Napoli racconta Picasso
A Napoli, nella Reggia-Museo di Capodimonte, la straordinaria mostra “Parade”, curata da Sylvain Bellenger e da Luigi Gallo, presenta non solo uno stupefacente sipario dipinto, che è la più grande opera di Picasso (metri 17 x 10 ), ma anche una rassegna artistica del periodo in cui il pittore andaluso lo creò. In quel periodo, era il 1917, di cui quest’anno cade il centenario, si colloca anche il viaggio del famoso artista a Napoli, e la mostra evidenzia l’influenza che la città ha avuto su di lui.
Per capire storicamente la questione Picasso-Napoli, forse è bene prenderla alla lontana. Parlando della contestazione, che inizia nella seconda metà dell’Ottocento, alla classica prospettiva toscana, che, nata nel Quattrocento, poi, dopo i secoli del Barocco, aveva rinnovato la sua gloria nel Neoclassicismo sette-ottocentesco. Questa contestazione è, quindi, anche una reazione al Neoclassicismo.
Era il tempo, quello del Neoclassicismo sette-ottocentesco, in cui prima i giacobini, sotto il dominio della Dea Ragione, e poi Napoleone, sotto la dittatura di un unico capo, volevano unire l’Europa. Gli si opposero il Romanticismo e il Nazionalismo delle varie monarchie europee e del sentimento popolare.
Nell’arte, la contestazione alla classica prospettiva razionale tese alla distruzione del suo geometrico spazio euclideo e gettò il seme dell’arte contemporanea. Così l’Impressionismo che, come assunto, privilegiò la visione immediata del mondo, la prima impressione, quella antecedente all’intervento della ragione (e il più fedele a questo assunto fu Claude Monet – cfr. “Impression, le lever du soleil”). Così poi l’Espressionismo, che deformò le cose (cfr. Vincent Van Gogh) secondo il sentimento dell’artista. Così il Divisionismo, il Primitivismo, l’Esotismo, il Fauvismo (cfr. lo splendido Henri Matisse) … e via dicendo.
Ma la negazione più decisa della classica prospettiva razionale del geometrico spazio euclideo fu appunto il Cubismo, che proprio della ragione si servì per contestarla.
La prospettiva classica è una costruzione razionale che si basa su questo geometrico spazio euclideo, uno spazio-scatola, cioè uno spazio a tre dimensioni (altezza, larghezza e profondità). In pittura, questa prospettiva privilegia la profondità, per cui le linee di profondità, ad esempio tutte le linee parallele delle pareti laterali di una stanza, convergono verso un unico punto, cioè, secondo la regola delle parallele, verso l’infinito.
Questa indicazione di un irraggiungibile infinito suggerisce a Liliane Peduto, la mia amica francese docente all’ “Orientale”, l’esistenza, nella prospettiva classica, di una tendenza a un mondo ultraterreno, a Qualcosa di trascendente. Il Cubismo, invece, distrugge questa prospettiva e il suo spazio e quindi nega anche l’esistenza di un Ente trascendente.
Il pittore cubista parte da osservazioni razionali e condivisibili. Ogni corpo – sembra dire – è un solido e, come tale, ha una superficie che lo avvolge, la sua buccia. Volendo conoscere tutto intero questo corpo solido, il pittore cubista gli gira intorno e riporta nel quadro i vari pezzi di questa buccia, sottili fogli trasparenti, accatastandoli gli uni sugli altri. E crea una realtà vuota, priva di reale contenuto.
Il Cubismo, volendo con la ragione conoscere il mondo, lo rende irriconoscibile. E profetizza il vuoto opinionismo corrente nella nostra attuale società, cioè le pretenziose frammentate conoscenze superficiali di una massa ignorante.
Liliane, esperta della letteratura francese, accosta il Cubismo al Nouveau Roman, che, con le sue descrizioni razionalmente precise, minuziose e ossessive di tantissimi ben studiati particolari di una qualche realtà, ne fa perdere il senso.
Tuttavia, dapprincipio, Picasso che, insieme a Braque, è considerato l’iniziatore del Cubismo, dipinse, come nelle “Demoiselles d’Avignon” (1907) solo alcune facce della realtà. Soltanto più tardi optò per il più rigoroso cubismo, che tendeva a riportare nel quadro quanti più possibili frammenti della superficie di un corpo solido, rendendolo, a causa della sua conseguente irriconoscibilità, quasi un oggetto astratto. Allora poi ricorse a dei correttivi dell’astrazione, come il collage e l’inserimento, nell’opera d’arte, di frammenti di realtà: un foglio di giornale, un pezzo di carta da parato o anche un elemento di legno, che aggiungeva il suo rilievo alla bidimensionalità della superficie del quadro.
Nella mostra “Parade” sono presenti vari aspetti del Cubismo con opere di Picasso e dell’italiano Fortunato Depero. Vi sono anche i disegni preparatori del grande sipario, dei costumi e del trucco dei personaggi, eseguiti da Picasso che, oltre lo scenografo, fu pure il costumista del balletto “Parade”. Vi sono in mostra pure disegni e fotografie fatte da Jéan Cocteau, lo scrittore che ne fu autore del testo. Molti sono gli elementi scelti per farci risentire l’ambiente artistico in cui, nel 1917, nacque “Parade”.
