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Napoli capitale nel dibattito autonomista neoguelfo

Posted by on Feb 17, 2021

Napoli capitale nel dibattito autonomista neoguelfo

La breve riflessione che voglio proporre in questo intervento prende spunto da una ricerca che sto portando avanti sul significato che, per una breve stagione, vale a dire negli anni immediatamente seguenti al raggiungimento dell’unità, ebbe la proposta di fare Napoli capitale d’Italia[1].

Alimentato non soltanto dalle richieste di chi non voleva nostalgicamente rinunciare ad un’epoca passata, definitivamente tramontata e superata, il progetto di portare a Napoli la capitale è stato in primo luogo il simbolo di un’idea di autonomia che ha preso corpo in alcuni autori della tradizione politica meridionale lasciando un’impronta che non è rimasta senza conseguenze nella storia della città, la quale, proprio nel giro di anni a ridosso tra il disfacimento dell’antico regno e l’unificazione, stava riprendendo la capacità attrattiva e la forza propulsiva entrate pericolosamente in crisi nei decenni precedenti[2]. Questa cruciale fase storica – segnata da una continuità con il passato, ma anche dall’ansia di scoprire gli elementi nuovi e originali sui quali puntare per una trasformazione e rigenerazione dell’intero mezzogiorno, e che senza dubbio ha contribuito a dare alla città una propria fisionomia e identità – è stata vissuta allo stesso tempo con partecipazione e con preoccupazione, con la consapevolezza della dignità e della ricchezza del patrimonio culturale che l’antica capitale del Regno borbonico portava in dote e la paura di vederlo disperso e consumato dal processo di assimilazione e di annessione con il resto d’Italia. Il sentimento di attesa e di speranza, ma anche di timore per i rischi legati ad una situazione difficile e complessa, è rappresentato da due momenti distinti, cronologicamente vicini ma emotivamente e politicamente già distanti, in cui si discusse della città che sarebbe dovuta assurgere al rango di capitale del nuovo regno italiano: il dibattito sull’annessione delle province meridionali al regno e quello che scaturì all’indomani della Convenzione del settembre 1864, tra i cui punti vi era il trasferimento della sede da Torino, in attesa dello spostamento definitivo a Roma[3]. Pochi anni di distanza sufficienti a mostrare un cambiamento forte nelle speranze dei patrioti meridionali che avevano dato il loro contributo al processo di unificazione. Ma ciò che mi interessa mettere in luce è che l’indagine intorno a questo periodo della storia d’Italia si rivela particolarmente suggestiva in quanto lo scontro tra unitaristi e autonomisti è stato un importante banco di prova per verificare come si sono costruite le relazioni tra le culture regionali e lo stato nazionale, tra le tradizioni specifiche e le tendenze all’omogeneizzazione. In quel cruciale passaggio storico la questione della nazione è, infatti, assurta a luogo emblematico dove studiare il modo in cui le diverse componenti hanno costruito un’identità collettiva non attraverso visioni naturalistiche o statalistiche, ma richiamandosi ad un’impostazione di carattere plurale, capace di intendere la costituzione dei gruppi sociali come unità culturali, e di definire la nazione come una collettività sociale dal carattere di comunità culturale. Come si potrebbe mostrare in particolare facendo riferimento alle analisi di Enrico Cenni, l’interesse principale era rivolto alla costruzione di una cultura nazionale come quadro comune di riferimento per l’intera collettività, di modo che proprio la cultura diveniva da un lato un patrimonio peculiare, localizzato, dall’altro, l’universo simbolico di una collettività, favorendo in tal modo un incontro tra due componenti capaci di trasformare la cultura nazionale in un fenomeno intersoggettivo capace, nonostante oggettivi limiti intrinseci, di superare, per utilizzare un linguaggio oggi in voga, un monoculturalismo egemonico per aprirsi ad una concezione multiculturale, in grado di far coesistere insieme le diverse anime della nazione che si stava costruendo.

Non è possibile ora accennare in maniera organica alla ricca trama di motivi che animarono il dibattito tra unitaristi e autonomisti nella Napoli post-unitaria, anche se va messo in luce come quest’ultima componente, fortemente preoccupata per lo squilibrio che il processo rivoluzionario aveva creato e basata sul rifiuto del centralismo, di cui condannava soprattutto la possibilità di applicazione dei principi in una realtà del tutto diversa[4], era fortemente presente sia in alcuni settori democratici partenopei, la questione della creazione dello Stato e la necessità di un ordinamento amministrativo capace di rispecchiare e rispettare le diversità storiche, culturali e naturali dell’intera penisola, si incarnava proprio nel problema dell’individuazione della capitale (e basta pensare alle riflessioni di Giuseppe Ricciardi), sia nell’ambiente dei cattolici moderati, di formazione soprattutto giuridico-umanistica, sui quali mi vorrei soffermare.

La cosiddetta prospettiva “Neoguelfa”[5] e autonomista, infatti, era molto sensibile alla denuncia di un processo di unificazione che appariva fortemente sbilanciato verso il nord del paese invece di favorire, facendo ricorso ad un modello impegnato anche nello sviluppo dell’altra parte della nascente nazione, la composizione e la salvaguardia degli interessi di tutte le comunità, le quali, colte nelle loro specifiche potenzialità, dovevano essere messe in grado di contribuire al benessere generale realizzando innanzitutto la loro autentica libertà, vale a dire coltivando le proprie istituzioni giuridiche e politiche. I “neoguelfi” napoletani, tra i quali i nomi più sono quelli di Enrico Cenni, Federico Persico, Giovanni Manna, a differenza dell’ala democratica, continuavano a difendere con forza le prerogative del potere temporale del Papa, intendendole come intimamente legate alle sorti dell’Italia e tuttavia ponevano il problema della capitale per farlo assurgere ad emblema di un processo di unificazione inteso come orientato dal basso, dai bisogni reali ed effettivi, dai costumi delle popolazioni, e per questo in grado di costruire in maniera originale l’identità della nazione. Ed è importante mettere in luce come la questione della capitale si veniva a legare alle discussioni sul modo in cui costruire e formare la nazione[6], sui rapporti che dovevano sussistere tra le sue diverse componenti, un discorso che, per esempio Giovanni Manna, avrebbe tematizzato attraverso il riferimento ad aspirazioni solidali in grado di consentire una identificazione collettiva che, per utilizzare una terminologia che Friedrich Meinecke avrebbe adoperato in un diverso contesto, andasse nella direzione di una «nazione culturale».

Manna (che intervenne sulla questione anche nel Senato del Regno[7]) ne aveva discusso in un noto lavoro, Le provincie meridionali del Regno d’Italia[8], nel quale aveva dato il suo personale e originale contributo alla riflessione sulla costituzione dell’identità attraverso l’organizzazione delle diversità, nella consapevolezza che le due parti d’Italia si erano incontrate senza aver avuto ancora la possibilità di formare legami solidi, per cui «il gran concetto dell’unità e della solidarietà nazionale [non] era ancora ben entrato negli spiriti»[9]. Attraverso l’analisi dei fattori che avevano contribuito a formare il carattere delle differenti popolazioni italiane (analisi che hanno di certo contribuito alla costituzione di alcuni tipici stereotipi che hanno a lungo prevalso nel dibattito politico e culturale) Manna indicava le difficoltà del processo di unificazione e di nazionalizzazione[10], la necessità di costruire per le due parti d’Italia condizioni politiche e amministrative «di perfetta uguaglianza», di formare le «forze individuali» che avrebbero dovuto far nascere la fiducia in se stessi, nelle proprie capacità, nelle proprie idee, in una parola le modalità per cercare di riavvicinare moralmente le provincie meridionali all’Italia superiore[11]. All’interno di questo discorso, nel quale il valore principale era dato all’individuazione dei vincoli solidaristici e morali capaci di contribuire a costruire una forma di italianità con una precisa connotazione storica e geografica[12], Manna introduceva il discorso intorno alla capitale che doveva essere in grado sia di rappresentare «le tradizioni, le istituzioni, le arti, la storia», sia la grandezza e i bisogni di governo e di amministrazione della nazione[13]. Per questo era necessario trovare una «capitale vera», in grado di formare un «insieme integrale ed armonico», nel quale le tradizioni e la storia costituivano un aspetto importante, dotato anche del «carattere legale e politico»[14] necessario per sfuggire ai pericoli innestati dalla predominanza degli interessi locali forti e radicati che sopravanzavano l’interesse generale nazionale. Tuttavia, anche se la capitale ideale e definitiva era una soluzione difficile e ancora lontana da raggiungere, per Manna diventava necessario chiedere una soluzione intermedia capace di garantire «una scomposizione fondamentale dell’antico meccanismo burocratico e amministrativo, uno scioglimento del nucleo antico ed una sostituzione di elementi presi da tutta Italia, una ricomposizione integrale di tutti gli altri collegi consultivi ed amministrativi, per rifarli con proporzionata combinazione di parti nuove ed apparenti a tutto il paese, una rinnovazione franca, compiuta, imparziale degli antichi riti locali, così come si dovrebbe fare sul terreno nuovo di una capitale nuova, un appello, un invito libero, incondizionato, a tutti i migliori, perché vadano colà, nella sede del governo, intorno al trono, nella alte regioni della corte, della milizia, della diplomazia, del ministero e dell’amministrazione, a mettere l’opera ed il consiglio alla grande e comune impresa della unificazione italiana»[15]. La capitale, il centro del paese, doveva così essere il luogo dell’interesse comune, dove «alla solidarietà del centro governativo risponda l’intera e perfetta responsabilità dell’amministrazione locale»[16], in modo da svolgere la doppia funzione di ridestare la fiducia in sé stessi e l’amore versi gli altri popoli. Solidarietà e responsabilità venivano così indicati come i due motori del processo di unificazione e di costruzione dell’identità nazionale che, escludendo il ricorso a qualunque tipo di mito identitario, ponevano il compito di armonizzare le differenze continuando a mantenerle e a riconoscerle nella loro alterità.

