Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

Napoli e Sicilia. Dominazioni straniere o cittadinanza allargata

Posted by on Nov 9, 2017

Napoli e Sicilia. Dominazioni straniere o cittadinanza allargata

 Nel primo articolo che ho scritto per Briganti, hocercato di dare una prospettiva più ampia alle possibili cause della caduta del Regno delle Due Sicilie, questa volta cercherò di fare lo stesso ma riguardo a un altro perno fondamentale per la comprensione della nostra storia: il senso di appartenenza.

Molto si è fatto in Italia e in Europa per svilupparlo, problema che fu centrale nel periodo fascista.

Senza volerci dilungare su analisi del ventennio quello che possiamo sicuramente dire è che lo scopo non è stato raggiunto. La tanto agognata italianizzazione non è avvenuta. Molti dicono che il problema sia stato il forte campanilismo che vige in Italia, altri ancora affermano sia colpa delle dominazioni straniere passate, in generale ragioni non troppo onorevoli che gettano nello sconforto le nuove generazioni, le quali si trovano a competere ad esempio con tedeschi e francesi, con un forte senso di appartenenza.

Ero in Sicilia qualche mese fa e le persone, anche le più colte, nell’illustrarmi le bellezze della loro terra non mancavano di precisare quale fosse il “dominatore” che le avesse costruite. A Napoli, un ragionamento analogo lo si fa parlando prima dei coloni greci, angioini e aragonesi poi e per finire i Borbone che, tutto sommato, erano napoletani, mi verrebbe da aggiungere ironicamente.

In Sicilia, si parla dei conquistatori arabi, normanni, aragonesi, ricordandoci che prima c’erano greci e fenici, che poi sono diventati cartaginesi. Insomma, un crogiuolo di popoli che polverizzano teoricamente la nostra identità o meglio la nostra presunta identità moderna fondata su forti connotazioni razziali. Ma è sempre stato così?

Andando a ricercare in fonti antecedenti ai nazionalismi, è possibile trovare una diversa chiave di lettura. Ad esempio:

“Rammenti adunque di esser nato con noi; e che questo cielo e questa bellissima parte d’Italia ti ha nel mondo prodotto per uno scudo e per un porto, alle percosse ed a’ naufragi suoi. Vinca nel cuor tuo la pietà delle miserie nostre; abbraccia gli innocenti fanciulli; solleva le spaventate madri; ferma quel sangue, di cui il tuo natio terreno, le domestiche case e li divini altari vedrai sozzi e bruttati; e finalmente, non sofferire che, cacciati dalla necessità, vivente te, corriamo per salute nel grembo di gente barbara, aliena di lingua e varia di costumi; come senza fallo avverrà, non accettandoci tu per servi tuoi”. (Camillo Porzio, La congiura dei Baroni, Edizioni Osanna Venosa 1989 – p.108)

A parlare secondo la testimonianza del Porzio è Antonello Sanseverino, Principe di Salerno, che si rivolge a Federico I d’Aragona nel contesto della congiura dei Baroni e precisamente nel 1485. Risulta evidente che appartenere alla casata d’Aragona non implica essere straniero, così era per il Principe di Salerno e sicuramente così sarà stato per gli abitanti del Regno all’epoca. Cosa minacci poi il Principe qualora Federico non accettasse di diventare Re è un argomento più ampio che al momento esula dal nostro contesto.

 

