Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

MILIZIA SECOLARE E ORDINI MILITARI NEL MERIDIONE ITALIANO AL TEMPO DI GIOVANNA I D’ANGIO’ DI GUIDO IORIO

Posted by on Dic 16, 2020

MILIZIA SECOLARE E ORDINI MILITARI NEL MERIDIONE ITALIANO AL TEMPO DI GIOVANNA I D’ANGIO’ DI GUIDO IORIO
  1. La devoluzione dell’ideale cavalleresco

Non è,come facile immaginare, possibile pensare di trovare differenze sostanziali tra strutture e istituzioni di armati (siano essi secolari o legate agli Ordini Militari) del primo periodo di dominio franco-provenzale in Italia meridionale, e quello in cui ha vissuto e regnato Giovanna I d’Angiò (1343-82)[1].

Tuttavia, esaminando la relativa (e scarsa) documentazione superstite, è plausibile provare ad indagare le mutazioni (positive o negative che siano state), verificatesi nelle Istituzioni preposte alla difesa militare del regno di Sicilia, specialmente durante il governo della nipote di Roberto “Il Saggio”. E non è, questa, nemmeno la giusta sede per indugiare sulla vicenda storica relativa alla controversa sovrana di Napoli, ma si può discutere di come, durante il suo dominio, cambiarono modalità di relazione e gestione della dialettica tra corona partenopea e militarità regnicola nelle sue diverse espressioni.

Gioverà ricordare che, già in età normanna, Ruggiero II aveva sancito, nel raduno generale del regno tenutosi ad Ariano nel 1140, con norma apposita di cui resta traccia nell’ Assise diciannovesima intitolata De Nova Militia, la definitiva ereditarietà della dignità cavalleresca a partire da un lignaggio minimo che faceva salvo, naturalmente, il diritto del sovrano a creare nuovi milites motu proprio[2]. Questa possibilità (solo relativamente sfruttata dai primi due sovrani angioini che avevano della cavalleria un’idea ancora molto elevata, come ci ha ricordato Roberto delle Donne[3]), divenne consuetudine sotto i loro successori; e se con Roberto “Il Saggio” ancora non è possibile cogliere appieno i segnali di una metamorfosi strutturale dell’Istituzione equestre, sotto Giovanna I in molti casi la problematica sembra già essersi trasformata in quella sorta di “gioco”, come si vedrà più avanti, ma non (come potrebbe essere facile immaginare) esclusivamente quello “cortese” cui ci ha abituato una sorta di letteratura[4] e che è dotato di una certa “nobiltà”, quanto piuttosto il risultato di atteggiamenti al limite del “capriccio regale” che sminuivano e, sovente, quasi ridicolizzavano la cavalleria (quantomeno quella di provenienza laica). Invece, l’impossibilità sostanziale di un controllo completo sugli Ordini militari superstiti, specie Giovanniti e Teutonici (i Templari, com’è ben noto, furono soppressi nel 1311) e che erano capillarmente presenti sul territorio del Regno[5], spinse, per tutto l’arco del dominio angioino, ad opporre, per le ragioni che ci si appresta ad osservare, una sorta di cavalleria laica a quella di estrazione monastica. E’ in quest’ottica che viene fondato, ad esempio, l’ “Ordine della Nave”, fortemente voluto già dal successore di Giovanna, Carlo III di Durazzo, sulla scia del non meno noto “Ordine del Nodo” la cui costituzione -avviata ai tempi di Giovanna- vita e soppressione, ebbe risvolti addirittura grotteschi, per non dire comici: quando nel giorno della solennità di Pentecoste del 1353, infatti, venne incoronato come sovrano Luigi di Taranto sposo della sovrana, contestualmente si volle dar vita al nuovo Ordine cavalleresco (detto del “nodo” per l’accessorio in seta annesso alla tenuta dei suoi milites). In realtà, questa Istituzione -abbastanza caricaturale- è l’apoteosi di una vera e propria “moda” radicata nell’età di Giovanna I e non solo nel meridione italico: l’Ordine del Nodo, infatti, imitava strutture e statuti di altra omologa istituzione fondata solo due anni prima, nel 1351, da Giovanni “Il Buono” re di Francia il quale, a sua volta, lo aveva modellato sugli statuti dell’Ordine dello Spirito Santo, di più antica e gloriosa tradizione (e rinverdito da re Enrico III nel 1578)[6]. Il nuovo sodalizio voluto dal sovrano francese Giovanni, prese il nome di Ordine della Nobile Casa (noto, in seguito, anche come “Ordine dell’Etoile”[7]) ed ispirò fortemente quello del Nodo, a Napoli[8].

