Michele Pezza, un uomo votato, anima e corpo, alla causa reale

Il generale Joseph Léopold Sigisbert Hugo, padtre del grande poeta Victor-Marie, approfittando del fatto che era conosciuto personalmente dal re Joseph Bonapart,si era recato a Napoli per glorificarsi aver disorganizzato, grazie ad un inseguimento accanito,gli insorti di Michele Pezza, alias “Fra’ Diavolo”, e di aver così contribuito per una larga parte alla cattura del celebre partigiano.
Tuttavia, avendo egli saputo la sorte che si riservava a questi, aveva insistito perché lo si trattasse da prigioniero di guerra e non da malfattore, un personaggio che era sempre riuscito , con una furbizia diabolica, a sfuggire e a non cadere mai nei tranelli che gli furono tesi dall’Hugo,, che non mimnizzava scioccamente il coraggio e le qualità di comando del temibile ed imprendibile capomassa, le cui imprese causavano grandi devastazioni. L’ufficiale transalpino non l’avtrbbe vinta, ma lo si incaricò di recarsi dal Pezza e di interrogarlo sui sussidi ricevuti e sull’organizzazione segreta delle bande insorte che tenevano ancora testa alle truppe giuseppiste.
Hugo penetrò in una prigione oscura. Alla luce di una lanterna, scorse” Fra’ Diavolo” che, i polsi serrati in braccialetti di ferro, sgranava un rosario.”Ti porto il mezzo per salvare la tua testa”, disse, avvicinando la luce al volto di Michele.
Questi lanciò sull’ufficiale francese uno sguardo carico di odio.
“Chi sei tu, replicò il Pezza, per parlarmi così?”
“ Sono Il maggiore Hugo.
“Allora io sono più di te !Io sono generale in capo di Sua Maestà molto Cattolica il re Ferdinando che Dio conservi ! E ti ordino di uscire di qui!”…
“ M a io ho da comipiere una misssione.Il re Joseph…”
“Non conosco il re Joseph…Che vuole da me questo Joseph?
“Egli prova pietà pe r t e”.
Non voglio la sua pietà. I Giacobini mi impiccheranno. Lo so. Così mi preparo alla morte pregando la Madonna della Civita di aprirmi la strada del cielo.Ho perso la partita , maggiore, e non ho nient’altro da fare che attendere la morte senza scadere”.
“Ti basterebbe rispondere alle mie domande. In parola, non sono né un vile, né un traditore !”
Vananmente, Hugo tentò di ottenere una risposta. Il Pezza, senza prestargli attenzione, si era rimesso a recitare le sue preghiere, che intrammezzava con una invocazione:”Santa Madonna della Civita, sterminate tutti i Francesi ! Non è un peccato ammazzare i francesi! Ci sarà un premio celeste per chi ammazza codesti cani eretici”.
Il 10 novembre, dopo sette gior ni di detenzione, il guerrigliero seppe che era stato istruito il suo processo e che doveva comparire, il giorno stesso, dinanzi ad una corte marziale.
Erano le 10 del mattino quando, sotto forte scorta, il Pezza fu introdotto dinanzi ai suoi giudici militari. Un avvocato era stato preposto d’ufficio per assisterlo.
Questa messa in giudizio non era che una semplice formalità. All’appello del suo nome,Michele rettificò: “Io sono il colonnello Pezza e duca di Cassano allo Ionio”.
Il tribunale rifiutò di riconoscere il suo grado e il titolo nobiliare. Di conseguenza, era trattato non da patriota,ma da brigante.
L’ufficiale che faceva le funzioni di procuratore reale pronunciò la sua requisitoria:”Avete dinanzi a voi, disse in sostanza, rivolgendosi ai giudici, un ribelle che ha fomentato, grazie ai sussidi del nemico, una rivolta a mano armata contro l’autorità di Sua Maestà Giuseppe I, re di Napoli.Ha, inoltre, caricato la sua coscienza di abominevoli misfatti. Ha commesso lui stesso i crimini più atroci sulla persona di numerosi soldati francesi ed è anche sui suo ordine che la gente della sua banda ha perpretato i più odiosi assassinii. Nulla autorizza a considerare quest’uomo come un ufficiale dell’esercito napoletano. Non ha mai comandato truppe regolari, ma ben un’immonda accozzaglia di banditi. Ha saccheggiato e taglieggiato i suoi compatrioti, la cui colpa era, ai suoi occhi, di ave r accettato il governo del re Joseph. Un castigo esemplare può solo,in tutta giustizia, punire tutte queste atrocità”.
Il suo avvocato presentò la sua difesa; ma sapeva; in antricipo,; che nessun argomento avrebbe potuto modificare l’opinione dei giudici.Quando ebbe terminata la sua arringa, si pose all’accusato la domanda rituale :”MichelePezza, avete qualcosa da aggiungere a vostra difesa?””Credo di aver fatto il mio dovere, fino in fondo,verso Dio e verso il mio re”.
A mezzogiorno; il tribunale pronunziò la sua sentenza. Michele Pezza; detto “Frà’ Diavolo”,era condannato a morte,sulla famigerata forca.
Siccome non lo si trattava da militare,ma ben da criminale di diriitto comune, il supplizio che gli era riservato era per l’appunto l’l’impiccagione. Il giudizio doveva essere eseguito l’indomani, 11 novembre, a mezzogiorno.
Michele apprese con la più grande calma la sua condanna Protestò solo contro il genere di morte ignominioso che gli di infliggeva. Vanamente; reclaamò il plotone di esecuzione. Aveva il Pezza ancora ventiquattro ore da vivere, di quelle ore terribili per le quali non si saprebbe dire se è preferibile abbreviarle o provare a prolungarle.
