Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

Napoli 1837

Posted by on Dic 24, 2021

Napoli 1837

Nella primavera/estate del 1837, ognuno dei dodici quartieri in cui veniva suddivisa la città di Napoli era animato da un continuo viavai di carrettoni neri, una sorta di carri funebri modello “station-wagon”, dove venivano ammassati, uni sugli altri, i tanti morti di colera.

Questi particolari carrozzoni, simili a nere formiche impazzite nel loro andirivieni, si affiancavano ai feretri illuminati che formavano lunghissime processioni.

Contrariamente a quanto auspicato in quella lunga poesia del più famoso attor comico napoletano, i convogli dei ricchi estinti si dirigevano a Santa Maria del Pianto, mentre quelli della plebe venivano trasferiti al Camposanto delle 366 fosse o nelle fosse comuni.

Per le strade, la gente accorreva a vedere il passaggio delle bare illuminate: a via Toledo ogni passo un feretro: alcuni accompagnati da torce, altri illuminati da lampade; altri negletti ed oscuri, a seconda della fortuna di chi muore o dell’avarizia di chi resta…[1]Non s’incontrava che processioni di vergini biancovestite ed altre avvolte, invece, in un velo nero, tutte come gli angeli della morte.[2]

Cortei che a volte s’incrociavano con qualche turba di becchini di ritorno dal cimitero accompagnati da femmine liete e festanti con risa e schiamazzi, come a dileggiare le miserie altrui; qualcuno, ebbro, gridava: “Vivaddio, se dura così, Napoli sarà spopolata in due mesi e noi faremo i signori![3]

Altrove capitava che tra i monaci e i sacerdoti di qualche corteo si riconoscessero giovani di parrucchieri, bottegai e perfino dei ciabattini travestiti che a volte si azzuffavano coi lazzaroni e coi becchini e finivano tutti arrestati tra i fischi della plebe.

Avvicinandosi al cimitero capitava che un feretro veniva assalito dai ladri che s’involavano i ceri… e, a proposito di ladri, per le pestifere esalazioni che salivano dalle sepolture, si incolpava l’appaltatore delle fosse che per vile risparmio non le aveva fatte abbastanza profonde o che aveva coperto i cadaveri con poca, insufficiente calce sempre per lo stesso motivo…

Accadeva pure che, dopo aver varcato la stretta porta del cimitero, da dietro si udisse il gridio dei becchini i quali gareggiavano in sopravanzarsi, sbucando da quella porta, come marea dello stretto del Peloro…[4]

Da ogni punto della città, quelle interminabili processioni dei trasportati nelle bare, a centinaia convenivano e attraversavano la Porta Capuana per dirigersi al camposanto e, per quella oscurissima e vasta campagna della pianura di Poggioreale, quelle bare illuminate parevano lucciole dirette tutte in un sol punto dove ardeva un gran fuoco.

Le bare, infatti, dopo essere state svuotate, venivano arse. Il buio della notte era così rischiarato dal falò delle casse vuote, per cui dal Vomero, dai Camaldoli, da Capodimonte, da Castel Sant’Elmo si poteva subito individuare, nel panorama di Napoli, il cimitero dal quale si sollevava un vorticoso fumo commisto a fiamme che dal rogo s’alzava verso il cielo: le casse mortuarie si abbandonavano al fuoco…, fiammeggiavan malaurose fiamme, un falò che tingea di luce rossiccia gli aspetti dei circostanti. Ritto in piedi, il sacerdote vestito di sacra stola benedicea i trapassati, talvolta accanto, vestito di nero, chi aveva prestato l’ultimo uffizio al parente perduto; intorno quei visi cagneschi dei becchini affaccendati, forse motteggiando fra loro, forse di soppiatto tracannando orciuoli di buon vino in dispregio del pianto del concittadino…[5]