Di origine totalmente monarchica e, conseguentemente, fortemente sostenitore del ruolo sovrano a cominciare dal motto Monstrant regibus Astra viam, l’Ordine della Nobile Casa voleva, evidentemente, presentare i monarchi francesi come novelli Magi guidati alla verità dalle stelle; questa nuova e niente affatto necessaria Istituzione, contò tantissimi adepti nel meridione italiano, tanto che venne a porsi, appunto, come ispirazione per la costituzione dell’Ordine del Nodo il quale si impose all’attenzione dei contemporanei più per coreografia che per sostanza ideale: il sodalizio venne così designato, infatti, per un nastro di seta bianca portato sull’abito che, variamente eseguito in nocche, volùte e svolazzi, determinava gradi e impegni degli adepti. Il nodo (che per sua stessa natura impegnava solidalmente a qualcosa) veniva sciolto al compimento di un’impresa cavalleresca. Il tutto si ridusse, però, ad un orpello cortigiano che si inserì, tuttavia, benissimo nel frivolo andazzo dei palazzi partenopei di quegli anni, grazie ad una pletora di liturgie inutili e al limite del ridicolo dalle quali, va detto, però, non erano affatto esenti anche altri Ordini che si possono, oramai, definire “di corte”[9]. Una serie di usanze codificate e comportamenti di singoli, insomma, molto lontane dal rigore ancora tutto sommato “cistercense” degli Ordini Militari presenti sul territorio meridionale. Il nuovo sodalizio, sostanzialmente voluto dal consigliere e -dicitur- amante della sovrana Niccolò Acciaiuoli, si pose nella scia dell’azione dei potenti franco-provenzali verso questo tipo di fondazioni favorite in tutti i loro dominii: negli stessi anni, infatti, vedevano la luce l’Ordine della Ginestra (sempre in Francia[10]), e la Confraternita Magiara di San Giorgio nell’Ungheria angioina[11]. Ma di cavalleresco nel senso etico e nobile del termine sopravviveva, tuttavia, ben poco in questo marasma morale: l’aspetto cortese (nel senso più deleterio del termine) e ludico prevaleva sull’ideale e, del resto, come ben ci ricorda il Leonard “L’Acciaiuoli stesso portava nell’ordinamento dei cortei e nello svolgimento delle cerimonie solenni il senso artistico di un fiorentino e l’amore per il fasto di un napoletano”[12]. L’Acciaiuoli, forse affascinato dalle leggende napoletane legate all’antica permanenza del poeta Virgilio in città, stabilì un raduno annuale (nel giorno di Pentecoste, festa per eccellenza della cavalleria e del Miles Christi) nelle sale del castello dell’Ovo[13]. Si badi bene che non si tratta di una suggestione: negli statuti dell’Ordine, infatti, si fa preciso riferimento alla leggenda di Virgilio Mago che avrebbe nascosto un uovo chiuso in una gabbietta con la promessa che mai la città sarebbe caduta finché l’uovo stesso fosse rimasto intatto e, per proteggerlo meglio, vi fu sopra edificato il maniero che da esso fu, da allora in poi, identificato come “Castel dell’Ovo”,appunto. Ma il mito è fin troppo noto. Quello che conta, è come il riferimento alla leggenda in un documento ufficiale, non mancò, all’epoca, di suscitare l’ilarità di Giovanni Boccaccio, ironico sulla credulità dell’Acciaiuoli[14].

Il dubbio che non si possa escludere una conscia contrapposizione ideale alla cavalleria com’era ancora, a grandi linee, intesa dagli Ordini Militari e l’entourage della regina (Acciaiuoli in primis e, a seguire, molti grandi e piccoli feudatari del regno) viene dal fatto che i rituali di queste “nuove cavallerie” fossero fortemente contaminati da gesti e liturgie infarcite di forti reminiscenze pagane come, ad esempio, quella di presentarsi ai raduni con un serto di alloro, in ossequio ad una tradizione mutuata dalla Roma classica. E’, forse, proprio questo un segno dell’incipiente cultura umanistica che, anche dalla corte di Napoli, iniziò il suo diffusivo percorso; una corte piena di fiduciari, funzionari e famigli impregnati di retroterra umanistico proprio come quelli di provenienza toscana e fiorentina in particolare, che furono sempre fedeli alleati dei primi Angiò di Napoli in quanto capi della lega guelfa; un rapporto preferenziale che sarebbe continuato senza soluzione di continuità fino a Giovanna e oltre (l’Acciaiuoli, il Petrarca e il Boccaccio non erano casuali reperti di un tempo che fu[15]); e non mancarono mai elementi toscani pure nelle file cavalleresche.

Resta complicato risalire a queste dinamiche partendo dalla documentazione curiale dell’età giovannea poiché la ricostruzione dei registri angioini non è ancora giunta ad un punto tanto avanzato di studi; tuttavia, quel poco di testimonianze scritte superstiti uscite dalle stanze della burocrazia regia, confermano la preferenza accordata ai toscani anche per quanto riguarda il loro inserimento nella milizia laica da cui la regina traeva funzionari per l’amministrazione, da destinare ad ogni parte del regno; valga, a titolo esemplificativo, un documento del 1363, in cui si nomina il miles fiorentino Francesco de Aldemariis quale Regio Capitanio di Bitonto[16].

