Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

Mancini contro il clero napoletano che rifiutò il Te Deum al re d’Italia

Posted by on Ott 16, 2025

Mancini contro il clero napoletano che rifiutò il Te Deum al re d’Italia

Sabato 19 aprile 2014 ―Bruno Salvatore

Il 14 marzo del 1861 Vittorio Emanuele II compiva gli anni. Il genetliaco, anche per i recenti risultati politici e militari (il successivo 17 marzo, infatti, sarà proclamato re d’Italia) fu celebrato con particolare solennità. A Napoli tuttavia la celebrazione diede luogo ad un episodio curioso, sia pure in linea con il comportamento di una parte del clero meridionale.

Esso emerge da una lettera di Pasquale Stanislao Mancini, all’epoca consigliere per gli Affari ecclesiastici presso la Luogotenenza Carignano, datata 15 marzo 1861 e indirizzata al Soprintendente generale di casa reale, Gioacchino Saluzzo, principe di Lequile.

«È venuto a conoscenza di questo Dicastero – scrive Mancini – che i cappellani della Real Cappella Palatina, all’invito loro fatto da Monsignor Cappellano Maggiore di recarsi ieri sera nella Chiesa di San Lorenzo Maggiore pel canto del Te Deum affin di solennizzare col Municipio il dì natalizio di S. M. il Re Vittorio Emanuele, siensi rifiutati, adducendo non esser tenuti a funzionare in altre chiese diverse dalla cappella palatina, quando non v’intervenga il Re, benché vi funzioni il Cappellano Maggiore, e da questi siano espressamente invitati».

«Avendo un tal fatto – prosegue Mancini – richiamato l’attenzione, per la notorietà di certe

risoluzioni in proposito comunicate da Roma, e che non munite del regio exequatur, non

potrebbero tra noi eseguirsi senza flagrante illegalità, e tanto meno da un clero stipendiato

ed addetto al servizio della Real Casa e Persona, sono in dovere di farne relazione, di accordo

con codesta soprintendenza, a S.A. Reale il Principe Luogotenente, non dovendo lasciar

passare inosservato un così grave avvenimento, e permetterne la riproduzione».

La risoluzione cui si riferisce Mancini è con ogni probabilità la lettera del 28 febbraio della

sagra congregazione del Concilio con cui in sostanza si sconfessava la nomina del nuovo

cappellano maggiore, il quale altri non era che Michele Maria Caputo, vescovo di Ariano

Irpino, nominato nell’incarico da Farini, dopo che le stesso Caputo, secondo alcune

ricostruzioni, aveva fatto «atto di adesione al nuovo ordine di cose» gettandosi ai piedi di

Garibaldi. Il medesimo Caputo fin dal dicembre del 1860 invitava ad accogliere «dalla

giustizia e dalla Provvidenza di Dio questo Vittorio Emanuele, che le universe italiane genti

han conclamato loro Re», provocando in tal modo «le violente reazioni degli ambienti

cattolici…, tanto che su sollecitazione del Farini, fu costretto a intervenire lo stesso Cavour

per indurre il recalcitrante principe di Lequile, sovrintendente ai regi palazzi di Napoli, a

permettere che il vescovo d’Ariano esercitasse «in via provvisoria» le funzioni di cappellano

maggiore (Enc. Treccani)». Su tutta la vicenda dunque pesava anche il fatto che monsignor

Caputo, cappellano maggiore, fosse ritenuto una sorta di abusivo e come tale assolutamente

mal digerito dal clero palatino.

«Prego pertanto – così continua la lettera – la S.V. illustrissima di verificare con la debita

esattezza se la scusa addotta da’ cappellani sia fondata sopra alcun titolo, o almeno sopra una

costante ed invariabile consuetudine, cioè se ne’ precedenti anni, allorché il Cappellano

Maggiore dirigesse formale invito a’ cappellani suoi dipendenti di assisterlo in funzioni

pontificali in altre chiese (come sono assicurato che praticavasi specialmente per la Chiesa di

S. Antonio Abate) i medesimi costumassero di rifiutarsi, attesa l’assenza del Re. Una tale

interpretazione del resto lascerebbe dubitare se la conservazione di un clero palatino in

Napoli fosse per riuscire di notevole pratica utilità, fuorché pe’ non lunghi periodi di

presenza di Sua Maestà».

In effetti, al di là della sottile minaccia di Mancini, la materia era disciplinata dalla bolla

Convenit di Benedetto XIV, la quale prevedeva che in tutte le chiese, ad eccezione delle

cattedrali, intervenendo il re, sia il cappellano maggiore che gli altri cappellani potessero

esercitare le funzioni, senza però prevedere divieti per il caso di assenza del re. Mancini ne fa

tuttavia anche un problema di opportunità. Scrive, infatti: «In ogni caso poi e quando pure i

cappellani potessero dimostrare il preteso loro diritto, spetterebbe a codesta Real

Soprintendenza apprezzare se essi, ancorché non obbligati, dovessero sentire la convenienza

di prestarsi all’invito del loro superiore nella fausta circostanza di un pubblico omaggio

personalmente diretto a S.M. il nostro Augusto Principe, e massimamente poi nelle

condizioni in cui attualmente versano le relazioni del Governo con una parte del Clero»

È probabile che Mancini nel momento in cui scrive abbia presente anche un’altra “vertenza”

difficile, in corso da tempo con il vescovo di Avellino, monsignor Francesco Gallo, anch’essa

inaspritosi per il rifiuto di celebrare il Te Deum (questa volta per la caduta di Gaeta, il 17

febbraio precedente) e risolta con le cattive maniere, che sembrano prospettarsi anche per la

questione della lettera. Così infatti Mancini conclude: «Attenderò sul contenuto della

presente colla possibile celerità le informazioni e l’avviso di codesta Soprintendenza, anche

per l’obbligo che m’incombe di vegliare alla subordinazione ed alla buona disciplina di tutte

le autorità ecclesiastiche»”.

fonte

https://giornalelirpinia.it/index.php/cultura/cultura2/6472-mancini-contro-il-clero-napoletano-che-rifiuto-il-te-deum-al-re-ditalia

Submit a Comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.