Queste riflessioni vanno avvicinate a quelle svolte da Enrico Cenni, il quale nel 1861, nelle sue considerazioni su Napoli e l’Italia, si era esplicitamente fatto promotore della richiesta di trasferire la capitale a Napoli fondandola su una visione autonomistica e liberale dell’organizzazione dello Stato, un liberalismo certamente ancora di tipo moderato e caratterizzato dal rifiuto di consentire l’accesso delle classi popolari alla partecipazione politica[17]. Le riflessioni di Cenni, oltre ad offrire un’interessante descrizione storica, politica, geografica, antropologica delle caratteristiche di una capitale, indicavano la necessità di individuare la capitale nella città partenopea sia per l’idealità religiosa e politica dei suoi abitanti, sia per la loro universalità, che «consiste nella rimozione di ogni tinta locale, la quale è sempre una limitazione, e quindi una negatività; e nella affermazione di ogni lato reale del genio italiano, secondo le sue più particolari manifestazioni nelle diverse famiglie; cosicché essa possa essere il centro dialettico che tutte le armonizzi, e perciò sia pure il centro naturale della vita comune»[18]. Mi sembra interessante richiamare l’attenzione proprio sui fattori “universali” (il ruolo che Napoli ha avuto nel complessivo movimento della civiltà, l’indole del popolo napoletano e le necessità naturali che hanno consentito alla città di diventare una capitale) che hanno permesso al popolo napoletano di svilupparsi come sintesi armoniosa dei diversi popoli che componevano il Regno borbonico, di modo che «il napoletano è sempre il medio dialettico, che unizza le varietà alquanto tra loro opposte degli abitanti delle varie contrade del regno, ed il centro armonico cui tutte convergono. Dacché scaturisce, che in esso si personifichi al più alto grado ed in tutto il suo complesso, l’indole intellettiva e morale di quelli; e perciò resta spiegata la ragione per cui Napoli, non per capriccio dell’umano arbitrio, ma rebus ipsis dictantibus, divenne capitale del regno»[19]. Napoli dunque, dopo essere stata la capitale di un antico regno, poteva divenire, seppure temporaneamente, la nuova capitale d’Italia, proprio per quelle caratteristiche “universali” che venivano da Manna dilatate fino a diventare il tratto del carattere e della natura degli italiani.

Colpisce il linguaggio che Cenni adoperava in quelle pagine. In esse, infatti, puntando sulla centralità del cattolicesimo, il cui destino era indissolubilmente congiunto con quello italiano, trovavano spazio considerazioni sull’universalità, sul principio di esclusione, che le rendono particolarmente suggestive in quanto capaci di accompagnare un’idea di costruzione della nazione basata non sulla forza di annessioni imposte dall’alto, bensì sulla capacità di far interagire le diverse e molteplici componenti presenti riconoscendole nella loro varietà e differenza, che, anche quando si presentano contraddittori e conflittuali, possono essere armonizzati: «solo dopo che tutte sono venute in atto, ricomparisce il fondo identico di ciascuna; ma nell’epoca del loro dispiegarsi, il vario predomina sull’unità che rimane latente, la quale riapparisce solo dopo che quello si è compiutamente esplicato»[20]. In questo senso il municipalismo era stato una condizione indispensabile per ritornare all’unità, di modo che solo dopo che tutta la forza della varietà del tipo italiano si era dispiegata era potuto riapparire «il fondo identico» ed era così diventato maturo «il tempo di ricostruire l’unità nazionale». Tuttavia, il processo di unificazione non poteva essere realizzato dai piemontesi e da Torino, perché il carattere di quel popolo non era di tipo universalistico, così come non poteva essere realizzato da Firenze, ma solo dalla città più universale di tutte, quella di Giambattista Vico, dove vi primeggiavano le scienze intellettuali e la giurisprudenza. «Or come il popolo napoletano si può chiamare il centrale della nazione italiana, e dimostrammo con invincibili argomenti, Napoli essere il capo naturale di questo popolo, ne segue per fato logico, che Napoli sia per natura la Capitale ed il centro delle genti italiane, come per natura il centro di una sfera lo è anche delle sue concentriche»[21].

Come si è cercato di mostrare, la sostanziale omogeneità, soprattutto di tipo religioso, dei diversi popoli che componevano la nazione, consentiva a Cenni di sviluppare una tesi universalistica capace di garantire l’interazione tra le diverse componenti e di svolgere un’azione di collante dell’identità nazionale per cui, pur tenendo conto delle specificità e delle autonomie locali, diventava possibile costruire un’entità oggettiva, terreno di base dell’intera nazione, alimentata in primo luogo da elementi etici e culturali. Ed è proprio partendo da un tale approccio che, a mio avviso, non si può sfuggire alla suggestione di avvicinare l’universalismo di Cenni ad un’accezione morale che rende uguali tutti gli essere al di là di qualsiasi tipo di differenziazione[22]. Tuttavia va rilevato che il discorso di Cenni intorno all’identità della nazione come costruita innanzitutto a partire dall’identità dei popoli che la compongono, così come dagli ordinamenti civili e dalle tradizioni culturali che ne sono alla base, faceva riferimento ancora ad una nozione di identità di tipo aristotelico, in quanto, come emerge in qualche punto del suo saggio, l’unità realizza se stessa nel passaggio dalla potenza all’atto, dalla molteplicità all’unità della sostanza. Ciò non toglie che la dimensione ideale e normativa che qui veniva delineata sia costruita su una connotazione storicistica che la determina e le dà, in definitiva, un significato peculiare. Ed infatti colpisce l’intreccio tra i diversi approcci disciplinari che riescono a connotare il discorso sull’identità scomponendola e ricomponendola sempre mostrandone la complessità. Alla costruzione dell’identità, napoletana prima e italiana poi, partecipano, infatti, tendenze diverse e plurali che scolpiscono quell’identità in maniera originale, come sintesi di una molteplicità che può unirsi solo dopo essersi completamente dispiegata in tutta la sua forza, in modo che l’idea cenniana di identità, pur non conoscendo una vera e propria apertura al problema del riconoscimento dell’individuo singolo, si costruisce con la consapevolezza dell’importanza delle contaminazioni, delle appartenenze e delle esclusioni, delle dinamiche politiche e giuridiche.

In questo quadro sono chiaramente interessanti anche le analisi intorno alle ragioni per cui l’idea dell’unificazione non aveva attecchito immediatamente nel mezzogiorno: «Il concetto dell’unità della patria, perché universale, è ideale e metafisico, e però può attecchire solo in menti sveglie ed onorate di coltura. La moltitudine, che per quanto è più grossolana più si versa in su’ sensibili, intende generalmente il proprio comune, una buona parte giunge a comprendere la provincia, pochissimi s’innalzano fino alla nazione: ben può il concetto di unità della patria albergare in menti rozze, purché però sia tradizionale ed antico, e s’incarni nelle particolari determinazioni sensibili delle consuetudini della vita»[23]. E polemicamente Cenni si soffermava sulla convinzione, diffusa soprattutto tra gli uomini di Cavour, che i popoli del sud, vivendo «nelle tenebre della ignoranza e della corruzione, come gli uomini dello speco platonico», dovevano essere rischiarati dalla luce della scienza, della moralità e della civiltà, e commentava: «Eravamo barbari: e pure possedevamo i migliori ordinamenti civili», così come i migliori ordini amministrativi, finanziari, la migliore giurisprudenza, istruzione pubblica ecc.[24], di modo che «Napoli fu piemontizzata, e l’unità si predicò compiuta. Il popolo guardava stupefatto, e fremeva»[25].] e soprattutto la consapevolezza che il processo di unificazione aveva imboccato una strada opposta a quella auspicata. [Le leggi che avevano sostituito quelle prima vigenti, come per esempio la decentralizzazione voluta da Rattazzi (che promulgata per il Regno sardo nel 1859 fu poi estesa ai territori annessi e lasciata in vigore fino al 1865), non avevano avuto gli effetti desiderati. «Oggi è di moda la parola decentralizzazione, ma i più non capiscono di che si tratta. Se per decentralizzazione s’intende lo sciogliere i ceppi che impediscono il libero movimento delle parti, senza scapito della vita dell’insieme, essa è buona e salutare […]; ma se per decentralizzazione s’intende, quello che vogliono i radicali moderni, cioè la dissoluzione del tutto nelle sue parti, quest’ordine è morte, non vita […]. Nel corpo civile massima unità è lo Stato, vien dopo la Provincia, indi il Distretto (o circondario) di poi il Comune; ed in questo si muovono le minori unità di quegli enti morali, che la nostra legge assomigliava a sezioni de’ comuni. La legge Rattazzi ha risoluto questo organismo mercé l’autonomia quasi assoluta de’ comuni: essa è l’atomismo applicato all’amministrazione: le autorità provinciali e distrettuali (circondari) sono organi senza vita, e logicamente superflui: né il sottoprefetto né il prefetto ha ingerenza alcuna nell’amministrazione comunale: le loro funzioni rassomigliano più a quelle di notai, cerzioranti la verità dell’atto, anziché a quelli di amministratori. Ma gli atomi indipendenti costituiscono un’aggregazione, come i granelli di sabbia marina, non una vera individualità organica»[26].