…e comparivano per quelle vie venditori di vino e di confetti secondo l’indole inventiva e spensierata de’ napoletani. Comparivano i nobili imitanti il pietoso costume straniero di accompagnare alla fossa i congiunti perduti ed alcuni sopra vi recitavano l’elogio funebre; comparivano compagnie di gente curiosa del vedere… Era un andazzo, un suono confuso e misto di voci; ora zufolate e risa, ora trastulli, ora malinconici e monotoni salmi delle Confraternite… e la sepoltura di tante migliaia di sventurati somigliava veramente a una fiera…[6] (Una sorta di “fiera” caratterizza anche oggi, i primi due giorni di novembre, le strade che portano al cimitero. Nella via Nuova Poggioreale, che comincia da piazza Nazionale, a più di un chilometro dall’ingresso del camposanto, si vende di tutto: dai pesciolini rossi allo zucchero filato, dalla pizza fritta ai giocattoli e, qualche volta, perfino l’ultimo successo discografico del cantante di turno che viene riprodotto – senza ritegno – ad alto volume…).

Le salme, però, prima di essere rovesciate nei fossi direttamente dalle casse o ivi portate dai becchini dopo essere state prese dal mucchio una alla volta: teneri giovinetti, delicate donzelle, rigogliosi bambini, venerandi vecchi, ancor fresche matrone, uomini peranche verdi, con una sola orribile vista a gran fasci ammonticati, entrando venivano accolte dal sacerdote Rettore del Camposanto che, dopo una rapida scorsa ad una sorta di “bolla di accompagnamento” rilasciata dalla Intendenza che ne autorizzava la sepoltura, impartiva loro la benedizione.

La sunnominata Intendenza non era altro che una particolare sezione dell’ufficio anagrafe dove venivano annotati i nomi delle persone decedute a causa del colera. Essa si trovava al Largo Monteoliveto, all’interno del Convento degli Olivetani dove, su un uscio che si apriva nell’angolo destro del suo cortile, si leggeva OFFICINA GENERALE DE’ CONVOGLI FUNEBRI. Qui venivano rilasciati i “passaporti”: alcuni validi per il cimitero normale ed altri per il camposanto colerico; in tal modo si poteva calcolare il numero dei morti per quella epidemia. In quella stanza, dietro un tavolo interamente coperto da liste di colerosi, un giovane impiegato leggeva e calcolava il numero delle vittime del contagio, non senza impallidire o, addirittura, piangere.

Al tramonto, quel luogo si illuminava della luce di diverse fiaccole, quelle della moltitudine che veniva a ritirare i “lasciapassare”.

Da quello stesso ufficio, partivano poi dei carretti, forniti di grosse caldaie, per andare a disinfettare la città. Lì un sacerdote dispensava sussidi e vesti ai bisognosi e registrava i nomi degli orfani e delle orfanelle affinché fossero mandate dal Governo nei vari luoghi di carità. Carità resa possibile anche dalla iniziativa privata che raccoglieva le elemosine per i colerosi versate dagli artigiani e dai commercianti. Naturalmente, tutte queste iniziative si affiancavano a quelle del Governo da cui furono dispensati migliaia di ducati, molti dei quali, però, subirono purtroppo …deviazioni di percorso: quando, infatti, fu il momento di pagare medici (ai quali sarebbero dovuti andare 18 ducati al mese) e farmacisti che avevano anticipato farmaci ai più indigenti, si scoprirono molte mariuolerie e poche buone opere…[7]

Lo stesso Re Ferdinando II fu molto presente tra la popolazione: spesso andava a visitare gli ammalati negli ospedali o, sceso dalla carrozza, passando fra uomo e uomo favellava popolarmente, entrava le più misere case e un giorno, per dimostrare che il pane non era avvelenato come qualcuno gli diceva, presone un pezzo che una vecchia gli porgeva, lo divise e ne mangiò di presente…[8]Furono, inoltre, per sovrana beneficenza, aperti dei refettori a San Pietro ad Aram, a San Pasquale, a Santa Maria la Nova, alla Sanità, a San Giorgio: ivi chiamati i mendicanti, ivi ristorati di cibo.[9]

