Mircea Eliade, il Mozart della metafisica di Alfredo Saccoccio
Una fortuna non giunge mai sola. Uno dei primi romanzi dello storico delle religioni Mircea Eliade è stato “La luce che si spegne”, ma notevoli sono due testi dello scrittore romeno, quali “La Biblioteca del maragià” e “Soliloqui”.
Il romanzo, scritto nel 1930 (l’autore aveva allora 23 anni), racconta il destino tragicomico di Cesare, bibliotecario che “non pensa che un’ora al giorno”, piccolo ellenista molto scialbo e di una mediocrità sontuosa, eroe malgrado lui , dopo l’incendio che devasterà la biblioteca di una cittadina (più di cinquant’anni dopo, a Chicago, delle fiamme meno fittizie distruggeranno la biblioteca dell’autore, che non se ne riprenderà mai e morirà poco tempo dopo). Il racconto è insieme poliziesco, metafisico, ironico, realistico, teorico, volentieri misogino, disinvolto e drammatico. Si pensa a Borges e a Kafka.
“La Biblioteca del maragià” riunisce ugualmente testi di giovinezza. Quantunque questa espressione non voglia dire granché, trattandosi di Mircea Eliade, sorta di Mozart della metafisica, che pubblica all’età di tredici anni (!), in una rivista di Bucarest, la sua città natìa, il suo primo articolo, “Come ho scoperto la pietra filosofale”, che studia, a quindici anni, il suo italiano, il suo ebraico, il suo persiano, prima di dedicarsi alla meraviglia dei linguaggi, il sancrito, e di esaurire gli scritti su tutte le filosofie e tutte le spiritualità, dall’alchimia a Ficino, dai Greci alla filosofia indiana.
Il dotto fu ammirato da pensatori prestigiosi e talvolta austeri come Jung, Dumézil, Junger, Corbin, Bachelard o Georges Bataille. L’enciclopedico Eliade, dalla erudizione prodigiosa, è autore di opere culte- se si osa dirlo- con libri tanto considerevoli quanto “Il Mito dell’Eterno Ritorno” (Torino, 1952), “Manuale di storia delle religioni” (Torino, 1954), la “Storia delle credenze e delle idee religiose” o “Arti del metallo ed alchimia”, in cui sostiene che “l’oro non appartiene alla mitologia dell’ “homo faber”, ma è una creazione dell’ “homo religiosus”. Quel Mircea, dunque, fu ugualmente un artista, un romanziere e un narratore immaginifico e fecondo (“La Nuit Bengali”, Parigi, 1950, o “Il vecchio uomo e l’ufficiale”). Egli non amava d’altronde troppo che si differenziasse in lui da un lato il pensatore, lo storico, e dall’altro il narratore di storie.
C’è in Mircea Eliade quella tentazione della fantasia, della malinconia e della gaiezza, quello sguardo sovversivo sulla serietà del tempo, sulla modernità e sul senso della storia, quell’aspetto gioioso del cielo, quel senso del tragico e dell’umorismo, quell’anticonformismo di temperamento che condividevano i suoi compatrioti Emil Cioran e Eugène Ionesco, che egli ritrovò a Parigi, nel 1946, e che potrebbe ben essere qualcosa come una specificità romena. Si trova nella “Biblioteca del maragià” della freschezza, della comicità, della spontaneità, un entusiasmo giovanile e un senso di meraviglia molto evidente dinanzi ai paesaggi e agli uomini. Si tratta di una sorta di giornale di bordo, quello che tenne Mircea Eliade in quello così decisivo viaggio in India, in cui l’autore, che vi vivrà tre anni intensi, si recò nel 1928 per studiare, a Calcutta, presso il professore Dasgupta. Eliade ha allora vent’anni. Egli ha già letto tanto quanto un letterato centenario. Però il giovane dotto ha anche occhi (e spesso occhi da poeta) per vedere il mondo. Primo scalo (era il tempo benedetti in cui i viaggi duravano) : Il Cairo, i suoi crepuscoli inbalsamati, che ispirano a Mircea frasi d’acquarello: “Qui si direbbe che ogni asino porta un santo.”