Pur considerando che la polemica autonomistica, sviluppata senza alcun motivo anti-unitario, si inserisce in quella dialettica liberale fortemente polarizzata nello scontro tra accentramento e decentramento amministrativo lasciando intravedere anche i limiti della propria posizione, che emergono in particolare nella discussione sulla capitale, nella visione “Napolicentrica” (che è stata anche l’emblema di ambizioni egemoni del ceto cittadino, consumate a danno delle campagne e delle altre provincie meridionali[27]), nel ruolo di un ceto intellettuale come elemento essenziale del blocco di potere dello stato risorgimentale che ha contribuito a determinare l’immobilismo politico del mezzogiorno[28], non deve sfuggire la posizione di Cenni ha una peculiare rilevanza, perché si fa portatrice di un discorso intorno all’autonomia[29] come la cifra di una concezione dell’organizzazione dello Stato che, mi sembra, riconosce la necessità di una divisione, in senso orizzontale, della sovranità, e dunque, oltre ai pur determinanti vincoli imposti dal rapporto con la Chiesa, in grado di condurre ad una più effettiva libertà politica e ad un maggiore pluralismo. Al di là ora delle pur notevoli differenze politiche e culturali che hanno attraversato le posizioni dei democratici e degli autonomisti meridionali fautori dell’idea di portare a Napoli la capitale, un punto comune emerge con chiarezza nelle loro argomentazioni: il nuovo Stato italiano è stato fondato senza stipulare alcun patto, ma si è utilizzato un atto ambiguo, se non antidemocratico, in quanto si è costretto il mezzogiorno ad accettare una svolta accentratrice alla quale non era preparato e che non rientrava nel suo orizzonte. Per questo Federico Persico, assumendo una posizione critica nei confronti delle politiche della destra e della sinistra rappresentate nel Parlamento, poteva parlare della rivoluzione italiana del ’60 e del processo di unificazione come di «un colpo di mano», non previsto e non voluto, come una lunga sequenza di errori che «ha demolito molto e disordinato moltissimo, sì che siamo presso al precipizio»[30]. Persico scriveva queste parole dopo le elezioni del 1867 quando, con l’annessione del Veneto, le preoccupazioni sulla politica estera apparivano meno gravi e si apriva l’epoca delle riforme interne e della trasformazione dei partiti, i quali avevano cominciato a mescolarsi tra di loro tanto che lo scioglimento delle camere voluto da Ricasoli fu anche dettato dalla necessità di arrestare la confusione tra i partiti stessi e creare una nuova maggioranza stabile, di tipo conservatore. Un programma di ricomposizione politica, di «unità nazionale», già anticipato qualche anno prima in un altro saggio, L’Italia e Roma, dov’è significativa la critica mossa tanto alla destra quanto al Partito d’Azione, rappresentanti di due opposti estremismi, uno basato su forme arbitrarie di potere, l’altro sulla rivoluzione fatta programma. Tale istanza conciliatoria riguardava chiaramente anche la necessità di un nuovo rapporto tra Stato e Chiesa, dove a quest’ultima era senza dubbio concessa una posizione primaria, ma solo se liberata da ogni vincolo teocratico e legittimistico[31]. Da tale punto di vista la questione della capitale trovava ora la sua soluzione più naturale nella designazione di Roma: «Ora l’Italia gravita a Roma, non avrà pace che a Roma, Roma è il centro morale d’Italia, dal quale si dee diffondere nel resto la vera vita; e finché Roma non sarà coll’Italia, l’unità italiana si travaglierà ancora, sarà una speranza fondata, ma non un fatto: Roma o morte, insomma, mi pare una formola da accettare; ma in un senso assai diverso da quello che ebbe per i suoi autori»[32]. Ed è significativa la rivalutazione di Cavour, al quale si attribuivano in particolare due meriti: aver posto il centro della vita nazionale a Roma e aver coniato la formula di una libera Chiesa in un libero Stato, di modo che, come ha notato Passerin d’Entreves, l’adesione al grido garibaldino con cui Persico concludeva il suo saggio rispondeva all’esigenza morale e politica di trovare una via d’uscita per pacificare la nazione[33]. Le diverse chiavi di lettura del discorso di Persico, dal corporativismo all’antiparlamentarismo (basato sulla convinzione che la concentrazione del potere sia nella forma monarchica sia nella forma democratica conduce all’annichilimento delle autonomie locali), pur se inficiate da aspetti contraddittori (come per esempio la revisionistica rivalutazione del Borbone), trovavano il loro centro di gravità innanzitutto in una posizione antisocialista[34], che gli consentiva di schierarsi a favore del governo, e nell’idea che la conciliazione tra centralismo e autonomismo doveva tendere verso la costruzione di una visione organica nella quale il decentramento amministrativo e le istituzioni governative erano chiamate ad interagire tra loro, giacché se intese separatamente e isolatamente le une dalle altre, finivano solo con l’indebolire il governo e disgregare l’amministrazione. Lo Stato, dunque, doveva riuscire a muoversi attraverso i diversi centri locali e di interesse, tenendo in debito conto le prospettive e le aspettative di tutti, dalle città fino alle comunità rurali, in modo che se la città non perdeva il suo carattere propulsivo il resto del sistema, a partire dalle provincie, conservava un ruolo centrale dal punto di vista politico e amministrativo. Una prospettiva che in definitiva consente di comprendere perché l’idea di porre a Napoli la capitale abbia finito con il perdere il fascino che pure aveva goduto, soccombendo definitivamente ad una concezione che voleva l’intera organizzazione della nazione innanzitutto nelle mani dello Stato.

Cenni e Persico sono stati anche tra i redattori di un periodico ancora oggi poco conosciuto e studiato al quale anche in queste pagine non si può dedicare l’attenzione che merita. I due studiosi, infatti, sono stati tra gli animatori de «La carità», la rivista che, nata nel 1865 su ispirazione del cardinale Alfonso Capecelatro e fondata da Ludovico da Casoria, è stata una delle voci più importanti del moderatismo conciliatorista napoletano. Una prima, ancora incompleta, ricognizione delle pagine di questa effemeride mostra come in essa il tema politico traspare con grande evidenza, tanto che in più saggi si può ritrovare l’osservazione per la quale il ragionamento metafisico e lo studio delle cose umane sono le due strade in grado di condurre al vero e alla libertà del pensiero. Già nel «Programma» si poneva in luce che l’intenzione di dedicare una rivista ad una delle virtù teologali rivelava l’obiettivo principale perseguito, vale a dire intendere la carità come una «virtù unificatrice e benefica», che «stringe insieme i cuori, e li tragge con soave sì, ma irresistibile forza a beneficare»[35]. Una tale virtù unificatrice e benefica è assegnata in primo luogo a Cristo («il tipo supremo della carità»), il quale l’ha diffusa alla chiesa cattolica, l’istituzione che conserva in sé un doppio significato: «Chiesa vale radunamento; e Cattolica significa universale, cioè diffusione da per tutto»[36]. È la chiesa cattolica, dunque, che riesce a realizzare la missione di unificare e di diffondere il bene e il vero tra gli uomini, collegando il discorso metafisico alla storia, o, in termini agostiniani, «l’istoria dell’amore e la filosofia della storia»[37]. E propria facendo perno sulla distinzione tra scienza e storia il «Programma» della rivista specificava le differenze che intercorrono all’interno della storia, la quale non è da intendersi solo come il discorso intorno ai fatti della vita sociale, civile e religiosa, ma deve comprendere «tutt’i fatti di tutte le storie, religiosa, civile, scientifica e industriale; perciocché tutte hanno intime e profonde attinenze con l’amore»[38]. Impostato in questi termini il programma rivelava il suo carattere metafisico e storico-politico e indicava nel Papato il centro della nazione e della civiltà cristiana, duramente messo in discussione proprio dal dibattito politico di quel periodo. «Pensate o Italiani come oggi, la nostra Italia, che prima al mondo informata dalla carità unitiva e propagatrice vide nel suo seno congiungersi amorevolmente la religione e la civiltà, ed insieme congiunte le propagò per le nazioni della terra, oggi ancor essa incomincia a patire il travaglio di quel funesto divorzio ch’è negazione di carità. Il divorzio della patria dalla Chiesa, della ragione dalla Fede, della civiltà dalla Religione, dell’Italia dal Papato. Pensate che questo divorzio che oggi sul cominciare pur ci addolora, ci tempesta e fiacca tanto, se per avventura un giorno fosse compiuto, (che Iddio non permetta) la personalità morale d’Italia saria, peggio che illanguidita, del tutto spenta; chè non mai impunemente l’uomo divide quel che Dio congiunse»[39]. I primi contributi apparsi su «La Carità» ruotavano così intorno al tema de Il Pontificato e la vita intellettuale dell’umanità, che Enrico Attanasio ricostruiva a partire dall’idea di un’armonia universale, metafisica e storica, tra il pontificato e l’umanità, che trovava in Roma «il centro della storia universale»[40]; o ancora intorno a La separazione della Chiesa dallo Stato, che Alfonso Capecelatro studiava proponendo di sostituire la formula «libera Chiesa in libero Stato» con «Libera Chiesa con libero Stato». Infatti, mentre la prima aveva assunto i connotati della separazione e della divisione tra lo Stato e la Chiesa, la variante, che chiaramente indicava nella religione il principio indistruttibile dell’armonia, perseguiva l’obiettivo di porre in accordo Dio e l’uomo, la Chiesa e lo Stato, distinguendoli ma non separandoli: «La verità è […] che a porre in armonia la Chiesa con lo Stato, si vuol cominciare dal distinguerli; ma, distinti che sieno o bisogna armonizzarli, ovvero dire che o la Chiesa o lo Stato non sono da Dio»[41]. A partire da tali considerazioni lo stesso Capecelatro pensava ad una riforma della Chiesa che, evitando tanto i pericoli che provenivano dal razionalismo, quanto quelli che derivavano da coloro che seguivano soprattutto i dettami francesi (e quindi «credono libertà rendere lo Stato onnipotente, ovvero lo sperano tanto più libero nei negozii civili, quanto ei sarà più tirannico nei religiosi»[42]), doveva svolgersi secondo un principio che rifiuti l’idea che sia lo Stato a creare la personalità giuridica dell’individuo e dell’ente morale. «Io solo aggiungo che quando lo Stato si faccia non solo riconoscitore e modificatore nei naturali diritti per ordinarli al bene del consorzio civile, ma creatore di essi diritti naturali, la tirannide è elevata in principio, e l’uomo […] passando di cosa in cosa la trasporta facilmente da un ordine in un altro. Per lo contrario noi, gratificati dal nome di retrivi o clericali, crediamo che il diritto del possedere sia naturale all’uomo, come gli è naturale quello di camminare, di associarsi […], e che lo Stato, avendo per fine la sicurezza delle persone e delle cose, e al più il conseguimento di una certa felicità temporanea la mercè dello associamento, può dare forma giuridica e modificare i naturali diritti, ma crearli non mai. Di qui il diritto dello Stato rimane secondario e limitato; di qui sorge il principio mobilissimo della libertà individuale a petto di qualsiasi signoria civile, ed il celebre self governement degli inglesi. La teorica opposta, per lo contrario, facendo lo Stato creatore dei diritti, lo rende di necessità onnipotente e annienta (anche quando si gridi libertà) ogni libertà individuale»[43]. La lunga citazione è estremamente chiara: allo Stato veniva affidato il compito di riconoscere e rendere giuridica la persona morale, di riconoscere i diritti dei cittadini, ad esso spettava riconoscere quei diritti che sono anteriori allo stesso Stato e gli era concessa la possibilità di annientare la personalità giuridica di un individuo solo se questi si fosse opposto all’associazione comune che gli uomini devono necessariamente realizzare. «Quando ciò che mi comanda la legge è giustizia e verità o almeno applicazione e derivazione di giustizia e di verità, io mi sento libero, poiché è un principio superiore a me medesimo quel che comanda; ma quando è pretto arbitrio, o pretta volontà umana, quest’arbitrio o questa volontà, siano pure di maggioranza, di parlamenti, o di uomini eletti da me m’impediscono la libertà del respiro, e mi tolgono la dignità e la grandezza dell’uomo libero»[44]. Nei fascicoli successivi di quel primo anno della rivista Capecelatro avrebbe continuato le sue riflessioni, da un lato ampliandole al tema del rapporto tra libertà e cattolicesimo (rivendicando con forza il termine liberale per i cattolici[45] e così decisamente allontanandosi da coloro che, invece, sostenevano l’irriducibilità del cattolicesimo al liberalismo), dall’altro collegandolo alla questione delle soppressioni e delle confische del patrimonio della Chiesa, derivante proprio da quella forma di Stato giurisdizionalista che, creando a suo arbitrio la personalità giuridica dell’ente morale, la distrugge impossessandosi dei suoi averi[46].