Ogni evento umano ha diverse facce per cui, come spesso accade, il bene viaggia – quasi sottobraccio – al male e non è raro che ambedue si mascherino poi di grottesco, anche in momenti tragici come quelli di cui si sta narrando e, alla fine, non si sa se ridere di nascosto o commuoversi apertamente. Come, per esempio, del parapiglia causato dal gratuito lancio di una pietra, all’interno del cimitero, contro un gendarme. Il quale cieco dal dolore e dalla rabbia spronando il cavallo per cercare di raggiungere il furfante, urtò una bara che, a sua volta, sbatté violentemente contro un’altra che si rovesciò su un’altra ancora, creando così un inadeguato, oltre che grottesco, effetto domino. Qualcuno fu anche sul punto di essere calpestato da un cavallo mentre faceva scudo col proprio corpo al figlio morto.

La sera del 10 maggio, nei pressi del bosco di Capodimonte, due tipacci alquanto “fatti a vino”, mentre trasportavano e insieme bestemmiavano il pesante feretro che pesava sulle loro teste, per paura di essere scambiati e infamati come beccamorti (evidentemente, quello era un… “trasporto eccezionale”) spensero la lanterna che illuminava il loro cammino. Al buio, però, quello che stava davanti inciampò e stramazzò per terra e la pesante bara, scoperchiandosi, gli piombò sul collo come una scure. Il compagno di dietro, cadendo a sua volta, aumentò notevolmente la pressione sul malcapitato che rimase col viso schiacciato per terra, quasi a mordere il suolo…

In una casa di Chiaia, prima di sollevare dal letto e deporre nella cassa il corpo di un povero pescatore, due becchini mercanteggiavano impietosamente senza recedere minimamente dalla loro esosa richiesta di due Ducati, nonostante la vedova li implorasse di accettare, per carità, gli otto Carlini che era tutta la somma che ella possedeva. Non ci furono versi e allora, dopo aver scacciato via furiosamente via quei due, il figlio più piccolo del defunto, con la lanterna innanzi, gli altri due con la bara paterna sul capo e la vedova dietro con la corona in mano, si avviarono al Camposanto…[10]

Da quanto appena riportato, si deduce che all’epoca non esistevano ancora imprese di pompe funebri, né il Comune provvedeva all’uopo. Era tutto basato sulla libera transazione, perfino le casse da morto erano oggetto di commercio diretto tra produttore e consumatore. Capitava, infatti, di vedere, accanto agli antichi negozi del tempo della “zeppolajola”, della “pesacannella” e del“vend’inchiostro”, bare vuote a migliaia per le strade e presso tutti i falegnami che si affrettano a fabbricare quest’orrida e necessaria merce; mercedi cui i lazzaroni hanno fatto una speculazione commerciale e i più sfrontati vanno per le vie ad alta voce vendendo: “Casse per i morti! Casse per i morti!” …[11]

Nel campo della libera iniziativa imprenditoriale del tempo, va annoverata anche quella del “decrotteur”, il lustrascarpe. Questo mestiere era stato introdotto nella nostra città dai francesi nel 1805, dopo esservi giunti con gli stivali rotti ed infangati e ciò spiega perché, in Napoletano, chi lo svolge è il… pulezzastivali.

