Milano Agesilao e Passannante Giovanni (Due attentatori regicidi a confronto)
Come I Savoia adottarono due pesi e due misure.
Il 17 novembre 1878, a Napoli, durante una sua visita alla città, il re d’Italia Umberto I fu oggetto di attentato nel quale rimase ferito leggermente. Nè poteva essere altrimenti, in quanto l’attentatore, Giovanni Passannante utilizzò un coltellino a serramanico ottenuto da un venditore ambulante in cambio della sua giacca. L’attentatore alla vita del “re buono” fu condannato a morte; l’anno successivo il Regio Decreto del 29 marzo commutava la pena capitale nei lavori forzati a vita.
Nell’ergastolo di Portoferraio, sull’isola d’Elba, Passannante cominciò a dare
segni di squilibrio mentale a seguito del trattamento disumano cui fu
sottoposto, costretto a vivere in assoluta solitudine e in perenne silenzio.
Sottoposto ad un regime di sevizie e di torture fisiche e mentali; dopo dieci
anni di dura detenzione in un’angusta cella posta sotto il livello del mare, fu
sottoposto a perizia psichiatrica dai professori Biffi e Tamburini che lo
dichiararono non sano di mente, disponendone l’invio presso il manicomio giudiziario
di Montelupo Fiorentino.
Qui morì il 4 febbraio 1910.
Passannante fu sottoposto alla pena prevista per i regicidi, ed è giusto che
sia così, è giusto che chi contravviene alla legge sia sottoposto ai rigori
della stessa; attentare alla vita di un uomo è reato grave, attentare alla vita
di un re, gravissimo, e come tale va punito.
Oggetto dell’attentato fu oltretutto “il re buono” – secondo l’uso di casa
Savoia di dare un epiteto ad ogni re della sua dinastia, e questo fu preceduto
dal “re galantuomo” (come se essere galantuomo fosse un merito particolare per
uno che era già re) e seguito dal “re soldato” (detto anche sciaboletta III,
che indossava la divisa solo per nascondere la poca grazia e prestanza della
sua figura).
Re buono, anche se fu coinvolto nello scandalo della Banca Romana e Re buono
anche se diede il via libera al generale Bava Beccaris autore della strage di
Milano del 1898, dove fece sparare col cannone sulla folla che scioperava per
l’alto prezzo del pane, uccidendone almeno 80 e ferendone 450. Il re premierà
Bava Beccaris con la più alta onorificenza al merito dei Savoia nominandolo
Gran Croce dell’Ordine e poi assegnandogli un seggio al Senato del Regno.
Passannante aveva attentato alla vita di un Savoia: e per questo non era
bastata la morte ad emendare un crimine così orrendo. Il suo corpo fu
smembrato, le parti disperse ed il cranio segato per estrarne il cervello;
questi ultimi, entrambi sono tuttora conservati a Roma, al Museo di
Criminologia dove per due Euro sono esposti alla morbosa curiosità ed al
ludibrio dei visitatori, affinché non si dimentichi.
A Salvia, in Lucania, suo paese natale oggi non resta più nemmeno un
Passannante; la madre e le sorelle vennero rinchiuse in manicomio (dove
morirono) per punirle di avere generato un tale “mostro”, come lo
definì Lombroso. Gli altri familiari furono costretti ad emigrare dalla
vergogna. Perfino Salvia non esiste più: il nome del paese fu mutato in Savoia
di Lucania in omaggio alla monarchia e in segno di scusa al sovrano.
Questa vicenda rimane esemplare e dimostra come la nemesi savoiarda, giusta e
puntuale si abbattè sull’attentatore.
Ben altro trattamento fu riservato ad un altro aspirante regicida.
Parlo di Agesilao Milano, un mazziniano che tradendo il suo Sovrano Ferdinando
II tentò di ucciderlo nel 1856; il Re rimase miracolosamente solo ferito e come
nel suo costume, soprattutto perchè rimasto praticamente illeso, si mostrò
disposto a graziare l’attentatore. Ma questi rifiutò ogni benevolenza dovendo
il suo gesto passare quale tentativo di giustizia di un tiranno e per il quale
avrebbe affrontato tutte le conseguenze ed il martirio secondo la versione
mazziniana, mentre una seconda ipotesi fu quella che il Gen. Nunziante,
implicato con altri graduati dello stato maggiore nell’attentato, volesse
chiudere per sempre la bocca del Milano.