In questo quadro politico complessivo, gli Ordini Militari erano visti quasi in modo sprezzante, portatori di un’idea di cavalleria quantomeno antiquata e -a dispetto della loro ricchezza- paradossalmente anche un po’ “stracciona” (almeno per quanto riguardava i singoli membri che, com’è noto, non potevano possedere beni personali); benché, infatti, ufficialmente gli statuti relativi a questi nuovi sodalizi di corte continuarono con la proclamazione del servizio all’ideale cavalleresco legato al retaggio della Militia Christi, in realtà quello che si sa, specialmente dell’Ordine del Nodo, fa riferimento principalmente alla totale inettitudine dei suoi membri dal punto di vista delle imprese militari: i “Cavalieri del Nodo”, presto inghiottiti dall’anonimato, pare si distinguessero più nelle imprese di desco e in tenzoni da lenzuola nella cornice delle orge a castel dell’Ovo, che in onorevoli imprese d’armi. Questo quadro, piuttosto penoso, di decadenza morale, può darsi non sia del tutto veritiero e, forse, artatamente messo in giro dagli avversari degli angioini per screditare Giovanna e la sua corte; la regina, la presenza della quale è segnalata nelle testimonianze relative a qualcuno di questi raduni, è dipinta come una vanesia e sciocca donnetta di cui nulla si sa veramente se non le maldicenze che la volevano partecipante, rigorosamente mascherata per motivi di riservatezza, ai simposi dell’Ordine quando s’incapricciava di qualche bel cavaliere. Distinguere il dato storico dal pettegolezzo, in questi casi, è sempre difficile e le donne di stirpe regale francese (e non solo) furono sempre bersagli di tali maldicenze: gli stessi atteggiamenti lussuriosi con tanto di partecipazioni mascherate a licenziosi festini, furono attribuiti, fino ancora al XVI secolo per esempio, a Margherita di Valois, nella Francia sconvolta dalle guerre di religione ma le dicerie erano, evidentemente, il più delle volte, di parte ugonotta.

Per ovvi motivi, dunque, pensare che la degenerazione morale dell’istituzione cavalleresca (almeno di quella secolare) abbia un nesso diretto con la rilassatezza dei costumi del tempo di Giovanna I (più pretesa che reale, a nostro modesto avviso, e, comunque, non diversa da quella che si poteva riscontrare in qualsiasi altra corte dell’epoca), sarebbe un grave errore. Questo processo di disgregazione etica non dipendeva certo dai limiti umani di una donna protagonista ma anche vittima delle procelle politiche del suo tempo, ma dai tempi che cambiavano; un processo iniziato molto prima, insomma. Proprio durante i governi di Carlo I e Carlo II, infatti, il regno del sud, in endemico stato di guerra e con le casse erariali permanentemente in dissesto a causa della voragine di bilancio creatasi con l’incontrollata spesa pubblica d’età sveva, doveva far fronte, oltretutto, al censo annuo dovuto alla Chiesa per mantenere l’appannaggio della corona di Sicilia[17]. Queste contingenze avevano obbligato i primi due angioini a rivedere molte cose in campo economico, con conseguenze profonde anche su quello militare. Gli stessi Carlo I e Carlo II d’Angiò, -cavalieri essi stessi e fautori di una militia ideale, anche per l’alto mandato pontificio che li individuava come tutori della fede e della sede di Pietro- apparivano anacronistici già al loro tempo; ma del loro essere antiquati erano consapevoli al punto che, in molteplici occasioni, dovettero fare buon viso a cattivo gioco, ammettendo smagliature ed eccezioni in quell’ideale nel quale pure credevano profondamente; eccezioni che, volte a raggranellare denaro, andarono ad intaccare la purezza di un ideale che, almeno a parole, tentavano di salvaguardare. Dunque, il perenne bisogno di liquidità degli angioini, li portò a guardare con sempre maggiore indulgenza e benevolenza a quei borghesi i quali, esclusi dalla nobiltà di sangue, vedevano nella cavalleria una possibilità di scalata sociale da intraprendere a colpi di acquisto di titoli con moneta sonante. Si era venuta a creare, insomma, quella situazione che avrebbe spinto Gaetano Salvemini a parlare di una cavalleria composta di borghesi alla stregua di quel che ne pensava il Boccaccio al riguardo, il quale, nel Labirinto d’Amore dissertando con molta ironia, appunto, dei nuovi ceti emergenti desiderosi di indossare la cappa a tutti costi, sosteneva quanto ai borghesila cavalleria si attagliasse «…come la sella al porco…»[18].