Sin dai tempi dell’Impero romano, il concetto di cittadinanza non aveva una connotazione razziale, ma giuridica. Le popolazioni del mediterraneo, fortemente mischiate tra loro, concepivano il senso di appartenenza in base alla loro tradizione. Ed è questa forse la parola magica: “tradizione”. Il connotato di similarità, l’elemento di empatia con il vicino, colui che condivide le stesse pratiche. Questo amore per la tradizione è ancora fortissimo in Italia e in special modo nelle regioni meridionali. Il mondo moderno, dai nazionalismi in avanti è riuscito a sostituire la parola “antico” con la parola “vecchio”, facendo passare di colpo la tradizione da qualcosa di cui aver cura a qualcosa di cui sbarazzarsi. Si è confusa la modernità con la mancanza di tradizione, come se ci fosse bisogno di un uomo nuovo che ripudi il passato perché giudicato rozzo, ignorante e in fin dei conti poco “cool”. Tuttavia, la voglia di tradizione sembrerebbe essere ancora dominante nell’ex Regno. A un giapponese in gita a Napoli basterebbe girare un giorno con la maglia di Maradona e incitare gli azzurri allo stadio per essere visto dal popolo un napoletano. Non sto esagerando, sono pienamente convinto che l’esperimento riuscirebbe, il popolo napoletano è curioso e ragiona per integrazione, non per esclusione. L’importante è avere fede: in Maradona, in San Gennaro e sicuramente nell’Altissimo.

Dignità accademica

Ma l’elemento più importante per tenere in piedi un senso di appartenenza è la dignità. La lettura della storia secondo cui siamo stati sempre dominati dagli stranieri lede il nostro orgoglio ed è una zavorra inaccettabile per un popolo che necessita di una rinascita di spirito dalle proprie ceneri. C’è bisogno, quindi, di recuperare dignità e per farlo bisogna innanzitutto riscoprire le basi del nostro pensiero fortemente radicato con la nostra tradizione. Nel XVIII secolo, quando l’illuminismo e i nuovi filosofi francesi iniziavano ad avere un peso nel panorama culturale italiano, Gian Battista Vico, faro della cultura napoletana, rimaneva fermo nella convinzione che la propria tradizione fosse più profonda e alta; non a caso a Napoli era considerato un patriarca. Nel suo viaggio in Italia, Goethe parla del suo incontro con un grande legislatore napoletano, Gaetano Filangieri, queste le sue parole in merito:

“Egli non tardò a intrattenermi su uno scrittore d’altri tempi, nella cui insondabile profondità questi moderni italiani amici delle leggi trovano edificazione e conforto; il suo nome è Giovan Battista Vico, e lo tengono per superiore a Montesquieu. Da una rapida scorsa al suo libro, che mi fu consegnato come una reliquia, ho avuto l’impressione che vi siano esposti sibillini presagi del bene e del giusto, il cui avvento è previsto, o prevedibile, sulla base di severe meditazioni intorno a ciò che ci è stato tramandato e a ciò che vive. È molto bello per un popolo possedere un tal patriarca; un giorno i tedeschi avranno in Hamann un breviario non dissimile”. (J. Wolfgang Goethe, Viaggio in Italia,  BUR Classici Moderni 1991,  p. 197)

Mi soffermerei sulla frase “È molto bello per un popolo possedere un tal patriarca“, Goethe alla fine del XVIII secolo sente la mancanza per la sua patria di un riferimento culturale come Vico, mentre i napoletani in modo orgoglioso possono vantarlo superiore a Montesquieu. Ovviamente oggi Vico viene studiato poco e molti non sanno nemmeno chi sia. Ma ancora alla fine del XIX secolo Francesco De Sanctis, anche lui delle province napoletane, spiega in modo esemplare il ruolo di Vico nei confronti della nuova cultura europea:

“Predicavano la ragione individuale, ed egli le opponeva la tradizione, la voce del genere umano. Gli uomini popolari, i progressisti di quel tempo, erano Lionardo di Capua, Cornelio, Doria, Calopreso, che stavano con le idee nuove, con lo spirito del secolo. Lui era un retrivo, con tanto di coda, come si direbbe oggi. La coltura europea e la coltura italiana s’incontravano per la prima volta, l’una maestra, l’altra ancella. Vico resisteva. Era vanità di pedante? Era fierezza di grande uomo? Resisteva a Cartesio, a Malebranche, a Pascal, i cui Pensieri erano «lumi sparsi», a Grozio, a Puffendorfio, a Locke, il cui Saggio era la «metafisica del senso». Resisteva, ma li studiava più che facessero i novatori. Resisteva come chi sente la sua forza e non si lascia sopraffare. Accettava i problemi, combattea le soluzioni, e le cercava per le vie sue, co’ suoi metodi e coi suoi studi. Era la resistenza della coltura italiana, che non si lasciava assorbire, e stava chiusa nel suo passato, ma resistenza del genio, che cercando nel passato trovava il mondo moderno. Era il retrivo che guardando indietro e andando per la sua via, si trova da ultimo in prima fila, innanzi a tutti quelli che lo precedevano. Questa era la resistenza del Vico. Era un moderno e si sentiva e si credeva antico, e resistendo allo spirito nuovo, riceveva quello entro di sé”. (Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana [1870], Morano, Napoli 1890, p. 314)

