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L’Unità d’Italia? E’ servita agli interessi dei Savoia

Posted by on Set 7, 2019

L’Unità d’Italia? E’ servita agli interessi dei Savoia

I testi scolastici usati dalla mia generazione, davano, dei Savoia, un’immagine di particolare affidabilità, riportando l’etichetta che aveva creato la storia di regime, per celebrare il coraggio, la saggezza e la bontà dei primi tre sovrani dell’Italia unita. Sicché, Vittorio Emanuele II, era il re galantuomo; Umberto I, il re buono; Vittorio Emanuele III, il re soldato. Gli italiani, quindi, potevamo andare fieri dei nostri sovrani.

Ma costoro erano veramente tali? Quando l’Unità d’Italia, grazie ai moti risorgimentali e alle condizioni storiche favorevoli che si erano presentate, era ormai matura per essere compiuta, Vittorio Emanuele II, pronubo Cavour, ne sposò la causa. La partita era tutta da giocare tra la dinastia dei Savoia e quella dei Borbone. Questi ultimi, però, rimasero ciechi e sordi dinanzi ai fermenti propiziatori e fecero la fine che avrebbero fatto i Savoia se non avessero imboccato in tempo la via per realizzarla. La scelta fatta dai Savoia, a mio avviso, fu una scelta d’interesse dinastico, ma non per questo priva di meriti ricevuti a piene mani dal popolo italiano. Ma perché fosse compiuta l’Unità d’Italia – come evidenziò D’Azeglio – era necessario che venissero fatti gli Italiani, cosa a cui i Savoia non solo vennero meno, addirittura andarono a fare dell’Italia una madre premurosa per il Nord e ingrata per il Sud. Quale che fu la regione che portò a questo particolarismo, non modifica la gravità di una così sconcertante discriminazione, ancora oggi, purtroppo, operante, nonostante le critiche amare, continue e allarmanti che a Gobetti fecero giudicare il Risorgimento “una Rivoluzione fallita” e a a Gramsci scrivere che “lo Stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, crocifiggendo, squartando, seppellendo vivi i contadini poveri che gli scrittori salariati tentarono di infamare con il marchio di briganti.” Lo storico inglese Denis Mack Smith, nel suo libro I Savoia d’Italia, Rizzoli, 1990, scrisse che costoro usarono sempre male il loro potere, che soffrivano di mania di grandezza, che attribuivano all’Italia muscoli economici e militari che non possedeva, che erano privi di cultura e di senso critico. Per avere espresso questo convincimento, lo storico britannico fu tacciato di antitalianità. Se, però, chi lo tacciò avesse riflettuto un tantino su come si comportarono questi re d’Italia, ritengo che sarebbe stato molto più cauto. Vittorio Emanuele II che Lord Claredon, esagerando secondo me, additò come uomo imbecille e disonesto, essendo stato il primo re dell’Italia unita, fu colui che impostò gli indirizzi per governarla, indirizzi che i suoi successori seguirono pedissequamente, senza discostarsi se non peggiorandoli. Proprio da essi si ricava che il re galantuomo tale non era, considerato che inviò l’esercito contro il brigantaggio meridionale postunitario. Brigantaggio che, pur non mancando di una componente criminale, esprimeva la cocente delusione, la sfiducia e la rabbia della gente del Sud per essere stata investita dall’Italia unita, da balzelli che, in un sol colpo, aumentarono del 40% quelli pagati sotto il Borbone. E questo dopo aver ricevuto l’umiliazione del divieto, per i meridionali al seguito di Garibaldi nell’impresa dei Mille, ad essere incorporati nell’esercito regolare, facoltà riservata solo a quelli del Nord. Una discriminazione che si commenta da sé.! Che cosa doveva aspettarsi il popolo meridionale, che aveva contribuito con convinzione e sacrifici di sangue alla realizzazione dell’Unità della penisola, dal primo re d’Italia che, dopo aver esteso il suo regno su quasi tutta la Penisola senza alcuna fatica, svuotò le casse degli Stati annessi, prelevando in particolare da quelle del Regno di Napoli 443 milioni di lire, quasi 18 volte i 27 milioni contenuti nelle casse del Regno piemontese, a parte il milione “estorto” al Banco di Napoli, lasciati dal Borbone in fuga? Non certo la razzistica discriminazione subita e, tantomeno, la repressione inumana, spietata e cinica contro un brigantaggio che esprimeva il malcontento legittimo suscitato dal suo sconsiderato atteggiamento; affidata peraltro ai soldati piemontesi che, in Calabria e nelle altre regioni meridionali, imperversarono per mesi e mesi, compiendo ogni sorta di atrocità, devastazioni d’interi centri urbani, fucilazioni a centinaia senza alcun processo. E col beneplacito di un sovrano reputato un galantuomo, quando, in effetti, era un poco di buono che, per ironia della sorte, riceveva dallo stato un