Ai tempi di Giovanna, parrebbe che questo poco edificante processo di abbassamento di livello qualitativo della cavalleria, fosse giunto a compimento. Certo, rimaneva l’eccezione degli Ordini Militari i quali, paradossalmente, solo ai tempi di Carlo I, con la loro sostanziale autonomia dal potere laico ma dipendenti da quello ecclesiastico, sembravano essere essi stessi la negazione dell’ideale dei primi cavalieri, noti per essere portatori più di un’anarchia nobile che reali protettori dell’ordine costituito[19]; ora, invece, il rapporto appare invertito: durante il regno di Giovanna è negli Ordini Militari che si conserva una parvenza di etica legata al retaggio del miles Christi -benchè limitato dalla dipendenza ecclesiastica mai venuta meno nel tempo- contrapposta alla decadenza di quella laica. E c’è anche un altro aspetto da prendere in considerazione: è vero, infatti, che Carlo I favorì fortemente gli Ordini Militari con privilegi e donazioni (ai suoi tempi, inoltre, c’erano ancora i templari al massimo della loro potenza); ma lo fece perché -ricchi e autonomi di per sé stessi- erano parte attiva nella difesa del regno, e a bassissimo costo essendo dotati di proprio cospicuo patrimonio; di contro, questo non implicava che contribuissero significativamente a rimpinguare le casse dello Stato, ragion per cui il sovrano doveva necessariamente guardare altrove. Se da un lato, perciò, avvalendosi delle consuetudini risalenti già all’età normanna, Carlo tentò di salvaguardare un minimo di etica cavalleresca nominando (al di fuori di chi poteva esserlo per diritto di sangue) milites di suo gradimento dotati di un minimo di specchiata onestà e qualche qualità guerriera, dall’altro non si fece scrupolo (in una prassi continuata anche dal figlio Carlo II) ad utilizzare questa stessa prerogativa per fare cassa, magari solleticando l’ambizione di un bel po’ di prosperi cialtroni dalle origini tutt’altro che aristocratiche. L’istituzione dell’Ordine della Nave sotto Carlo I, infatti, ebbe anche come ulteriore particolarità quella di ammettere nei suoi ranghi solo gli appartenenti al ceto borghese della capitale e questo in ordine a due ragioni: la prima consisteva nel contrapporre una sorta di cavalleria “urbana” di nuova fondazione e fedele per riconoscenza al re, a quella feudale, più antica, bellicosamente orgogliosa, legata al mondo rurale e, per tradizione, più autonoma rispetto al potere centrale quindi sempre poco incline nel collaborare a soccorrere le casse regie; la seconda ragione, risiede nella convenienza, avvertita dalla corona stessa, di aprire definitivamente le porte della cavalleria a quel ceto medio, borghese e mercantile (dunque cittadino) più disposto a foraggiare le finanze angioine in cambio di un’ammissione nei ranghi cavallereschi come unica possibilità di colmare il gap sociale fra ceti emergenti e vecchia aristocrazia. E’ ovvio che l’apertura a faccendieri, mercanti e ambiziosi di ogni risma ma ben forniti di denaro, non potevano fare un buon servizio all’ideale; nell’età di Giovanna, dunque, altro non giunse che l’onda lunga di un sistema ora ulteriormente incancrenito dalla corruzione, dal lassismo dei costumi e dalla superficialità; un sistema idealmente annacquato e religiosamente indifferente.

  • Giovanna e gli Ordini Militari

Per quello che riguarda, invece, le relazioni tra la regina e gli Ordini militari, esse furono sostanzialmente improntate ad un reciproco rispetto formale. Giovanna, del resto, donna in un mondo di uomini, fece dei formalismi, quando poté, anche un’arma diplomatica: l’inventario cronologico- sistematico dei registri angioini ci ricorda il “ligio omaggio” [20] della regina a quel papa Clemente VI cui poi vendette la sovranità piena della città di Avignone, fino a quel momento parte dei domini provenzali degli Angiò; un atteggiamento, insomma, abbastanza comprensibile, da vaso in coccio in mezzo a vasi ferrei di manzoniana memoria. Formalmente, dunque, i rapporti con gli Ordini si mantennero in un accettabile equilibrio: molto probabilmente il ruolo da essi rivestito si limitò ad una sostanziale neutralità nelle lotte di fazione laddove si fosse rivelato possibile, o ad appoggio logistico da concedere ad una delle parti in causa, oltre che, naturalmente, ad essi stessi; in un suo recente studio, Raffaele Licinio, infatti, citando la cronaca di Domenico da Gravina ci ricorda del sostegno solo logistico che i teutonici di Capitanata concessero al duca Guarneri (partigiano di Giovanna e Luigi di Taranto) in attesa dello scontro tra le sue armate e quelle dei mercenari ungheresi al soldo del voivoda Stefano e del nobile Corrado Lupo[21]. Del resto, la realtà storica e militare di quei tempi, era profondamente mutata e il contributo degli Ordini Militari alla difesa del Regno (anche dopo la triste esperienza templare) ne usciva ridimensionato. Così, da una parte si assisteva al graduale disimpegno degli Ordini, dall’altro l’incoscienza ludica di cavalieri più per gioco che per vocazione, come quelli del “nodo”, contribuirono a chiudere definitivamente il capitolo del ruolo guerresco dell’Istituzione equestre, che si era posta, fino a poco tempo prima, come pilastro degli eserciti medievali. In un mondo come quello della metà del XIV secolo, in cui anche il modo di fare la guerra si era lasciato alle spalle il retaggio del combattente a cavallo, la vera difesa (o, se si preferisce, in questo caso specifico l’influenza militare delle armate al soldo dei pretendenti al trono di Napoli) non passava più per la cavalleria come era stata intesa da normanni, svevi e primi angioini, ma per le truppe appiedate ad arruolamento mercenario. Già non si trattava più di una misura straordinaria, ma di una prassi consolidata anche in momenti relativamente più tranquilli o in quelli in cui chi insidiava il trono di Giovanna era meno ostile; anche in questi momenti, infatti, si registrava la presenza consistente non di cavalieri o monaci guerrieri, ma di sempre più numerosi contingenti mercenari provenienti, principalmente, da altri territori del cosiddetto “impero angioino”, quale l’Ungheria, come ci ricorda un documento tarantino del 1367, uno di quegli anni, appunto, in cui Giovanna, di nuovo vedova, regnava provvisoriamente da sola[22].