Dignità territoriale

Esistono molti altri esempi di dignità accademica ma veniamo ad un altro punto altrettanto fondamentale per sfatare il mito della dominazione straniera: la dignità territoriale. Per farlo partiamo da una provocazione:

Federico II, detto di Svevia, era siciliano?

La storiografia moderna tende a rispondere negativamente, cerca di spostare l‘attenzione guardando da una prospettiva scorretta. Innanzitutto Federico sicuramente parlava arabo, la lingua della scienza e della cultura al suo tempo. Sicuramente Federico si sentiva siciliano in quanto è lì che è cresciuto è quel popolo che ha amato e a quel popolo ha donato la prima vera grande costituzione europea: le costituzioni di Menfi. Quello che dobbiamo assolutamente assimilare è che essere siciliano all‘epoca non voleva dire essere di colore olivastro con occhi neri e capelli magari ricci. I tratti somatici non erano contemplati, si diventava siciliani vivendo la Sicilia e per la Sicilia. L‘intera concezione di cittadinanza nel mediterraneo era legata all’idea di condivisione della tradizione. Nessuno dei siciliani avrebbe utilizzato l’appellativo “straniero” per indicare Federico. È questo il grande inganno della nostra storia, chiamiamo stranieri quelli che non lo erano. Ci chiediamo per quale vigliaccheria abbiamo lasciato questi stranieri al comando per secoli e l‘unica risposta possibile che ci viene in mente è che forse eravamo semplicemente inetti. Se invece cambiamo prospettiva e li pensiamo come cittadini allargati tutto appare più semplice. Si capisce anche in modo più chiaro la vicenda dei Vespri siciliani dove Pietro d‘Aragona è considerato un siciliano allargato e quindi legittimo erede al trono. Agli inizi del XVI secolo, ci fu la concreta possibilità per Napoli di non far parte più di un vasto impero mediterraneo quale quello aragonese e la classe dirigente si interrogò molto sull’eventuale isolamento. Molto convincente a tal riguardo è la tesi esposta da Porzio Camillo che riporto: 

“…non fia per avventura indarno (è importante ndr) il ricordare che lo stato regio, di tutti gli altri il più eccellente, ne’ secoli ov’egli ha avuto luogo, di rado fu senza quelli uomini che oggidì son chiamati Baroni i quali, benché secondo la diversità de’ tempi e delle regioni abbiano anche variato di nome e di potenza, di effetto nondimeno sono stati sempre gli stessi; e parvero a’ romani sì naturali e sì congiunti ai regni, che perciò Regoli gli denominarono… questa sorte di persone a molti regni è stata di nocumento, ed a molti di giovamento: hanno giovato i Baroni a’ regni grandi e potenti; ma a piccioli e deboli hanno nociuto sempre: il che dall’umana ambizione è avvenuto; la quale, per essere senza termine e misura, né contenta di parte alcuna di autorità, insino al supremo grado, ch’è il reale, gli ha fatti aspirare. Pur, dov’egli per l’altezza sua si è lor dimostro inaccessibile, non tentarono con l’opere di salirvi giammai, ma col desiderio solamente… stupefatti da quell’altezza, e diventati umili, si sono sforzati di venerarlo e, come si è detto, di giovargli. Il contrario è accaduto qualora è stato sì depresso che gli abbia invitati ad ascendervi; perché del contìnovo o l’hanno occupato o travagliato”. (Camillo Porzio, La congiura dei Baroni, Edizioni Osanna Venosa 1989 – p.47-48)

