre sotto scorta.
L’esercito Garibaldino, che era formato per la maggior parte da ergastolani, che Garibaldi aveva fatto uscire dalle carceri e indossare la camicia rossa, promettendo a tutti la libertà a guerra finita, restava sbandato per le nostre campagne e gli ergastolani in camicie rosse facevano violenze e rapine di ogni genere. Un gruppo di ergastolani in camicia rossa, la sera del 16 aprile del 1863 uccisero zio Titta, poi assalirono la bella e ricca masseria di Leverano, che da secoli era stata la casa patronale della famiglia del Mastro, e la incendiarono e nel fuoco morirono la moglie di zio Titta e la figlia Caterina, una bella bimba di sette anni, restarono vive Maria di anni nove e Brigida di anni cinque.
La masseria dei miei bisnonni non fu la sola a ricevere il “dono” degli ergastolani in camicia rossa. Quarta <punizione> il Molise era rimasto fedele ai Borbone ed allora doveva essere punito più di tutti, cominciando dalle belle e serie contadine, che tutti i giorni erano costrette a lavorare nei campi. I soldati piemontesi chiamati da tutti con disprezzo < scauzacani> piemontesi le violentavano e se le contadine si ribellavano le uccidevano senza pietà. Ma le contadine molisane impararono a ricambiare i “doni” che ricevevano, la loro maestra era stata la signora Filomena De Caro.
Ogni contadina portava con sé alcuni spilloni di ferro lunghi 15cm ben appuntiti e ben nascosti nei loro abiti un po’ pacchiani, quando lo stupratore era pronto, con sveltezza glieli infilavano nei nervi del collo quando per eccitazione diventava turgido e alcuni, ben appuntiti nel membro ingrossato e poi correvano via, lasciandoli a spasimare sul terreno. I pennivendoli ancora oggi chiamano queste eroine brigantesse e non si vergognano; come chiamano briganti chi difendeva le loro donne e le loro cose dagli <scauzacani> piemontesi e dagli ergastolani garibaldini. Io sono d’accordo con lo storico Angelo Manna, che al suo bellissimo saggio storico dà questo titolo “Briganti Furono Loro Quegli Assassini dei Fratelli D’Italia”.
Dal 1860 al 1865 il pittore che fine aveva fatto? nessuno dei suoi amici e parenti sapeva sue notizie. Oggi gli storici dicono che nella battaglia del primo ottobre ai Ponti della Valle di Maddaloni, sul fronte del Volturno si guadagnò le spalline da ufficiale, dopo l’unificazione d’Italia, col grado di maggiore della Guardia Nazionale, combatté il brigantaggio. Quale brigantaggio? Gli <scauzacani> piemontesi, gli ergastolani garibaldini o i tartassati e onesti italiani meridionali? Poiché non voglio approfondire l’argomento, perché, a me le notizie dei pennivendoli fanno schifo e disgusto, riporto un incontro veramente avvenuto tra il pittore e la mia bisnonna Giulia, che, come tante volte ho detto, era sua prima cugina.
Nonna Giulia de Tora nata il 18 aprile 1842 e nonno Antonio del Mastro nato il 16 gennaio del 1836 si sposarono il 2 settembre 1865 e subito si trovarono a fare i genitori delle due orfanelle Maria e Brigida figlie del povero Titta ucciso con la moglie e l’altra bimba Caterina dagli ergastolani garibaldini. Erano passati due anni dalla tragedia e Antonio non era ancora riuscito ad andare alla masseria dove era stato ucciso il fratello e morte bruciate vive la cognate e la nipotina Caterina. Ogni tanto vi si recava la giovane moglie con le due nipotine. Alla fine di settembre del 1865 in una calda e assolata giornata, Giulia e le due bimbe si recarono alla masseria.
Appena arrivate sul posto, videro un cavallo legato al tronco di un albero e il pittore che piangeva a singhiozzi, seduto su una pietra nel posto dove era stato ucciso l’amico Titta.La cugina e le due bimbe sorprese si fermarono a poca distanza, ma cominciarono a piangere anche loro. Il pittore si girò e le vide, ma subito si coprì con le mani il viso bagnato di lacrime ed era ancora scosso dai singhiozzi. Senza parlare, piangendo, tutti e quattro stettero seduti vicino a quel posto, considerato sacro, perché bagnato dal sangue innocente di un uomo onesto come era da tutti considerato e stimato Titta del Mastro. Il pittore più guardava le due orfanelle e la cugina e più piangeva a singhiozzi.
Quando si fu alquanto calmato, la cugina gli portò una caraffa d’acqua fresca e una bacinella per bere e lavarsi il viso, che era diventato tumido e rosso per le lacrime e un tovagliolo di lino per asciugarsi. Ristoratosi un po’ baciò sulla fronte le due orfanelle e baciò le mani della cugina, dicendole: <non uscire più sola da casa,stai sempre in casa mentre gli scauzacani piemontesi e i diavoli in camicia rossa sono ancora fra noi senza controllo, infatti tutti i giorni fanno scoppiare rivolte e guerre civili che non sappiamo come domarle>.
All’invito della cugina di fermarsi un po’ a casa con loro, fece di no con la testa – <non posso-non posso- non chiedermi altro>. Poi tutti e quattro presero la via per Lauro. Il pittore camminava con loro e con una mano teneva le briglie del cavallo e con l’altra stringeva la manina della piccola Brigida. Arrivati vicino alla Cappella della Madonna del Popolo, si salutarono con gli occhi pieni di lacrime. Il pittore baciò sulla fronte le due orfanelle e baciò nuovamente tutte e due le mani della cugina, poi salì in groppa al cavallo e prese la via di Sessa.
A cura della Prof. Cecilia Aida Maria Del Mastro, tratto da “Archivi Storici, archivi domestici”-
Bibliografia consigliata : “Luigi Toro pittore e patriota dell’800” CARAMANICA EDITORE, 2012 di Gaetano Mastrostefano
prima parte
https://www.altaterradilavoro.com/luigi-toro-la-storia-e-le-opere-a-cura-di-c-a-del-mastro/
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