Il mercenariato divenne, quindi, sempre più importante. E’ documentato, anche nell’azione di governo di Giovanna, il rafforzamento della pur antica consuetudine di sostituire con pagamento in denaro (poi destinato, appunto, all’arruolamento di mercenari) l’obbligo di prestazioni in armi dei feudatari del regno. Una consuetudine che non venne più abbandonata nemmeno dalle successive dinastie di dominatori del meridione italiano come ci testimonia una carta aragonese (che, però, fa riferimento ad una disposizione di Giovanna I) con la quale si consentiva la sostituzione in denaro delle prestazioni feudali dovute alla corona dalla contea di Cefalonia[23].

  • Qualche nobile eccezione

La devoluzione dell’ideale cavalleresco e il conseguente declino delle sue strutture più o meno organizzate nell’età di Giovanna I non significò, tuttavia, che esse non fossero più state in grado di esprimere -in modo maggiormente “diluito”, evidentemente- energie e personaggi di un certo spessore e positività. Se da una parte, dunque, le varie cavallerie che oramai si è stabilito definire “di corte”, rinunciavano alla vocazione originaria e gloriosa dell’Istituzione per ridursi ad ambiti di ostentazione e gaudenza ai limiti del ridicolo, o semplicemente “inquinata” dalla massiccia presenza di “parvenu” di origine borghese, dall’altro lato si registra la sopravvivenza di lignaggi nobili e di antica militanza, ammessi a corte e ai favori dei sovrani, proprio in ragione di queste loro, oramai rare, qualità. Un esempio su tutti, quello riguardante la famiglia Capece-Minutolo. Già di antichissimo lignaggio partenopeo, i membri di questa casata legarono la loro fortuna alla fedeltà verso il trono specialmente di Roberto “il Saggio”. Durante il governo di questo sovrano, infatti, tutti i membri della famiglia già insigniti del titolo di miles, ebbero importanti incarichi: Consigli di Stato, Governatorati, Vicariati Generali vennero loro affidati con fiducia; furono i casi di Pietro II Minutolo, Ludovico, Filippo detto “Pallotto”. Anche sotto Carlo III di Durazzo e Ludovico II d’Angiò i Capece-Minutolo seppero farsi onore; alle corti dei predetti sovrani lavorarono Lisòlo, Giovanni detto “Nannulo”, Niccolò e Martuccello, mentre durante il governo di Ladislao servirono onorevolmente Barnaba e il feudatario di Giugliano, Percivallo. Ma più di tutti si distinse Roberto Minutolo, che tanto fu amato dal suo omonimo sovrano, il “Saggio”. Il Minutolo, infatti, rimase accanto a re Roberto per tutta la lunga vita del suo signore al punto che, legato alla fedeltà dinastica da un commovente affetto, in tarda età servì anche la stessa Giovanna I[24].

Questa cavalleria nobile, lontana dalla natura e finalità degli Ordini Militari ma ancora legata alla tradizione del servizio e dell’honor benché in ambito laicale, tuttavia si mostrò funzionale solo agli scopi della corona; e i fideles nostri, come tante volte vengono definiti nella documentazione i cavalieri vicini ai primi angioini, diventano personaggi domestici, incastonati in una struttura da cui dipendono e ricevono sostentamento, quella nobiltà, insommain capite regie cure, come correttamente la individua Giuseppe Galasso[25].

  • Dal sogno all’inganno

Ma queste nobili eccezioni non devono trarre in inganno: sotto il regno della nipote del “Saggio”, quel poco che rimaneva dell’ideale cavalleresco (se davvero ve n’è mai stato uno riconoscibile) si diluiva, a partire dal XIII secolo, nel “gioco cortese” di cui ha parlato Huizinga: la corte napoletana dell’età di Giovanna coltiverà, forse inconsapevolmente, più l’ideale dell’homo ludens che del Miles Christi. In buona sostanza, comunque, nello scolorimento generale di un ideale, tutto tendeva a trasformarsi in gioco: l’amore, l’onore, la cavalleria, la stessa guerra sublimata nella farsa sanguinosa e drammatica di tornei e giostrare cruenti (specialità di cui gli angioini furono grandi cultori ed esperti[26]), come ben ci fanno comprendere gli studi di Garin, Huizinga e Duby[27]. Certo, potrebbe apparire ingeneroso attribuire alla sola Giovanna I il ruolo di arbitro di questo gioco malandrino di spade e giovani donzelli di cui s’invaghiva più per le virtù estetiche che per quelle marziali, come ci riferiscono le dicerìe maligne sul suo conto sicuramente esagerate; è, tuttavia, innegabile che trasparisse dal suo comportamento una leggerezza, una frivola superficialità che non fece bene al suo nome, alla monarchia che rappresentava e, ancor più, all’Istituzione cavalleresca. Non va dimenticato, infatti, che, almeno da un punto di vista formale, mai nessuno aveva abrogato la norma che consentiva l’accesso nei ranghi cavallereschi al solo genere maschile; Giovanna si servì di quelle prerogative sovrane che (come in tutti i Paesi in cui non vigeva in assoluto la consuetudine cosiddetta “Salica”) poteva esercitare, ma agli occhi dei benpensanti, in quanto donna, mai avrebbe potuto incarnare la qualità del miles che, come avveniva originariamente, era l’unica condizione o, comunque, la più logicamente deputata alla trasmissione di tale alta dignità. Com’era più naturale, tale privilegio fu copiosamente esercitato dai primi tre regnanti angioini che, però, erano stati prima di tutto investiti milites in gioventù.