In pieno accordo con il Programma sono anche i saggi di Enrico Attanasio su Il Papa la rivoluzione e la tirannide, Il Papa e la civiltà moderna (centrato sulla ricerca dell’armonia tra papato e civiltà), o su Il primato di Pietro e la ragione sociale[47], gli scritti dedicati all’hegelismo, la pubblicazione di alcuni inediti di Cesare Balbo, le lettere di Carlo Troya a Balbo, il resoconto delle elezioni del 1867 (dove, riconoscendo il pieno diritto dei cattolici a partecipare alle elezioni, si indicavano i criteri per la scelta dei candidati da eleggere). Detto che il 1868 segna l’anno del debutto di Persico[48], e segnalato, per lo stesso anno, un contributo di Capecelatro su La Provvidenza e il libero arbitrio nella storia, è opportuno soffermarsi rapidamente su due saggi: Roma pagana e Roma cristiana di monsignor Guglielmo Audisio e Della nazionalità della filosofia di Luigi Romano[49]. Nel primo si insisteva fortemente sulla centralità di Roma in quanto «fascio della civiltà cristiana» («Noi siamo giunti al concetto unico, adeguato, solenne dell’alma Città, due volte unificatrice e principe delle nazioni, per la spada e meglio per la Croce, due volte faro di salute al naufrago mondo»), in modo che «la virtù illuminatrice e conquistatrice folgorante nella Roma dei Cesari, per Pietro e Paolo non fu ripudiata, ma purificata e sublimata nella Roma dei Papi»[50]. Nel secondo, riprendendo il noto tema spaventiano, si cercava la via per armonizzare l’universalità della filosofia con il carattere nazionale dei sistemi filosofici. La filosofia, infatti, ha il compito di cogliere la distinzione tra soggetto e oggetto, me e fuori di me, e allo stesso tempo fissare il «nesso vitale», studiato in astratto e in concreto, che «riduce a dialettica armonia i termini opposti del soggetto e dell’oggetto»[51]. Posta la necessità di indagare innanzitutto l’elemento soggettivo attivo nella costruzione della scienza umana, e dunque di studiare l’oggetto in relazione con il soggetto, Romano metteva in luce il fatto che l’elemento oggettivo «si rivela a noi nella vita spontanea» e l’elemento soggettivo «nella vita riflessa»[52]. Mentre la spontaneità «unifica il genere umano nella doppia universalità dello spazio e del tempo», la vita riflessa, dominata dall’arbitrio, che è una «facoltà mobile a diversi e talora contrari motivi», lo divide «nelle particolarità cronologiche e geografiche» in modo da subire le influenze del mondo morale e materiale. Ed è qui che agisce la «vita di relazione» la quale, legandoci al passato con il «vincolo delle tradizioni» e al presente «col vincolo della società», evidenzia come la vita riflessa non sia ripiegamento dello spirito su se stesso e sugli elementi della vita spontanea, ma mescolanza di elementi eterogenei, «figlio del senso e dell’immaginazione», dunque non riflessione dell’Uomo in generale ma dell’uomo individuale[53]. Ed è questa considerazione la base per spiegare il tema della nazionalità nella filosofia, tema che, appartenendo alla «cerchia soggettiva modificatrice dello esplicamento della vita riflessa dell’umano spirito», estende le sue influenze in tutto il campo dell’agire umano. Infatti, laddove è l’elemento oggettivo a prevalere, come per esempio nella religione, l’oggetto risplende della sua universalità e dunque non si può parlare di nazionalità. Nell’arte, invece, dov’è il soggetto che predomina, ha una chiara influenza «lo spirito nazionale», mentre nella filosofia, che è «l’insieme delle verità nazionali, che riguardano Dio, l’uomo e il mondo, e le loro relazioni investigate e ridotte a corpo di dottrina mercè l’opera dell’umano ragionamento»[54], prevalendo l’azione della riflessione si afferma «il carattere di scienza nazionale» che la separa dalla «pura conoscenza». In un sistema filosofico, dunque, agiscono «le influenze del genio nazionale di quel popolo, nel quale nacque e venne educato il suo autore», e che contribuiscono a trasformare tutti quei caratteri che costituiscono una nazionalità. Tale caratteristica, tuttavia, non altera né modifica l’universalità della stessa filosofia, la quale va sempre rispettata e conservata: «Che s’ei avvenisse […] che i cultori delle nazionali discipline convenissero un dì nella teoria della immutabilità e della assolutezza del vero, e s’accordassero in riconoscerlo colà dove ei solamente risiede, ciascun d’essi allora si porrebbe ad investigarlo da quel lato speciale e per quella via che fosse più conforme alla propria natura, e all’indole del proprio tempo e del proprio paese, senza negare in pari tempo e gli altri lati e le altre vie, e in generale tutti que’ modi nei quali si potesse altrimenti istituire la scienza. Or l’indole della proprio paese è appunto la nazionalità; la quale così s’introdurrebbe nella Filosofia, e le imprimerebbe la propria impronta, ma nel medesimo tempo ne rispetterebbe la integrità e l’oggettività e la purezza»[55].