Il direttore della prigione venne ad informarsi dei desideri che il Pezza poteva formulare prima di morire. Questi chiese di vedere sua moglie e i suoi due figli , che credeva essere ancora a Napoli. Trasmessa subito al ministro della polizia, questa preghiera, pure molto naturale, non fu esaudita.
Allora Michele capì che nessun’altra supplica avrebbe ricevuto soddisfazione e, per non sbattere contro un rifiuto, prese la decisione di non sollecitare più niente, neanche l’assistenza di un prete.
E pomeriggio passò con una lentezza deprimente.Dinanzi al carceriere che non lo lasciava, non espresse alcun rimpianto. Non provava tema dinanzi alla morte,, avendola troppo spesso vista da vicino per paventare la fatale scadenza che nulla, salvo un miracolo, poteva differire.
Il Il guerrigliero sentì, durante tutto il corso della giornata e della serata, suonare le ore alla chiesa degli Incurabili. Sperando che, l’indomani, finirebbe bene per ottenere i soccorsi della religione, si preparò a riceverli e si rimise a recitare innumerevoli “PaTER” e “Ave”.
Il sonno finì per coglierlo e si assopì poco prima della mezzanotte. Ma sopraggiunse una ronda e, sia per stupidità involontaria, sia per crudeltà premeditata, fece un tale schiamazzo che il Pezza si destò.
“Che ora ?” chiese.
Erano le due della notte.Questa volta, non potette riaddormentarsi e dovette aspettare lo spuntare del giorno. Il supplizio non doveva aver luogo che tra dieci ore. Per ogni altro,si sarebbe potuto biasimare l’inumanità di un simile trattamento; ma il Pezza aveva agito, poco tempo,con tale ferocia verso suoi nemici che la sua agonìa lasciò insensibili.
E fu, di nuovo, il lungo scoccare delle ore al campanile della chiesa vicina…L’oscurità diveniva, poco a poco,meno spessa; si annunciava l’alba..
Alle otto,il Pezza si installò dinanzi ad una copiosa colazione, a cui fece onore. Poi, non vedendo giungere il prete, si rimise a pregare con fervore. Tutti i suoi crimini non li aveva commessi per la sua fede e per il suo re? Le sue vittime ? Dei miscredenti e degli empi, secondo lui. Tutto questo pesava poco sulla sua coscienza e, per questo fatto, non temeva di comparire dinanzi al tribunale divino.
La porta della sua prigione si aprì ed entrò un monaco. Dopo essersi lungamente confessato, Michele lo incaricò di trasmettere a sua moglie e ai suoi due figli i suoi ultimi pensieri.
In simili circostanze,è la conversazione del confessore che versa al cuore del condannato le consolazioni supreme e le risoluzioni necessarie. Il capomassa, che aveva ricercata la conversazione più a lungo possibile, si vide costretto a mettervi un termine. Agenti del ministro cella polizia,Cristoforo Saliceti, accompagnati da gendarmi, avevano appena fatta irruzione nella sua prigione.
Si condusse il Pezza nella chiesa degli Incurabili e di là il monaco, che si era unito alla piccola truppa celebrò una messa bassa. Era un poco più delle undici e mezza quando risonarono le parole dell’Ite. Missa est “. Il supplizio era per mezzogiorno. Si aveva il tempo per recarvisi senza affrettarsi.
Uscendo dalla chiesa suddetta, Michele si accorse che la strada che doveva seguire era contornata da una folla di curiosi, mantenuta da un cordone di truppe.Un apparato militare imponente ivelava l’intenzione de governo di reprimere subito ogni manifestazione.
Si formò un corteo. In testa e ai suoi fianchi, marciavano penitenti che portavano cero accesi, Al centro, le mani incatenate, Michele, assistito dal suo confessore, appariva calmo e disdegnoso, in mezzo ai gendarmi e agli agenti del Saliceti. Non un grido usciva dalla folla. Non si sentivano, lungo tutto il percorso, che i canti monotoni dei penitenti, che salmodiavano, con un tono lugubre, le preghiere degli agonizzanti.
Molto in lontananza, si alternavano rimbombi sordi, ripercuotendosi come l’eco di un temporale: era la flotta inglese che bombardava Castellallammare dii Stabia e il Vesuvio, che, da parecchi giorni, era entrato in attività.
Piazza Mercato era stata completamente sgombrata. Truppe ne occupavano i quattro angoli. Ora dietro di esse una folla di lazzaroni, sempre avida di questo genere di spettacoli. Era qui che era drizzata la forca, tra le due fontane monumentali che ornavano la piazza.Una piattaforma abbastanza alta era atata eretta per reggere il patibolo e perché il popolo potesse assistere a tutte le fasi del supplizio.
Siccome si era giunti dieci minuti in anticipo, il corteo si fermò ai piedi del palco. I penitenti proseguirono le loro tristi orazioni. Infine. Un orologio suonò il mezzogiorno.Cessarono i canti. Altre campane si misero a rintoccare, tra cui quella degli Incurabili, Era il segnale convenuto…
Michele Pezza salì con passo sicuro i gradini del palco e volle parlare. Delle parole che pronunciò, nessuna giunse fino alla folla. Il boia e i suoi aiutanti l’avevano afferrato e già gli passavano la corda al collo. Si vide all’improvviso il corpo sollevarsi,issato da dieci mani solide. Gli spsmi dell’agonia lo scossero per alcuni istanti; poi, dopo un’ultima convulsione, un cadavere palpitante si immobilizzò proprio in cima al patibolo.
Così finì tragicamente’,’11 novembre 1806, “Fra’ Diavolo”, che un re fece colonnelloe duca di Cassano allo Ionio e che un altro re trattò da rapinatore.
Alfredo Saccoccio