Giovanna, invece, appariva agli occhi dei “puristi” dell’Istituzione, una persona poco degna al ruolo di nominare nuovi cavalieri; ruolo di cui si serviva, appunto, in quel modo giocoso che a tanti dovette apparire al limite del canzonatorio. Che ne avesse davvero diritto pieno, o che approfittasse di quanto poteva ricavare dalle pieghe di una giurisprudenza connivente o addomesticata, non è dato sapere; fatto sta che, con non poco scandalo, Giovanna si diede all’investitura di numerosi donzelli ammessi al titolo di miles solo per festeggiare degnamente, ad esempio, le sue quarte nozze nel 1376. E non si trattò affatto di una intromissione episodica: vi fu, infatti, un momento in cui riprese vigore, sotto l’azione di Niccolò Acciaiuoli, l’iniziativa delle armate angioine sul teatro bellico siciliano; gli eserciti di Giovanna si diedero alla controffensiva vittoriosa nel conflitto per il possesso della Sicilia che, in spregio agli accordi di Caltabellotta del 1302 con cui si era posto fine, almeno formalmente, la cosiddetta “Guerra del Vespro”, non era mai tornata sotto sovranità angioina; fu così che, nel 1356, il fedelissimo fiorentino promosse la riconquista di Messina e della stessa Palermo per la sua regina; l’intera Sicilia settentrionale e occidentale tornò sotto il controllo della corona napoletana, mentre l’autorità siculo-aragonese si riduceva al solo sud-est dell’Isola con Catania come “capitale”, in una situazione territoriale che si sarebbe protratta, in tali condizioni, fino alla metà del sesto decennio del XIV secolo. In questo frangente si può constatare che l’interferenza di Giovanna nella vita militare del regno non fu solo occasionale: nella parziale riscossa angioina sul teatro bellico siciliano, infatti, la sovrana volle avere un ruolo attivo (forse per affermare la sua autorità o per mostrarsi riconoscente ai suoi fedeli, non è dato di saperlo con precisione); ad ogni modo, volendo dar credito ad un documento dell’Archivio di Stato di Palermo, a un cavaliere che tanto si era distinto nell’assedio di Messina, accordò un assegno annuale di ben cento once, mentre ad un altro miles (nella documentazione compare solo il titolo, segno di quanto tale dignità contasse, forse, persino più del casato di provenienza) concesse la nomina di governatore del capoluogo peloritano[28].

A questo si aggiunga anche la grande attenzione che Giovanna rivolse all’edificazione e manutenzione delle fortificazioni del regno; atteggiamento che ci presenta, dunque, una regina molto interessata al mondo militare, nonostante le riserve dei benpensanti[29].

Ad ogni modo, la cavalleria dei tempi di Giovanna, laica o ecclesiastica che fosse, si era, oramai, trasformata in una sorta di sogno che reggeva un sostanziale tradimento ideale senza che questo creasse, tuttavia, eccessivi complessi di colpa in alcuno; gli Ordini Militari procedevano per la loro strada -o in dipendenza dal papato o sostanzialmente autonomi negli Stati che andavano a costituire (i teutonici sul Baltico e i giovanniti a Rodi)-; nel regno meridionale rimanevano le loro strutture a punteggiarne il territorio, impegnate con tutti i loro contingenti più a rimanere in equilibrio col potere costituito che a difenderlo realmente; la cavalleria secolare, invece, galleggiava nella cornice di questa decadenza ideale; e la regina certo ebbe buon ruolo ad influenzare il costume di corte: si pensa all’amore più che alla guerra; amore più o meno sofferto, amore come gioco, sfida, vita cortese, e coraggio cavalleresco ostentato più intorno a scintillanti lizze torneali che nella polvere dei campi di battaglia.

Ma saranno gli elementi giocosi tanto cari a Giovanna e alla sua sensibilità femminile che le sopravviveranno: parlando di una festa cortese della seconda metà del XV secolo, infatti Cardini ha detto: “…Restando quindi fermo il legame molto preciso tra armeggeria e corteggiamento come tra armeggeria e nozze [questo] fa piuttosto ritenere che l’elemento carnevalesco […] avesse anche collegato un rituale cortese in qualche modo allusivo all’amore fuori dal matrimonio…”. Questa era la Cavalleria di Giovanna I d’Angiò (in un quadro di decadenza che continuerà fino alla fine della dinastia[30]): amore, infedeltà, sensualità, feste; un gran carnevale, se vogliamo usare le parole del Cardini, dal quale però non si potevano nemmeno escludere totalmente guerra e sangue, forse impietosi paradigmi della drammaticità che pure aveva costellato la lunga esistenza terrena della sovrana: davvero, la cavalleria nella sua epoca fu sfondo e metafora della sua straordinaria e infelice vita[31].