Se fin qui i contributi sui quali ci si è soffermati mostrano una stretta adesione al «Programma» della rivista, è con Nicola Taccone-Gallucci che, all’indomani del 20 settembre 1870, si sferra un più duro attacco al governo italiano che voleva L’Europa senza il Papato: «L’Europa senza il Papato è la rivoluzione arrivata alle sue ultime conseguenze; la rivoluzione, che ha per testa il comunismo, per ventre il socialismo, per coda il dispotismo»[56]. E l’anno successivo, lo stesso Taccone-Gallucci, celebrando, in occasione del Giubileo, Pio IX e il suo tempo, avrebbe messo in luce i drammi che affliggevano quell’epoca di cui il Papa era il protagonista: «il dramma politico dell’Italia, il dramma sociale dell’Europa e il dramma universale della Civiltà e della Chiesa. In ciascuno di essi combattono l’un contro l’altro l’egoismo e la Carità»[57]. Taccone-Gallucci rappresenta senza dubbio la penna più affilata e aggressiva de «La Carità» ed è l’assertore convinto che le varie e complesse problematiche di quei difficili anni andavano risolte con la mediazione della Chiesa e non della ragione, la quale aveva trasformato la questione sociale in eresia ideale (il razionalismo), religiosa (il panteismo), economica (il socialismo e il comunismo), politica (il naturalismo)[58]. «Il Pontificato è la potestà visibile della Provvidenza divina, ed il principio generatore di ogni legittima sovranità»[59], è un fattore di incivilimento, di verità e di giustizia, e ad esso è affidato il compito di risolvere la questione sociale sia condannando le false dottrine sia cercando «unità e fratellanza nella religione, armonia fra l’autorità e la libertà nella politica, miglioramento e perfezionamento nella civiltà»[60]. Contrastata principalmente da due forze, l’Impero (le monarchie assolutiste) e la rivoluzione[61], le autocrazie e la democrazia, la questione sociale si poneva così tra il cattolicesimo e il socialismo, il bene e il male, tra i quali la guerra è permanente «e la conciliazione è impossibile»[62]. Queste posizioni, espresse intorno al 1870, sembrano in qualche modo allontanare momentaneamente «La Carità» da quel moderatismo conciliatorista che, come si è accennato prima, è stato uno dei tratti caratterizzanti la rivista, lontana dall’intransigentismo dei redattori di «Scienza e fede», ispirati da un forte tomismo. Forse il segnale più chiaro della preminenza dell’ala moderata è dato proprio dalla collaborazione di Enrico Cenni, e tuttavia qui va ripresa un’osservazione di Cosimo Damiano Fonseca il quale ha notato come il gruppo di studiosi che lavorava intorno a «La Carità», pur accettando pienamente la tradizione che esaltava il ruolo del Papato nella storia d’Italia e d’Europa, colse anche le sollecitazioni che provenivano dalla scuola economico-giuridica occupandosi degli studi storici applicati alla spiegazione delle istituzioni, delle leggi, degli ordinamenti sociali. E proprio qui Fonseca ha individuato un’importante differenza tra i conciliatoristi napoletani e il gruppo degli intransigenti, giacché mentre per questi ultimi «lo stato liberale era l’erede spirituale del giurisdizionalismo, di cui rinverdiva i fasti giuridici, politici e culturali», per i neoguelfi, invece, come si è visto a proposito dei saggi di Capecelatro, l’accettazione della nuova realtà politica implicava una «illimitata fiducia e fondata speranza nelle possibilità di un superamento delle rigide forme di preclusione imposte dallo Stato liberale nei confronti della Chiesa cattolica», di modo che «una discussione sul piano storiografico del giurisdizionalismo e dei suoi problemi ed istituti trovava sterile rispondenza»[63]. Ciò implica anche che gli intransigenti di «Scienza e fede», intervenendo nelle discussioni senza orientarsi verso la ricerca di possibili accordi futuri, erano maggiormente interessati alle problematiche concrete poste dal presente, e quindi toccavano le questioni al centro del dibattito con una maggiore sensibilità politica che consentiva loro di porsi sullo stesso piano della storiografia laica. Da questo punto di vista è interessante riprendere il confronto che si sviluppò intorno alla lettera Saepenumero considerantes inviata da Leone XIII il 18 agosto 1883 ai Cardinali De Luca, Pitra e Hergenröther per annunciare l’apertura agli studiosi dell’Archivio vaticano e della Biblioteca apostolica. In particolare, la lettera metteva in luce come quell’apertura offriva la possibilità di un contributo nuovo e originale alla storia, e in particolare alla storia d’Italia, la quale, studiata «nelle sue vere fonti con animo sgombro di passioni e di pregiudizii», si sarebbe rivelata «la più splendida apologia della Chiesa e del Papato»[64]. Su questo punto mi limito a due osservazioni: da un lato mi sembra occorra notare come la lettera di Leone XIII insista sul fatto che il tentativo della rivoluzione italiana di sconfiggere la Chiesa e il Papato era fallito, come poteva essere sostenuto proprio a partire dalla questione di Roma, «destinata ad essere perpetuamente domicilio e sede de’ successori di S. Pietro, perché di qui, come da centro, potessero con piena indipendenza provvedere al governo della Chiesa in tutto il mondo»[65]; dall’altro mettere in luce la sensibilità con cui la storiografia ecclesiastica napoletana seguiva la questione dell’edizione delle fonti, tema affrontato da Giuseppe Carignano in un saggio dedicato proprio alla lettera del Santo Padre, nel quale si affermava che l’apertura di quegli archivi dava la possibilità, già avvertita da Cesare Balbo, di trovare «un centro comune che rannodi e spieghi gli avvenimenti» capace di rendere possibile «un’ampia Storia d’Italia»[66]. E lo stesso Carignano aggiungeva, alcuni anni prima della nota polemica tra Villari e Croce: «La storia non è più arte sola, ma è un’arte e una scienza», ha bisogno cioè di oltrepassare i fatti particolari per rivolgersi a quelli generali, che hanno avuto «grande importanza nel cammino della civiltà» e che devono essere narrati in modo «che se ne vegga la natura, l’indole e gli effetti che produssero». «Spiegare le istituzioni, le leggi, gli ordinamenti sociali è supremo scopo degli studii storici. La storia in luogo di parlare ai giovani di chinea e di tante diverse contese giurisdizionali che riguardavano altri tempi ed altri fatti, narri invece la nobile missione che la Chiesa ebbe nel medio evo, di assimilare, fondere, incivilire le varie genti, continuando poi l’opera sua o nell’estremo Oriente o nel mondo allora nuovamente scoperto»[67].

Al di là ora di qualsiasi valutazione si voglia dare delle concezioni che abbiamo analizzato e della mancanza di veri e propri programmi e progetti politici[68], occorre dire che alcune di esse sono state in ogni caso capaci di esprimere lo sforzo di elaborazione di un’idea di identità e di un progetto per la città del tutto autonomo, non contrassegnato da una mera volontà egemonica. E il cuore di questa proposta stava nella centralità dell’idea della politica come amministrazione, ricerca delle leggi e degli ordinamenti capaci di formare uno Stato libero e autonomo nelle sue diverse articolazioni, in modo da dare una chiara direzione alla trasformazione dello Stato e alla rivoluzione tenendo conto della complessa e contraddittoria fisionomia dell’intero paese e assicurando l’“assimilazione” del popolo nello Stato. Un programma la cui realizzazione andava al di là delle divisioni di partito e che doveva prevedere, come aveva lucidamente avvertito Francesco De Sanctis in sintonia con le riflessioni di Silvio Spaventa[69], una riforma complessiva che si preoccupasse «del benessere, della moralità, dell’istruzione del nostro paese»[70]. Tuttavia, nonostante le forze e le energie spese in quel breve giro di anni, e probabilmente a causa dei limiti che sono stati chiaramente individuati[71], Napoli non è riuscita ad assurgere ad un ruolo veramente positivo e propulsore, e da allora ha continuato a vivere in condizioni “straordinarie” che l’hanno sempre caratterizzata negativamente. Se le richieste di autonomia sono tramontate ben presto (e bisognerà attendere Luigi Sturzo per la loro rinascita nell’ambito cattolico-democratico), il testimone dell’organizzazione federalistica è passato successivamente nei programmi di «Libertà e Giustizia» del 1867, dove le istanze meridionalistiche venivano coniugate con quelle autonomiste e socialiste, in modo che i principi proudhoniani e bakuniani si incontravano con quelli pisacaniani in un discorso di dissoluzione dello Stato centralista e autoritario a favore delle rivendicazioni di politiche locali volte alla rinascita del mezzogiorno. Da questo punto di vista l’avanzamento del socialismo e il distacco di una parte della borghesia dal compromesso stipulato con la monarchia avrebbe individuato in un’altra città, Milano[72], il centro propulsore della lotta nazionale per la democrazia, e i programmi federalistici e autonomistici avrebbero trovato un loro esito originale nelle analisi di Gaetano Salvemini, il quale, chiudendo un’epoca e aprendone un’altra, avrebbe affrontato il tema del meridionalismo e dell’arretratezza del sud puntando sul decentramento amministrativo, sull’azione politica a favore dei contadini, sulla critica all’immagine di un meridione idealista, ingenuo e disinteressato, sulla necessità di rilanciarne il ruolo non in chiave antinazionale, ma per indebolire le forze reazionarie dominanti. «Nessuna illusione è più fallace e pericolosa di questa, che un governo unitario, purché democratico, possa risolvere la questione meridionale. In un Parlamento unitario, la parte “più arretrata” si troverà sempre accanto alla “più avanzata” con gli stessi diritti, e i voti dei camorristi meridionali si sommeranno sempre coi voti dei moderati settentrionali […]. Nel Mezzogiorno le masse non potranno da un momento all’altro passare dalla inazione politica alla politica democratica; e il tempo, necessario alla formazione dell’educazione politica del Mezzogiorno, sarebbe messo a profitto dai reazionari per contrastare in tutti i modi l’educazione stessa. In un paese federale, nel quale cioè tutti gli interessi comuni sieno amministrati dalle masse, e non da impiegati onnipotenti, viventi in una capitale lontana, nella quale bisogna avere un rappresentante possibilmente autorevole e ricco, in un paese non unitario le masse sono spinte dai loro stessi interessi giornalieri a prendere il loro vero posto di combattimento: nel federalismo la sovranità popolare può funzionare bene anche con un limitato capitale originario di educazione politica, e l’esercizio quasi giornaliero della sovranità permette una più intensiva educazione delle masse»[73]. Il ritardo civile del Mezzogiorno, diventato “questione nazionale”, avrebbe aperto un nuovo e più complesso capitolo della storia d’Italia e tuttavia con sempre maggiore difficoltà, soprattutto dopo il secondo dopoguerra, sarebbe riusciuta ad affermarsi un’immagine autonoma e originale della città, la quale, troppo spesso schiacciata da schemi e stereotipi, modelli culturali e di partito imposti dall’esterno, solo quando si è sentita, come storicamente è, una grande metropoli europea è riuscita a dare una risposta concreta ai bisogni reali e ordinari del vivere cittadino, alla sua separatezza e diversità, alla sua complessità. Ma qui, dove ancora più importante diventa il discorso intorno alla borghesia, si apre tutt’altra storia che esula da queste riflessioni.


[1] Un primo risultato di questa ricerca, parzialmente riproposta in questo saggio, si può leggere nel mio lavoro Napoli capitale. Un dibattito filosofico-politico all’alba della “nuova Italia” (con un’appendice di scritti di Giuseppe Ferrari, Giuseppe Ricciardi e Federico Persico), in «Civiltà del mediterraneo», numero monografico, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 18-19 (2010-2011), pp. 41-167.

[2] Cfr. G. Galasso, Tradizione, metamorfosi e identità di un’antica capitale, in Napoli, di G. Galasso, Roma-Bari, 1987, in part. pp. XI-XXV.

[3] Per una ricostruzione dei dibattiti che impegnarono il Parlamento italiano dalla convenzione di settembre al trasferimento della capitale cfr. Storia del Parlamento italiano, vol. VI: Dalla convenzione di settembre alla breccia di Porta Pia, a cura di G. Sardo, Palermo, 1969.

[4] Su alcune distinzioni tra federalismo e autonomismo cfr. P. Varvaro, L’orizzonte del Risorgimento. L’Italia vista dai prefetti, Napoli, 2001, p. 120. Sul tema cfr. anche il recente contributo dello stesso autore intitolato “Uno dei fatti più straordinari della storia”: spunti inattuali su accentramento e unificazione del Mezzogiorno, in «Studi e ricerche socio-territoriali», 1, 2011, pp. 13-28.