Un’analisi lucida e precisa della condizione di Barone, i famosi Regoli per i romani, che possono essere di giovamento per i Regni solo se inquadrati in una dimensione ampia, altrimenti, a causa dell’innata e irrefrenabile ambizione umana, possono gettare nella confusione e nel disordine lo stato regio generando povertà e non ricchezza. L’equilibrio di un paese necessita che la figura del Re sia avvertita come inaccessibile dall’aristocrazia in modo che essa non possa reputare di poterla rimpiazzare. L’impero Aragonese garantiva tale condizione al Regno di Napoli legittimando la posizione del Re nei confronti delle Baronie del Sud Italia.

Per lo stesso periodo nei libri di storia viene presentata la “dominazione” aragonese come un momento di forte sottomissione dei Regni di Napoli e Sicilia, perché così non viene detto per Alessandria d’Egitto?

Quando durante la fase cristiana dell’Impero romano, seppur subordinata alla giurisdizione dei Cesari, manteneva uno statuto speciale e la propria lingua (il greco)?

Per un cittadino di Alessandria far parte dell’Impero romano non era certamente poco dignitoso, non sentiva la sua autorità minacciata rimanendo lui un alessandrino. La Metropoli continuava ad essere uno dei maggiori poli economici, culturali e politici del mediterraneo. Sicuramente ci saranno stati gli scontenti, come ovunque e come su ogni argomento, ma certamente la sua appartenenza a Roma era accettata e vantaggiosa in quel periodo. Quei romani erano inclusivi non esclusivi.

Allo stesso modo, la Napoli aragonese manteneva la propria lingua e le proprie leggi, perché mai situazioni simili in contesti non diversi vengono interpretate in modo opposto?

Com’è possibile che sotto una dominazione descritta come opprimente si possa vivere un periodo fiorente come lo ebbe Napoli nel XVII secolo?

Purtroppo quando si parla della Napoli aragonese ci si sofferma solo sui problemi di dettaglio ed eventuali scaramucce tra potentati locali e mai sulla visione di insieme ovvero dal punto di vista imperiale. Per produrre ricchezza e benessere bisogna commerciare e per farlo durante i secoli che vanno dal XV al XVIII bisogna necessariamente appartenere ad uno dei due massimi schieramenti mediterranei ovvero l’impero ottomano e l’impero aragonese. Di conseguenza la volontà di Napoli di far parte dell’Impero aragonese è una scelta ovvia dal punto di vista degli interessi ma che non lede per nulla la propria dignità. In pratica la situazione non era molto dissimile da quella prospettata per Alessandria. Si era Regno all’interno di un impero: non c’era assenza di dignità anzi quest’appartenenza dava valore alla posizione sempre mediterranea del Regno.

Spero vivamente quindi che un giorno la guida turistica di Sicilia non parli delle splendide opere dell’isola come costruzioni di lontani e presunti dominatori ma ne parli come pienamente siciliane e che si senta in cuor suo un po’ fenicio, un po’ greco, un po’ romano, un po’ bizantino, un po’ arabo, un po’ normanno, un po’ spagnolo, un po’ tedesco e perché no: Siciliano.

 

 

Parmenide, fondatore della scuola filosofica di Elea (oggi Ascea, nel Cilento). Troppo spesso, la scuola di Elea viene erroneamente presentata come non collegata al nostro patrimonio; la si associa, invece, solo alla Grecia.

Parmenide, fondatore della scuola filosofica di Elea (oggi Ascea, nel Cilento). Troppo spesso, la scuola di Elea viene erroneamente presentata come non collegata al nostro patrimonio; la si associa, invece, solo alla Grecia.

 

https://www.altaterradilavoro.com/wp-content/uploads/2017/11/Chiesa-di-San-Giovanni-degli-eremiti.jpg

Chiesa di San Giovanni degli eremiti

Admin

fonte

Briganti.info

Submit a Comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.