[1] Sul personaggio di Giovanna I, per una sintesi scientifica cf. E. G. Leonard, Histoire de Jeanne Ière reine de Naples, comtesse de Provence (1343-1382), Monaco – Paris 1936 e, Id., Gli Angioini di Napoli, ed. it. Varese 1987, specc. pp. 427-556; A. Leone – F. Patroni Griffi, Le origini di Napoli capitale, Altavilla Silentina 1984; più divulgativo ma di buona levatura il seguente saggio: V. e L. Gleijeses, La regina Giovanna d’Angiò, Napoli 1990.

[2] O. Zecchino (a cura di), Le Assise di Ariano: testo critico, traduzione e note, Cava dei Tirreni 1984, pp.22–106.

[3] R. Delle Donne, Le cancellerie dell’Italia Meridionale (secoli XIII-XV), in «Ricerche Storiche», 2 (1994), pp. 361-388.

[4] J. Huizinga,Homo ludens, saggio introduttivo di U. Eco, Milano 1985.

[5] Cf. G. Iorio, Strutture territoriali in Italia meridionale e flotte sulle rotte d’oriente degli ordini monastico-cavallereschi nella prima età angioina, in atti del convegno «Tra Roma e Gerusalemme nel Medioevo: paesaggi umani ed ambientali del pellegrinaggio medievale», Salerno, Cava de’Tirreni, Ravello, 26 – 29 ottobre 2000, 3 voll., Salerno 2005, vol. III, pp. 779-794; poi in Id., Strutture e ideologie del potere nel meridione angioino, Salerno 2005, pp. 71 – 86. Cf. pure Id, Il Giglio e la Spada, Rimini 2007, pp. 191 – 206. Sulla scomparsa dell’Ordine Templare si cita (a titolo esemplificativo, considerata la mole immensa di materiale prodotto), A. Demurger, Vita e morte dell’Ordine dei Templari, rist. Milano 2005.

[6] Difficile stabilire l’origine esatta dell’Ordine a causa delle tante omonimie di organismi omologhi, ma probabilmente si tratta di quell’Ordine nato tra XII e XIII secolo come appendice dei Giovanniti, che ebbe un ruolo, sotto Innocenzo III, nella lotta ai catari albigesi; cf. P. De Angelis, L’ospedale di Santo Spirito in Saxia, Roma 1960; M. L. Amoroso, Il complesso monumentale di Santo Spirito in Saxia, Roma 1998.

[7] F. Sicard, Histoire des institutions militaires des Français, Paris, 1835; J. D’Arcy – D. Boulton, The knights of the crown: the monarchical orders of knighthood in later medieval Europe, 1325-1520, London 2000, p. 221-225.

[8] Il nome ufficiale era “Ordine dello Spirito Santo al Retto desiderio detto del Nodo”; cf. G. di Crollalanza, Enciclopedia araldico-cavalleresca, Bologna 1964, p. 59, 2.

[9] Anche il Cardini accetta questa dizione; cf. F. Cardini, Prefazione a Iorio, Il giglio cit., p. 8.

[10] Se ne parla nel tomo ottavo della Storia degli Ordini monastici, religiosi e militari e delle congregazioni secolari dell’uno e dell’altro sesso, fino al presente istituite, con le vite de’ loro fondatori e riformatori, tradotto dal franzese dal P. Giuseppe Francesco Fontana, Milanese, chierico regolare della congregazione della Madre di Dio, in Lucca 1739, pp. 288 – 289.

[11] Era stato fondato da Caroberto d’Angiò (figlio di Carlo Martello d’Angiò, primogenito di Carlo II “Lo zoppo”) nel 1326. Ad esso si ispirò, nel 1408, l’Iimperatore Sigismondo (che aveva aootenuto anche la corona ungherese) per fondare l’Ordo Draconis (“Ordine del drago”) in funzione anti hussita e anti ottomana; Cf. D’Arcy – Boulton, The knights of the crown cit., pp. 226 – 231.

[12] Leonard, Gli angioini cit., p. 464.

[13] Una nuova interpretazione del personaggio e della sua politica in F. P. Tocco, Niccolò Acciaiuoli: vita e politica in Italia alla metà del XIV secolo, Istituto Storico Italiano per il Medioevo, Roma 2001.

[14] Sulla sua vicenda umana e storica politica, cf. Voce relativa a c. di E. G. Leonard, Dizionario Biografico degli Italiani, Treccani.

[15] Va sfatato il mito di un Petrarca e un Boccaccio “servi diligenti” della monarchia angioina. Se è vero, infatti, che essi non maltrattarono mai i regnanti provenzali di Napoli, il motivo risiede nella stima sostanziale che i due letterati avevano per loro; stima, evidentemente, ricambiata. Ma l’accusa di piaggeria che spesso si rivolge loro, è ingiustificata e infondata; Carlo Carucci ricorda, infatti, come tanto l’autore del Canzoniere quanto quello del Decameron, non ebbero nessuna difficoltà (e in più occasioni), a tessere le lodi, ad esempio, di un grande nemico degli Angioini come Giovanni da Procida. Cf. C. Carucci, Notizie – il monumento a Giovanni da Procida, in «Archivio Storico per la Provincia di Salerno», anno VI, I della N.S., fasc. I, (1932), pp. 59-63, p. 62.