appannaggio di ben 14 milioni di lire annue, una somma superiore al bilancio del Ministero della P.I. e superiore all’appannaggio di ogni altro monarca europeo. Aveva ragione da vendere Padre Antonio Martino di Galatro – uno dei maggiori poeti dialettali calabresi ripetutamente arrestato per essere un acceso antiborbone, ed evaso dal carcere un paio di volte – a sentirsi tradito dall’unità d’Italia, alla cui causa non era mancato il suo apporto. Visti i risultati, non gli restò altro da fare che sfogare le sue amarezze con i brucianti versi di una tra le più belle e forti poesie vernacolari a carattere politico-patriottico dal titolo: Pater Nostrum. Con l’avvento dell’unità d’Italia, il poeta di Galatro si prefigurava tempi migliori, tempi in cui il popolo avrebbe goduto, finalmente, di umanità e di giustizia. Invece “Lu pani ndi strapparu di li mani, Lu pani nostru, o Patri, e mo’ languimu; Simu trattati peju di li cani, Pagamu puru l’acqua che mbivimu”. Concludendo con quel verso tagliente divenuto famoso che dice: “di la furca passammu a lu palu”. Umberto I, il cosiddetto re buono, non sconfessò mai i suoi antenati. Fu uguale a loro, se non peggio. A lui, Mastru Brunu Pelaggi, lo scalpellino serrese, altro poeta dialettale insigne della Calabria, scrisse in versi una lettera in cui, a muso duro, come soleva fare e aveva fatto con una consimile “lettera” indirizzata al Padreterno, scrisse: “Tagliani cu la cuda, Ndi carculasti a nui”, esortandolo a dare lavoro “Mu nd’abbuscamu lu pani Ca la morti di fami E’ troppu cruda”, altrimenti, aggiunse, con il suo colorito ma incisivo linguaggio, “E’ megghiu mu nd’ammazzi, Ch’è megghiu mu morimu, Chi cazzu lu volimu stu campari”. Di Vittorio Emanuele III, il re soldato, basta ricordare che ci regalò il fascismo e che firmò le leggi razziali del Duce, per avere tutto intero il senso della sua inanità. I Savoia del Regno d’Italia non potevano essere che questi, essendo i discendenti in linea diretta di quel Vittorio Emanuele I, per non andare più indietro, avversatore dei princìpi della Rivoluzione Francese e sostenitore del diritto divino della monarchia, il quale, ottenuta, dal Congresso di Vienna, la restituzione del trono da cui era stato cacciato da Napoleone, pose in essere un regime assolutistico soffocante, distinguendosi per la persecuzione agli ebrei e ai valdesi. La sorte, o meglio la mala sorte del popolo meridionale, non era sfuggita ai due poeti dialettali citati, ma nemmeno a Garibaldi, per non citare i tanti, tantissimi altri che stigmatizzarono coloro che ne furono i fautori, i Savoia, appunto. Di Garibaldi credo sia emblematico quanto si legge nella lettera che scrisse ad Adelaide Cairoli alla luce degli effetti dell’impresa dei Mille. In essa scrisse: “… gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Ho la coscienza di non aver fatto del male, nonostante ciò, non rifarei la via dell’Italia Meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi là cagionato lo squallore e suscitato l’odio”. Senza l’Unità d’Italia, il Meridione credo che avrebbe avuto un futuro migliore. Quantomeno, non sarebbe stato una colonia funzionale solo agli interessi del Nord, condizione che, in buona misura, permane ancora oggi, sotto il potere repubblicano, e, comunque, non avrebbe subito il disprezzo del beneficiati, ovvero, dei terronicidi, come chiama gli italiani del Nord uno scrittore dei nostri tempi, nostro corregionale, i quali, prima di disprezzare gli altri italiani, avrebbero dovuto disprezzare se stessi per aver allevato, sostenuto e regalato all’Italia, prima i Savoia, poi il fascismo e oggi Umberto Bossi. Costui fa la sua fortuna politica cavalcando la tigre dell’antimeridionalismo viscerale, un insulto non soltanto ai meridionali, mostruosamente obbligati a contribuire al costo parlamentare suo e dei suoi gregari, ma anche ai Martiri del Risorgimento oltre che alla civiltà, alla cultura e alla dignità dell’intera nazione. Debbo aggiungere che i primi ad accorgersi quale beffa l’Unità d’Italia si stava delineando per le genti del Sud, furono gli addetti alle Ferriere di Mongiana i quali, il 30 dicembre 1860, si ribellarono perché non ricevevano ormai da diversi mesi il salario, ma, soprattutto, per il timore, dimostratosi fondato, che l’industria, malgrado la sua importanza venisse chiusa. Credo che a fronte di quanto ho detto, e senza bisogno di richiamare altre ragioni che non mancano, si possa affermare che l’Unità per il Nord fu un grosso affare, ma, per il Meridione, una grande fregatura.

Rocco Ritorto

fonte http://www.adsic.it/2001/10/05/lunita-ditalia-e-servita-agli-interessi-dei-savoia/#more-311

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