[5] Cfr. A. Anzilotti, Neoguelfi ed autonomisti a Napoli dopo il sessanta, in «Nuova Rivista Storica» IV (1920) (ma qui si legge da Id., Movimenti e contrasti per l’unità italiana, a cura di A. Caracciolo, Milano, 1964, pp. 255-276) e soprattutto F. Tessitore, Aspetti del pensiero neoguelfo napoletano dopo il sessanta, Napoli, 1962.

[6] Tema chiaramente di grande rilievo al quale ha dato un contributo importante il famoso saggio di E. Renan, Qu’est-ce qu’une nation?, conferenza tenuta alla Sorbona l’11 marzo 1882 (tr. it., Che cos’è una nazione? E altri saggi, introd. di S. Lanaro, Bari, 1993), secondo il quale la nazione non è un mero agglomerato di individui, ma una conscience, una personne: «La nazione, come l’individuo, è il punto d’arrivo di un lungo passato di sforzi, di sacrifici e di dedizione. Il culto degli antenati è fra tutti il più legittimo; gli antenati ci hanno fatti ciò che siamo. Un passato eroico, grandi uomini, gloria (mi riferisco a quella vera), ecco il capitale sociale su cui poggia un’idea nazionale» (p. 19).

[7] Intervenendo a favore delle Convenzione con un discorso tenuto al Senato del Regno il 2 dicembre 1864 (era stato nominato nel 1862), Manna riprese un’obiezione del conte Sclopis, che si era chiesto perché l’unificazione non poteva essere condotta dal Piemonte; sostenendo: «D’altra parte, perché si ha a dire che quelle contrade le quali hanno mancato di forza propria per sollevarsi abbiano perciò perduto tutto, intelligenza, esperienza e tradizioni per ricostituirsi quando siano risorte? Perché si dee andare a queste conseguenze estreme? Mi permetta dunque che io dica che, siccome le prerogative dell’uno si possono ben coordinare colle prerogative dell’altro, e siccome in questa grande impresa nazionale tutti i valori debbono essere computati, tutte le forze debbono entrare in azione, io conchiuda che da tutto questo non nasce la contraddizione che egli diceva di vedere nelle mie parole, ma anzi nasce accordo ed armonia» (Discorso pronunziato al Senato del Regno il 2 dicembre 1864 dal comm. Giovanni Manna sul progetto di legge pel trasferimento della capitale a Firenze, Torino, 1864, pp. 23-24).

[8] Napoli, 1862 (ma qui si cita dall’edizione pubblicata in G. F. De Tiberiis, Le ragioni del sud, Napoli, 1969, pp. 239-285).

[9] Ivi, p. 239, e aggiungeva: «Si scorge allora che sebbene i grandi caratteri di nazionalità siano impressi da natura e formino il principio e il fondamento della futura unità, la fusione e unificazione vera è invece opera di ingegno, di virtù e di pazienza straordinaria».

[10] Per Manna la fusione si presenta «sotto la forma delle nazionalità, come assimilazione di elementi omogenei che naturalmente si attraggono e si stringono insieme» (ivi, p. 251).

[11] Ivi, p. 264.

[12] Gli elementi morali e tradizionali di italianità provengono dall’asse «che corre da Firenze a Roma ed a Napoli e si dilata e s’irradia d’ogni intorno lungo la valle del Po e lungo le coste del Tirreno, dell’Adriatico e dello Ionio», vale a dire la linea che ha costituito le origini della civiltà italica (ivi, p. 272).

[13] Ivi, p. 273.

[14] Ivi, p. 276.

[15] Ivi, p. 277.

[16] Ivi, p. 278.

[17] Cfr. E. Passerin d’Entrèves, L’ultima battaglia politica di Cavour, cit., p. 46. Come ha osservato N. Cortese, Luigi Blanch ed il partito liberale moderato napoletano, in Id., Il mezzogiorno ed il Risorgimento italiano, Napoli, 1965, pp. 273-325, l’esperienza politica di Luigi Blanch, avversando i metodi di lotta mazziniani, era assai vicina ad un municipalismo liberaldemocratico.

[18] E. Cenni, Napoli e l’Italia. Considerazioni, Napoli, 1861, p. 8. È opportuno ricordare che una delle sue opere più note, gli Studi di diritto pubblico, edita nel 1870, è alla base delle riflessioni che Croce svolse nella sua Storia del Regno di Napoli. Infatti proprio la lettura di quell’opera di Cenni consentì a Croce di penetrare «le latebre della storia meridionale». «Il vecchio regno di Napoli mi si trasfigurò innanzi agli occhi della mente non solo in uno degli stati più importanti della vecchia Europa, ma in tale che aveva sempre tenuto, nell’avanzamento sociale, il primato, o almeno uno dei primi posti». «Mi stava vivo nel ricordo Enrico Cenni, cattolico e liberale, napoletano e italiano, giurista e filosofo, così come l’avevo conosciuto negli ultimi suoi anni, con l’alta persona, i canuti capelli, gli occhi scintillanti, e mi pareva non solo comandarmi con la sua autorità l’accoglimento di quei concetti, ma, col richiamarmi ai doveri della pietà filiale, farmi vergognare di avere altra volta tenuto in proposito assai diverso pensiero. Pure, alla fine, non senza qualche riluttanza, il mio spirito critico riprese il sopravvento, e cominciai mentalmente a discutere col bravo Cenni, come se egli fosse ancora vivente ed io presso al suo letto d’infermo, dove mi recavo a visitarlo.

Sì – gli dicevo, – è certamente meraviglioso a primo aspetto […], che lo stato che splendette modello a tutti gli alti d’Europa nel dodicesimo e tredicesimo secolo, il primo stato opera d’arte (come lo chiamò Burckhardt), dove prima si ebbe legislazione non barbarica e amministrazione e finanza ordinate, dove prima governarono sovrani ch’erano uomini di stato, dove prima s’affermò l’idea della monarchia assoluta, laica e illuminata, donde con Taddeo di Sessa partì per la prima volta l’appello dal papa al concilio, si formasse e si affermasse proprio in questo lembo meridionale d’Italia, che nei secoli seguenti parve il paese più disordinato e mal regolato, famoso o piuttosto malfamato per la sua debolezza costituzionale e per la cattiva amministrazione e per il brigantaggio, e in genere per le arretrate condizioni di civiltà, e che ancora oggi si mostra in condizioni inferiori rispetto ad altre parti che compongono il regno d’Italia» (B. Croce, Storia del Regno di Napoli [1925], Bari, 1966, pp. 1 e 5). «Così io venivo tra me e me riesaminando e discutendo e disfacendo la storica gloria del vecchio regno di Napoli, amorosamente e industriosamente architettata dal Cenni. Pure, nel corso stesso di questa disamina, le sostituzioni fantastiche, le metabasi dottrinali, le argutezze o acutezze, i sofismi, le esagerazioni, che scoprivo, non mi cagionavano quello sdegno che segue alla riconosciuta offesa della verità, ma mi rendevano pio verso l’autore della non salda e fondata costruzione. Sentivo in lui e negli altri come lui, uomini probi e di alto cuore, legati da gentile affetto alla patria napoletana, – e ritrovavo in me stesso, come ho detto, durante la lettura, in certi primi moti di consenso e di speranza, – il bisogno, l’affanno, lo sforzo, affatto legittimo, di dare a quell’affetto il conforto di una tradizione […]. Altri uomini, al tempo del Cenni, s’ispiravano e si ricongiungevano agli ideale e agli esempi della libertà inglese e della rivoluzione francese, alle tradizioni guelfe dei Comuni e alle immagini di Firenze e del Savonarola, e alla storia della monarchia, che si faceva sempre più italiana, della casa di Savoia. Ma coloro che avrebbero voluto mantenere autonomo l’antico regno di Napoli o unirlo solo con legame federale agli altri stati italiani, e che, dopo l’avvenuta fusione unitaria, chiedevano che in qualche modo serbasse una propria fisionomia e una propria parte e azione nella nuova vita italiana, non potevano sottrarsi alla necessità di ricercare i tratti di questa fisionomia nel suo passato e di ricomporla idealmente e illustrarla e difenderla» (ivi, pp. 34-35).

[19] Ivi, p. 44. Nella descrizione del carattere napoletano siamo molto lontani da una visione della città come un «paradiso abitato da diavoli» e che pure, come si è accennato, già aveva cominciato a girare soprattutto tra gli uomini di Cavour. Sul tema cfr. B. Croce, Un paradiso abitato da diavoli, a cura di G. Galasso, Milano, 2006.

[20] Ivi, p. 70.

[21] Ivi, p. 92. La descrizione del carattere napoletano, fatta da Cenni nella seconda appendice agli Studi di diritto pubblico, intitolata Sui diversi giudizi recati sopra Napoli e sui napoletani, e delle diverse cagioni loro, Napoli, 1870, pp. 281-312, si articola tenendo conto delle tre figure principali della cultura meridionale, rappresentanti dell’autorità che prevale sulla ragione (Tommaso), della ragione che avversa l’autorità (Bruno), dell’accordo tra ragione e autorità (Vico), che si svolgono e si confrontano con tre differenti momenti della storia della filosofia. «Il movimento intellettuale del popolo napoletano, precipuamente dal 1500 a tutto il 1700, a non voler considerare che quella parte che abbraccia la filosofia, il diritto e l’economia pubblica, lasciando da canto quello nelle provincie della matematica, delle scienze naturali, della storia e delle lettere, massime della latina e dell’antiquaria, che è pure di non lieve momento, riesce così vasto da sgomentare fino i più arditi» (ivi, p. 307). Il movimento di idee e lo svolgimento delle istituzioni civili ha reso «il popolo napoletano il meglio provvisto di ordini civili, anche tenendo ragione de’ loro difetti» (ivi, p. 308).