Poi prendiamo un battello, un steamer che va a zonzo lungo il Mar Rosso, al largo delle coste dell’Arabia pietrosa, A bordo e in terza classe, dove si ride molto (“ Povero Roland Dorgelés che non conosce che le prime”, ironizza il nostro viaggiatore): un giapponese nichilista, lettore di François Villon, un altro giapponese , teorico della pigrizia, un indù che prega e dorme molto, un australiano positivista, un seminarista italiano.
Poi ecco Ceylon. In un treno surriscaldato e sovraffollato, sempre in terza classe, Mircea Eliade chiede ingenuamente da bere a dei contadini in sanscrito! Poi egli va a spasso,spalanca gli occhi, respira ridendo, ci presenta le scimmie, gli elefanti, le farfalle, i fiori, e si ricorda che Shiva ha creato il mondo danzando. Poi ecco l’India, dove lo scrittore ascolta il jazz e melopee millenarie, visita, lavora in biblioteche favolose, assiste a moti, ad impressionanti dimostrazioni di yogi, incontra dei saggi, “dolci nemici della scienza e della filosofia chiuse nei libri”, impreca contro il disprezzo, l’indifferenza e l’ignoranza degli europei delle colonie (parlerà più tardi del “provincialismo occidentale”). Di incontri, Mircea Eliade ne fa molti. Egli vende il pandit Nehru, assiste,
il 25 marzo del 1929, ad un processo del Mahatma Gandhi, accusato di aver incoraggiato un autodafé di abiti britannici, e che sarà condannato ad un’ammenda di una rupia. E poi, soprattutto, c’è quel ritratto commosso e tutto fremente d’ammirazione e di riconoscenza: quello del maragià di Kassimbazar, quel ricchissimo bengalese, mecenate dello spirito e delle scienze, che finisce per rovinarsi per amore dell’intelligenza e dei poveri, volendo creare il loro mestiere, e che offrì una borsa di studio a Mircea Eliade.
Questa raccolta di testi limpidi è seguita da “Soliloqui”, primo scritto “teorico” di un giovane pensatore, che diverrà lo storico ed il cantore dell’ “Homo religiosus”. Una prosa ardente e folgorante, volta a volta ragionatrice e sibillina, e di un’energia poetica che fa talvolta pensare alle “Illuminazioni” di Jean-Nicolas-Arthur Rimbaud. Vi si leggono delle pagine rapide ed ispirate, nel senso pieno di questo termine, sulla danza, sulla castità, su l’immortalità o sull’ascesi, “dimostrazione per la gioia dell’esistenza di Dio”. Nietzsche e la sua approvazione giubilatoria del mondo non è sempre lontano e Pascal talvolta molto vicino, quando Eliade afferma che “l’uomo è un porco alla nascita”, ma che “non occorre provare ad essere un angelo”. La frase di Mircea si invola volentieri, disprezzando “la verità”, questa entità sospetta, alla quale egli preferisce il paradosso, schernendo “l’anarchia sentimentale”, “i languori psichici”, esaltando “la natura cosmica dell’uomo” e deplorando “le soluzioni moderne sempre più pietose”. C’è del Don Chisciotte in Eliade (“uno dei grandi modelli in amore”, diceva egli), ma un Don Chisciotte invaghito di sogni straordinariamente concreti. E già, in questo testo lirico, spunta un uomo che non ama molto i sognatori di una spiritualità da biblioteca e non considera la religione senza pratica: la preghiera o lo yoga, per esempio, che egli praticò con rigore, prima di scrivere alcune opere che continuano a far testo sulla questione.
Dialettica esemplare tra le alte sfere, in cui Eliade non si asfissiò mai, la nostalgia, che fu in lui il contrario di un passatismo e una pratica che mai prosciugò le fonti e le felicità della speculazione. E poi c’è quella gioia di sempre, così lontana dal pregiudizio, volendo che le preoccupazioni spirituali fossero antinomiche con il sorriso, come in “Il nome della della rosa”, quella gioia già presente in “Soliloqui”, o, tra altri aforismi, si può ricordare questo: “La tristezza è una vera maledizione.”