[16] I Registri della Cancelleria Angioina, (primi 48 voll.), ricostruiti a c. di R. Filangieri e gli archivisti napoletani i voll. I-XXXVI, Napoli 1950-1987. Dal XXXVII vol. a c. di J. Mazzoleni, B. Mazzoleni, R. Orefice De Angelis, ed ora affidati a S. Palmieri dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici, anno 1363.

[17] La situazione debitoria del Regno meridionale al momento in cui Carlo I ne assunse il controllo era talmente disastrosa che il re dovette, a un certo punto, impegnare per 1040 once d’oro la stessa corona di Sicilia con un mercante amalfitano. Cf. Codice diplomatico del regno di Carlo I e Carlo II d’Angiò, a c. di G. Del Giudice, Napoli 1863, doc. n. LXIX, anno 1268, pp. 212-213. Persino l’economia familiare era divenuta problematica per il re, al punto che non egli non ebbe modo di onorare completamente il pagamento della dote stipulata per la figlia Isabella che era andata in sposa a Ladislao IV d’Ungheria. Cf. I Fascicoli della Cancelleria Angioina, a c. degli Archivisti Napoletani, s. III, vol. I, tomo I, Napoli 1995, p. XXXIV.

[18] G. Salvemini, La dignità cavalleresca nel comune di Firenze, in La dignità cavalleresca nel comune di Firenze e altri scritti, Milano 1972, p. 121.

[19] Il tema, magistralmente affrontato dal Cardini, viene ora riproposto in una più fresca rilettura con la riedizione del suo saggio più famoso: F. Cardini, Alle radici della cavalleria Medievale, Bologna 2014

[20] L’Evento fa riferimento al 1343, quando Giovanna era appena salita al trono, ed è segnalato in B. Capasso, Inventario cronologico-sistematico dei Registri della Cancelleria Angioina presso l’Archivio di Stato di Napoli, Napoli 1894, nota n. 4, p. 358,

[21] Cf. R. Licinio, Teutonici e masserie nella Capitanata dei secoli XIII-XV, in L’Ordine Teutonico nel Mediterraneo, «Atti del convegno internazionale di studio», Torre Alemanna di Cerignola, Mesagne, Lecce, 16-18 ottobre 2003, pp. 175-196, p. 182; cf. pure Domenico da Gravina, Chronicon de rebus in Apulia gestis (1333-1350), a c. di A. Sorbelli, Città di Castello 1903 (Rerum Italicarum Scriptores, 2 ediz., 12, parte 3).

[22] R. Alaggio, Le pergamene dell’Università di Taranto (1312-1652), Lecce 2004, doc. n. 22, pp. 45-46.

[23] Fonti Aragonesi. Testi e documenti di storia napoletana pubblicati dall’Accademia Pontaniana, serie II, vol. III (aa. 1452-53), Napoli 1957, doc. n. 72, p. 10.

[24] In proposito cf. B Sersale, Discorso Istorico della Cappella de’ signori Minutoli dentro il Duomo di Napoli, Napoli 1745, rist. anast. e introduzione a c. di M. Napoli, Salerno 2003.

[25] G. Galasso, Il Regno di Napoli. Il Mezzogiorno angioino e aragonese (1266-1494), in «Storia d’Italia», a c. di G. Galasso, XV voll., Torino 1992, p. 17

[26] La tradizione associa l’invenzione dei tornei proprio ad un cavaliere angioino vissuto nell’XI secolo: Geoffrey de Preuilly. Se ne parla nel Chronicle of Tours. In proposito cf. Iorio, Il Giglio cit., p. 172.

[27] Cf. E. Garin, Introduzione a L’Autunno del medioevo in J. Huizinga, L’autunno del Mioevo, rist. Roma 1992, pp. XI-XII; Idem, L’autunno cit., pp. 85-152; Duby, Guglielmo il maresciallo, cit., pp. 107-155.

[28] Diplomi angioini dell’Archivio di Stato di Palermo, perg. LII, anno 1358, pp. 110-111.

[29] Iorio, Il giglio cit., pp. 241-248.

[30] Un’indagine recente su questi tempi in A. Feniello, Napoli al tempo di Renato d’Angiò, in «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano», 112 (2010), pp. 273-295.

[31] F. Cardini, Armeggiar di notte, in Gioco e Giustizia nell’Italia del Comune, a c. di G. Ortalli, Roma 1993, pp. 133-143, p. 137.

Guido Iorio

2 Comments

  1. Intendevo a inizio articolo, perché alla fine dell’apparato note non ci arriva quasi nessuno. Grazie di nuovo

  2. Lusingato del fatto che abbiate postate il mio intervento ad un convegno specifico e poi pubblicato su rivista di settore, ma almeno il mio nome come autore, potevate aggiungerlo. Cordialità. Guido Iorio

Submit a Comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.