[22] Cfr. in generale sul tema dell’universalismo S. Benhabib, La rivendicazione dell’identità culturale. Eguaglianza e diversità nell’era globale, Bologna, 2002, in part. p. 49 e sgg. Tuttavia, pur senza prescindere da questo motivo, non si può trascurare un’osservazione che Cenni fa nella prima parte della sua saggio, laddove, a proposito dell’accentramento nella capitale della vita giudiziaria e amministrativa, aggiungeva: «le leggi sono naturale portato delle società in cui nascono, perocchè le società fanno le leggi, e non queste quelle, come credono alcuni novatori a sproposito […]. Onde se gli ordini civili del regno accentrarono in Napoli le forze vive della nazione, e non di meno attecchirono così bene, che organicamente svolgendosi, pervennero fino a’ principii di questo secolo, ciò fu appunto perché rispondeano alla natura della società civile de’ popoli del napoletano» (E. Cenni, Napoli e l’Italia, cit., p. 45). Accanto al primato intellettuale, Napoli ha dunque un fondamentale primato giuridico e amministrativo, confermato dalle sue tradizioni e dai codici realizzati, che gli consente di proporsi come il luogo nel quale allocare la nuova capitale. È utile anche ricordare che sul tema Napoli e l’Italia nel 1860 era stato edito anche un opuscolo di Tommaso Perifano, pubblicato da «Il Nazionale» del 10, 11, 14, 19 e 22 ottobre 1860.

[23] Ivi, pp. 170-171.

[24] Ivi, pp. 174-175.

[25] Ivi, p. 179.

[26] Ivi, p. 181.

[27] F. Tessitore, Aspetti del pensiero neoguelfo napoletano dopo il sessanta, cit., p. 49.

[28] Su questo è importante ricordare le osservazioni di G. Dorso, La rivoluzione meridionale, Torino, 1925: «Ma l’autonomismo non è né particolarismo né separatismo. È invece una dottrina politica diretta a raggiungere una più intima e profonda unità. Sotto questo profilo è anzi l’unica corrente che continui idealisticamente la tradizione del Risorgimento e soltanto i ladri del Nord, ed i loro manutengoli politici e giornalistici, potrebbero in malinconici accessi atrabiliari negare questa verità […]. La soluzione del problema meridionale quindi non potrà avvenire se non sul terreno dell’autonomismo. Ogni altro tentativo o ci riconduce nel vecchio sistema della carità statale o minaccia di sbalzarci nel separatismo reazionario». E chiaramente sono interessantissime le distinzioni che Dorso fa tra le tre teorie germogliate dalla critica all’unitarismo, vale a dire l’autonomismo, il federalismo e il regionalismo, dove il primo è essenzialmente un sistema e un metodo di lotta politica, mentre gli altri «eccedono il campo politico sconfinando sul terreno costituzionale od istituzionale» (ivi, pp. 225-237).

[29] Cfr. E. Rotelli, L’alternativa delle autonomie. Istituzioni locali e tendenze politiche nell’Italia moderna, Milano, 1978; ma sul tema cfr. R. Ruffilli, La questione regionale dall’unificazione alla dittatura. 1862-1942, Milano, 1971, i saggi raccolti nel volume Federalismo regionalismo autonomismo, a cura di A. Albertoni e M. Ganci, Palermo, 1989, R. Romanelli, Centralismo e autonomie, in Id., Storia dello Stato italiano dall’unità a oggi, Roma, 1995, pp. 125-186 e Storia e percorsi del federalismo. L’eredità di Carlo Cattaneo, a cura di D. Preda e C. Rognoni Vercelli, 2 voll., Bologna, 2005.

[30] F. Persico, Governo o rivoluzione, Napoli 23 marzo 1867, p. 10.

[31] Cfr. F. Tessitore, Aspetti del pensiero neoguelfo napoletano dopo il sessanta, cit., il quale ha scritto, a proposito del rapporto tra Stato e Chiesa: «Una Chiesa che è il principio della vera libertà di coscienza e di pensiero, che non intacca la indipendenza e la sovranità dello Stato nel suo ordine, ma anzi ne potenzia le finalità, ammonendo che il sentimento religioso è una forza sociale di non lieve conto, perché da esso dipende il soddisfacimento delle istanze, sempre più impellenti, di una comprensione dei mali sociali, in una giustificazione che sappia rinnovare le ragioni di una vera e propria teodicea sociale» (ivi, p. 55).

[32] F. Persico, L’Italia e Roma, Napoli, 1865, p. 17.

[33] E. Passerin d’Entreves, L’ultima battaglia politica di Cavour, cit.; ma sul tema cfr. anche Id., Il cattolicesimo liberale in Europa ed il movimento neoguelfo in Italia, in Nuove questioni di storia del Risorgimento e dell’Unità d’Italia, Milano, 1961, vol. I, pp. 565-606 e i lavori di R. Moscati, La fine del Regno di Napoli (Documenti borbonici), Firenze, 1960, N. Cortese, Napoli e l’unità italiana nel 1860, in Atti del XXXIX Congresso di storia del Risorgimento, Roma, 1961, pp. 261-269.

[34] «I politici liberali si possono ridurre a tre tipi o specie. I rivoluzionari puri, che partendo dal principio della sovranità del popolo tirano diritto alla repubblica democratica, sociale e finalmente comunistica. I rivoluzionari annacquati, o i costituzionalisti a uso francese, che accettando alla leggiera le teorie dei democratici puri e soprattutto la sovranità popolare, vorrebbero rappezzare una monarchia, un senato, un censo, un principio d’autorità pur che sia. La terza schiera di statisti, soli degni del nome, sono gl’inglesi. Non fanno né teoriche, né libri, né filosofie, né organizzazioni sociali; governano sapientemente secondo il bisogno, e pensano all’Inghilterra e non alle loro ubbie riformatrici» (F. Persico, Governo o rivoluzione, cit., p. 7).

[35] Programma, in «La carità», anno I (1865), quad. I (ottobre), p. 1. Ha già fatto riferimento a questa rivista e al suo programma F. Tessitore, Aspetti del pensiero neoguelfo napoletano dopo il sessanta, cit., pp. 55-56 nota.

[36] «La carità», I (1865), pp. 1-2.

[37] Ivi, p. 7.

[38] Ibid. E infatti se la storia religiosa è attuazione dell’amore divino tra gli uomini, la storia civile «è attuazione dell’amor naturale, cui la religione avvalora, sublima e aggrandisce; la scientifica è manifestazione progressiva dell’amore, dacchè i progressi delle scienze sia razionali sia fisiche non altro importano che o l’accertamento o la scoperta delle soavi armonie del creato, specchi ed immagini alla stess’ora dell’infinita e assoluta armonia della Carità incerata; la industriale e commerciale mira al vincolo che lega l’uomo alla natura sottostante, in quanto essa gli serve come strumento alla vittoria sopra lo spazio e il tempo che dividono gli uomini, e ai nuovi legami che attraggono e uniscono più strettamente e più da vicino gli uomini e gli stati» (ivi, pp. 7-8).

[39] Ivi, pp. 18-19

[40] E. Attanasio, Il Pontificato e la vita intellettuale dell’umanità, ivi, p. 30.

[41] A. Capecelatro, La separazione della Chiesa dallo Stato, ivi, p. 186.

[42] Id., La riforma della Chiesa e l’Italia, ivi, p. 268.

[43] Ivi, pp. 269-270.

[44] Ivi, pp. 271-272.

[45] Cfr. A. Capecelatro, Libertà morale e libertà civile, ivi dove tra l’altro sostiene che «nelle parole di libertà, di progresso, di amore del popolo, di fraternità, di eguaglianza sono alcune scintille di luce, che quantunque derivino da noi, rendono belli i nostri nemici, e che noi tanto meno dobbiamo cedere agli avversari, quanto più vediamo ch’ei ne abusano. Insomma per restringermi oggi al liberalismo, io arditamente rivendico per noi tutta la efficacia vera e nobile, che è in questa parola ed in quest’idea» (ivi, p. 346).

[46] Cfr, A. Capecelatro, Soppressioni e confische in Italia, in ibid., pp. 417-435. Al tema il Capecelatro dedicava poi un’ampia ricostruzione del dibattito che si era svolto in Parlamento (cfr. Due tornate del Parlamento italiano, in «La carità», II (1866), pp. 257-281), animato dalla convinzione che era «grande la confusione delle dottrine e de’ principi nell’italiana assemblea» e che la legge in discussione invece di unire avrebbe contribuito a dividere. Cfr. anche La libertà della Chiesa in Italia, in «La carità», III (1867), pp. 237-252.

[47] In «La carità», III (1867), pp. 533-564, dove il radunarsi dei cattolici a Roma intorno alla «cattedra di Pietro» mostrava una moltitudine sterminata piena di tutte «le varietà dell’umanità; varia di razza, di favella, di nazione, di clima; tanto numerosa e tanto varia ella è, che porge ritratta in sé medesima un’immagine bellissima dell’Infinito. Ma cotesto multiplo sì vario, non è scompigliato, anzi è composto ad una meravigliosa armonia» (ivi, p. 551).

[48] F. Persico, La storia della filosofia e l’opera di Monsignor Laforet, in «La carità», IV (1868), pp. 353-375

[49] In «La carità», VI (1868), rispettivamente pp. 5-13 e 315-325.

[50] Ivi, p. 5 e 13.

[51] Ivi, p. 317. «Distinguere ed unire, pur serbando dopo l’unione la distinzione, ecco in che sta riposta la vera e vitale armonia della scienza e della vita» (ivi, p. 320).

[52] Ibid.: «Spontaneità dunque e riflessione, intese, l’una come il prodotto della natura, e l’altra come quello dello spirito libero e cosciente, ecco i due cardini su’ quali si gira tutta l’umana vita: quella dà la materia, la forza e la direzione generica del nostro operare; questa vi pone la forma, e gli attuali impulsi, e i particolari indirizzi».