Ogni più tristo lazzarone si credette – sulle prime – disonorato a esercitare tale attività ma, quando un audace sfacciato che prima si procurò una cassetta con una cattiva spazzola ed un grano[12] di nerofumo, fu veduto far tesori, tutti i Caffè si trovarono tosto assediati da decrotteur…[13]

Decano di questi lavoratoti era un certo Giovanniello che “primo chinò la schiena a lustrare gli stivali di un francese: molti generali posero il piede su la nerissima sua cassetta e Massena e Rennier gli dettero un’amichevole staffilata e una moneta d’oro o d’argento”.[14]

Quando costui morì di colera nel 1837, pochi giorni dopo la dipartita della sua giovane figlia per le cui esequie aveva inventato la prima bara illuminata,[15] duecento suoi colleghi gli costruirono a proprie spese una bara tinta di nerofumo e ornata con le consuete lampade. Si racconta che il più affezionato dei suoi “discepoli”, dopo averlo vestito e calzato, lo pose su una sedia e gli spazzolò gli stivali. Allora, e qui la storia si fonde con la leggenda, quel morto riconoscente chinò il capo come per abbracciarlo ed andarono un fascio a terra maestro, scolaro, spazzola e cassetta…

Ad un povero ed onesto falegname di vico Giardinetto che stava ricavando da vecchie tavole una bara, si avvicina un lazzarone perché vuole acquistarla.  L’artigiano, però, non la cede, a nessun prezzo.

Perché?” gli chiede quello impaziente.

Non vedi ch’è bagnata dalle mie lagrime? Questo era il letto di mio figlio, voglio che sia la sua bara…”.

Ti è morto dunque quel bel figlio che si dava da fare ogni mattina? …

Furono le lacrime del falegname a rispondergli.

Chi porterà tuo figlio al camposanto?

Non lo so ancora… non ci ho pensato…

Allora questo va per quello: tu mi farai la bara ed io porterò tuo figlio al camposanto… Anche mio figlio è morto e io li porterò tutti e due al camposanto. Così noi saremo amici su questa terra e i nostri ragazzi fratelli nella fossa!”

Chissà se questo “lazzarone” non fosse uno di quelli che spogliavano i cadaveri prima di sotterrarli e far poi commercio di ciò che era loro appartenuto o era fra quei becchini che si ordinavano in schiera seduti sulle casse mortuarie, aspettando la loro volta a trabalzar giù i propri concittadini, e ingannavan quelle ore giocando motteggiando o dormendo sdraiati su una cassa, indifferenti al morto…[16] Chissà…!

Fatto sta che, se non uno di quelli, è come uno di quelli, cioè l’antitesi dell’onesto artigiano alla cui abilità contrappone la sua intraprendenza di uomo di strada; le lacrime del falegname – però – smuovono la sua coscienza, accendono la sua riconoscenza e, alla fine, il dolore di uno si fonde in quello dell’altro. È una scena di sublime umanità che vede far eco alla sfrontatezza del primo il pudore del secondo, la sguaiataggine dell’uno mutuarsi colla modestia dell’altro, l’esuberanza del “lazzarone” arginata dalla compostezza dell’artigiano, la cui dignità fa da contraltare all’altrui volgarità. E questo miscuglio di contraddizioni, questo amalgama di atteggiamenti, di stati d’animo, di sentimenti che convivono disordinatamente in reciproca, tumultuosa antitesi, danno la napoletanità: volete o non volete, questa è Napoli.

E lo dico prima a me stesso.

Erminio de Biase


[1] Giovanni Emmanuele Bidera – I 120 giorni del1837… – Napoli 1837 – p. 55

[2] Idem – p. 82

[3] Idem – p. 114

[4] Idem – p. 105

[5] Giuseppina Guacci Nobile – Storia del cholera in Napoli… – Napoli 1978 – p. 42

[6] Idem – p. 82

[7] Idem – p. 96

[8] Idem – p. 29

[9] Idem – pp. 73/74

[10] Giovanni Emmanuele Bidera – op. cit. – p. 59

[11] Idem. – pp. 85/112

[12] Un centesimo

[13] Giovanni Emmanuele Bidera – op. cit. – p. 56

[14] Idem – p. 57

[15] Ibidem

[16] Giuseppina Guacci Nobile – op. cit. – p. 82

1 Comment

  1. Excelente nota histórica.

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