La disponibilità alla grazia di Ferdinando non era occasionale. Essa dimostra
che l’aspetto della presunta sua “barbarie giuridica vendicativa”
rientra nell’ambito della “leggenda nera” che si volle creare sul suo
conto negli anni precedenti l’invasione del Regno (il decennio di Cavour,
1850-1860), proprio al fine di giustificare, agli occhi del mondo e della
storia, l’invasione stessa.
Se si fosse descritto a tutti il vero volto del regno di Ferdinando II, il reale livello di civiltà e progresso raggiunto ben difficilmente si sarebbe potuto trovare giustificazione alla spedizione di Garibaldi, all’appoggio del governo di Torino e, soprattutto, alla feroce repressione attuata negli anni 1860-1865 del cosiddetto “brigantaggio”.
Come testimonia lo storico Paolo Mencacci, nelle Memorie documentate,
dopo la rivoluzione del 1848 non furono eseguite nel Regno delle Due Sicilie
esecuzioni capitali (eccetto l’unico caso di Agesilao Milano). Delle 42
comminate dai tribunali, Ferdinando II ne commuta 19 in ergastolo, 11 in 30
anni ai ferri, 12 in pene minori. Negli stessi anni il Re grazia 2713
condannati per reati politici, e 7181 per reati comuni, mentre dal ‘48 la
statistica criminale nel Napoletano è in costante diminuzione. Ripetiamo che
Milano, secondo la versione più accreditata, rifiuta ogni grazia reale.
Scrive Marta Petrusewicz che “Molti prigionieri, tra cui il De Sanctis e
il Dragonetti, dopo aver scontato qualche anno di carcere, vennero deportati in
apparenza in America, mentre le autorità sapevano benissimo che sarebbero
sbarcati en route a Malta o in Inghilterra e si sarebbero rifugiati in qualche
paese europeo”.
Ben diversa è la situazione in Piemonte, e chi denuncia ciò è proprio un
deputato della sinistra piemontese, il Brofferio, il 26 marzo del 1856 in
Parlamento di Torino. Mettendo a confronto le esecuzioni capitali avvenute nel
1853 nella Francia di Napoleone III e nel Piemonte di Cavour e Vittorio
Emanuele II, il rapporto risulta essere il seguente (si badi, nel solo 1853!):
45 a 28; ma, nota giustamente Brofferio, “La popolazione di Francia è
quasi otto volte superiore a quella del Piemonte” e fatte le debite
proporzioni è come se in Piemonte le esecuzioni fossero state 224! Dal 1851 al
1855, conclude Brofferio, le esecuzioni nel Regno di Sardegna sono state 113:
“I progressi della morte sono immensi”. Inoltre, se si paragona il
quinquennio liberale ‘51-’56 (Cavour) con il quinquennio
“assolutista” ‘40-’44 (Carlo Alberto), il rapporto è di 39 a 113.
Ecco cosa ci dicono le statistiche, cioè i fatti storici: nella Due Sicilie, il “mostro” Ferdinando II grazia migliaia di persone; nel civilissimo Regno di Sardegna di Cavour, la mannaia lavorava a tutto spiano…
Ritornando al caso di Agesilao Milano (che era un terrorista assassino),
occorre ricordare che Vittorio Emanuele II, una volta compiuta l’usurpazione
del Regno delle Due Sicilie, lo premiò con una medaglia al valore alla memoria
e la sua famiglia si vide perfino assegnare una pensione dal dittatore
Garibaldi,
Ogni commento è superfluo… Mi limito solo sulla base di un confronto come,
per i Savoia, lo stesso reato avesse valenza diversa a seconda se la vittima
era un re piemontese o napoletano, un Savoia o un Borbone.
Quando l’anarchico Gaetano Bresci, nel 1900 a Monza, uccise Umberto I non ebbe
comminata da nessun Savoia pensione o medaglia al valore, nè lui nè la
sua famiglia…
Antonio Nicoletta