[53] Ivi, p. 318.

[54] Ivi, pp. 321-322.

[55] Ivi, p. 324.

[56] Taccone-Gallucci, L’Europa senza il Papato, in «La carità», X (1870), p. 320. Cfr. Della vita e delle opere del barone Nicola Taccone Gallucci, Reggio Calabria, 1906, scritto probabilmente dal fratello Domenico, vescovo di Nicotera e Tropea.

[57] «La carità», XI (1871), p. 511.

[58] «Così la questione sociale generata nel razionalismo, si svolge nella religione col panteismo, in politica col naturalismo, in economia col socialismo e col comunismo, Dove ci conduca questo complesso di negazioni ce ne fa chiari pur troppo lo stato miserando della moderna civiltà, in cui tutto è lotta, tutto di squilibrio» (Taccone-Gallucci, La questione sociale e il Pontificato di Pio IX, in «La carità», XI (1871), p. 521.

[59] Ivi, p. 522.

[60] Ivi, p. 527.

[61] «La rivoluzione è l’io-personale posto in luogo della Divinità; è l’io-individuo posto in luogo del Dio-Creatore; è l’io-utile posto in luogo di Dio-carità; è l’io-fatalista posto in luogo del Dio-provvidenza. Ogni rivoluzione nasce dalla brama che ha l’individuo di diventare tre cose, Dio, sacerdote, e re; e di riunire in sé medesimo una triplice sovranità, la divina, la sacerdotale e la regia» (ivi, p. 533).

[62] Ivi, p. 542

[63] C. Damiano Fonseca, Appunti per la storia della cultura cattolica in Italia – La storiografia ecclesiastica napoletana (1878-1903), in Aspetti della cultura cattolica nell’età di Leone XIII, Atti del Convegno tenuto a Bologna il 27-29 dicembre 1960, a cura di G. Rossini, Roma, 1961, p. 493.

[64] Il Papato e gli studi storici. Lettera del S. P. Leone XIII agli e.mi Cardinali De Luca, Pitra ed Hergenröther intorno agli studi storici, in «La carità», XXXV (1883), p. 98. Leone XIII diede un impulso notevole agli studi storici: si veda il parziale elenco di opere segnalate su «La carità», XXXVI (1884), pp. 140-155, tra le quali i Regesta Leonis X del cardinale Hergenröther.

[65] Ivi, p. 109. Per Leone XIII, infatti, il Papato non doveva essere considerato contrario agli interessi italiani, esso era invece «un prezioso pegno di prosperità e di salute, poiché la natura del Papato è in ogni tempo la stessa, universalmente generosa e benefica» per cui non era né utile né prudente mettersi in conflitto con un potere «a cui le promesse di Dio e le testimonianze della storia assicurano la perpetuità» (ivi, p. 111).

[66] G. Carignano, Gli studi storici e la lettera del Santo Padre, in «La carità», XXXV (1883), p. 186.

[67] Ivi, p. 188. Sulla stessa linea le osservazioni di Capecelatro il quale, insistendo sul «fatto storico» primario, «Cristo venuto nel mondo», come il principio che aveva messo in moto «la parte più colta e civile del genere umano» e aveva prodotto «la storia della Chiesa» (fino ad affermare che essendo stato il Cristianesimo in grado di creare «una storia ecclesiastica», la storia era stata creata dalla Chiesa cattolica), sottolineava la centralità dei documenti, della critica e dell’ingegno, il quale andava perfezionato attraverso gli studi filosofici («Anzi la storia senza questa filosofia, essendo dimezzata e guardata con gli occhi fissi in terra, non risulta che un curioso e vano avvicendarsi di fatti, mentre che con questa filosofia [quella di Agostino] per lo contrario apparisce un moto ordinato e armonioso, nel quale si muovono liberamente gli uomini per giungere, sì per le vie del bene che per quelle del male, agli alti fini voluti dalla Provvidenza») e l’amore per la verità («Vogliamo tutti il vero, sta bene e ci piace; ma a che vale questo amore se è congiunto con una ostinatissima e ingiusta volontà di trovare una scienza vera senza il Vero assoluto, una morale vera senza il Bene assoluto, un’arte vera senza il Bello assoluto, una storia vera senza il riflesso né del Vero né del Bene, né del Bello assoluto; o che è il medesimo, di trovare scienza, morale, arte e storia vera senza quel Dio ch’è la verità di tutto ciò ch’è vero?»); (cfr. A. Capecelatro, Gli studi storici e Papa Leone XIII, discorso letto il 12 ottobre 1883 in occasione del VI Congresso cattolico italiano in Napoli, edito in «La carità», XXXVI (1884), pp. 30-31, 36 e 38).

164 A. Scirocco, Governo e paese nel Mezzogiorno nella crisi dell’unificazione (1860-61), Milano, 1963 ha sostenuto che negli anni intorno all’unificazioni le tre forze politiche che agivano all’interno del mezzogiorno, i moderati, gli autonomisti e la sinistra democratica, non sono riuscite a formulare un programma che affrontasse i problemi concreti posti dall’unificazione. Infatti, alla borghesia meridionale, incapace di porsi come classe dirigente, non le riuscì «di armonizzare gli interessi esistenti con gli interessi nuovi, di difendere gli ordinamenti meridionali degni di essere conservati», mentre «gli autonomisti, limitandosi ad una serie di proteste senza proposte costruttive, non riescono a formare un raggruppamente politico», e la sinistra, che «non ha un programma meridionale», si dimostra non in grado «di dare coerenza e direzione a forze politico-sociali ed è costretta a cedere l’iniziativa soprattutto perché nel momento favorevole si dimostra incapace di sfruttarla. Fu l’inconsistenza politica che mise in secondo piano la classe dirigente locale, più volte invitata ad assumere la responsabilità di riordinare il paese» e ad indurre i piemontesi ad assumere la responsabilità del mezzogiorno (ivi, pp. 324-325).

165 Ricordo solo il famoso discorso che Silvio Spaventa tenne presso l’Associazione costituzionale di Bergamo il 7 maggio 1880 dal titolo Giustizia nell’amministrazione e raccolto da Benedetto Croce nel volume S. Spaventa, La politica della destra. Scritti e discorsi, Bari, 1909, pp. 53-105

166 F. De Sanctis, I partiti e l’educazione della nuova Italia, a cura di N. Cortese, in Id., Opere, vol. XVI, Torino, 1970 pp. 70-71 (è il discorso tenuto al Parlamento il 4 novembre 1874), ma qui si cita da F. Tessitore, Lo storicismo politico di De Sanctis (1979), in Id., Contributi alla storia e alla teoria dello storicismo, Roma, 1997, vol. III, p. 82, che ha insistito sul nesso De Sanctis-Spaventa nella trasformazione del senso e del significato della politica.

167 Cfr. G. Galasso, Il Mezzogiorno nella storia d’Italia. Lineamenti di storia meridionale e due momenti di storia regionale, Firenze, 1984, che ha insistito sulle radici quaranttotesche del neoguelfismo autonomista, sulla distinzione tra il moderatismo e il liberalismo («Il moderatismo può, infatti, esprimersi da un atteggiamento passivo di attaccamento a schemi tradizionali e di prudente difesa dei propri interessi; il liberalismo, cavouriano (come quello di cui molti meridionali in esilio si compenetrano) o spaventiano che sia, comporta un atteggiamento attivo volto a promuovere una più larga e libera convivenza e a ritrovare una più alta cerchia di interessi in cui quelli propri siano, più che difesi, ampliati e incrementati», ivi, p. 314), sulla mancanza di una vera e propria politica da parte dei democratici, ai quali sfuggiva che le forze moderate «erano cresciute all’interno del paese tra il ’48 e il ’60 e che detenevano l’effettivo potere ancor prima dell’arrivo di Garibaldi; e che se il trapasso dal vecchio al nuovo era avvenuto senza grandi scosse, questo si doveva all’egemonia sostanziale che esercitavano i gruppi liberali soprattutto nelle campagne» (ivi, p. 321). Condizioni che, secondo Galasso, conducevano all’affermazione di gruppi socialmente influenti di carattere moderato.

168 Ciò non significa, chiaramente, sminuire il ruolo che Milano ha avuto prima e dopo il processo di unificazione. Su questo punto, e in particolare proprio sulla scelta della capitale nella contrapposizione tra Roma e Milano, cfr. F. Bartolini, Rivali d’Italia. Roma e Milano dal Settecento a oggi, Roma-Bari, 2006, in part. pp. 79-119. Di rilievo un brano de «La Perseveranza» del 21 novembre 1870: «Nessuno ha avuto più desiderio di Roma che noi; nessuno la venera più; nessuno è più inclinato a volerla capo della penisola. Ma a un patto, che questo si senta membro della penisola, e non presuma d’esserne tutto il corpo, solo perché ha affaticato meno d’ogni altro membro a trovarvi il suo posto; a un patto, che nel capo il cervello abbondi, e non già, come pare, manchi quasi affatto. L’Italia è padrona di Roma; non Roma d’Italia. Diciamo il vero; se in Roma, diventata capitale d’Italia, non si dovesse ritrovare quella sobrietà di spirito pubblico, per la quale Torino è rimasta maravigliosa in sino ad una ultima ora fatale, e Firenze è rimasta e rimane ammirabile sempre, sarebbe malinconico e triste quel giorno che la sede del Governo dovesse trasmigrare per la terza volta» (cfr. F. Bartolini, op. cit., p. 103).

169 G. Salvemini, La questione meridionale e il federalismo, in «Critica sociale», 16 luglio, 1 agosto e 16 agosto 1900, poi in Id., Scritti sulla questione meridionale (1896-1955), Torino, 1955, pp. 103-107. Più in generale cfr. anche i saggi ora raccolti nel volume Il federalismo nella cultura politica meridionale, a cura di L. La Puma, Manduria. Bari-Roma, 2002.

Maurizio Martirano

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