Il 1917 fu una data fatidica per Picasso, perché il viaggio a Napoli modificò la sua mentalità e la sua arte e, di conseguenza, la cultura artistica europea.
Che cosa Picasso trovò a Napoli? Che cosa di Napoli amò? Il suo popolo, e la sua cultura popolana, proprio quella alla quale oggi molti storcono il naso. Amò la plebe, la “plebe napoletana”, quella che, secondo i benpensanti, non fa parte della società civile, perché è andata poco a scuola. Eppure questa “plebaglia” aveva una cultura profonda, che veniva da secoli di storia.
Perché Napoli è la città che ha la più lunga continuità storica del mondo occidentale, per cui così ha potuto conservare la sapienza antica. Quella che viene dall’antica Magna Grecia e che fu salvata dall’oppressione distruttiva delle città magnogreche, operata dai baroni angioini, perché i Re d’Angiò, nel 1266, resero Napoli capitale di un regno. E capitale fu Napoli per sei secoli ancora.
Picasso ammirò questo popolo che guardava e viveva il mondo con un’immediata apprensione della realtà, priva di complicazioni razionalistiche, perché qui ciascuno aveva una indiscussa fede nelle apparenze reali, perché sapeva che quello che guardava era vero, perché anche gli altri, i suoi vicini, lo guardavano e lo sapevano.
E i suoi vicini erano il popolo che la lunga storia della città aveva formato, amalgamandolo e donandogli quella cultura e quella mentalità, che, d’altronde, aveva trovato corrispondenza nella stessa colta filosofia empirista meridionale, da Parmenide a Vico. Qui non c’era bisogno di contestare la prospettiva e il suo spazio scatola. Napoli, città nata dal mare, aveva una visione ampia del mondo e nella mente uno spazio ampio, curvo, come il panorama del suo golfo.
A Napoli, mentre fioriva il futurismo, la pittura tradizionale napoletana aveva espresso il movimento in questa ampia e curva concezione dello spazio. La pittura tradizionale napoletana ha sempre rifuggito la prospettiva classica. Ha usato una prospettiva diversa, che, secondo i professoroni benpensanti, era sbagliata (cfr. “Lo spazio a 4 dimensioni nella’arte napoletana – la scoperta di una prospettiva spazio tempo” – ed. T. Pironti – 2014).
Picasso genialmente lo comprese e realizzò proprio nel sipario di Parade una sorta di spazio ovoidale, per il quale l’apparente disordine del palcoscenico e delle sue doghe di legno acquistano un senso, concordandosi tra loro per comporlo. Quindi a Napoli non ci fu bisogno per Picasso di contestare alcunché. Neanche l’Infinito ultraterreno della prospettiva classica né la sua trascendenza.
L’aneddoto che fa dire da Jean Cocteau al riluttante Pablo che voleva restare a Roma “A Roma c’è il Papa ma a Napoli c’è Dio” ha un significato profondo. L’immanenza della divinità, la consapevolezza del sacro nella quotidianità. È questo il profondo valore del Presepio, quando, mentre nasce Gesù, più vivace è la vita tra i pastori che guardano le pecore e la stella e tra i commensali che stanno insieme nell’osteria, che mangiano e bevono vino.
Perché Dioniso più che Apollo è la divinità che, ombrifero prefazio del Vero, a Napoli si tramutò in Gesù Salvatore. I pagliacci, sul sipario rappresentati intorno a un tavolo durante una pacifica siesta post-prandiale, ricordano i commensali nell’osteria del Presepio. E ciascuno di loro è un personaggio reale. Nella donna con il cappello è rappresentata Mary Picford, la silfide con le ali è Olga Khokhlova, la ballerina di cui Picasso si era innamorato e che sposò nel 1918. Arlecchino rappresenta il ballerino coreografo Massine e il marinaio napoletano il russo Sergej Djagilev, il famoso impresario dei “Balletti russi” e del balletto “Parade”.
Mentre il negro con le braccia conserte è Igor Stravinsky, che sarà poi autore delle musiche del balletto “Pulcinella”, commissionatagli da Djagilev, che volle che si servisse, ammodernandole, delle musiche napoletane di Giovanni Battista Pergolesi. Picasso ne sarà lo scenografo e così insieme porteranno il Pulcinella napoletano nel mondo.
La mostra “Parade” esprime tutto ciò e altro ancora. E, per rendere più evidente e vivo il rapporto tra la Napoli popolana e Picasso, il cast degli organizzatori ha arricchitola la mostra con un presepio, dei pastori, dei pupi e ha introdotto a Capodimonte i posteggiatori napoletani, cantanti di antiche canzoni e artisti di strada, scelti dall’Associazione Musicapodimonte.
Al direttore della Reggia-Museo di Capodimonte Sylvain Bellenger si è affiancata il direttore del Conservatorio San Pietro a Majella Elsa Evangelista, che ha programmato una serie di concerti intitolata “La musica racconta Picasso”. Una serie appunto ispirata “ai sentimenti e agli entusiasmi che il pittore spagnolo provò durante il suo soggiorno napoletano, dove rimase affascinato dalla freschezza della quotidianità e dalla vivacità della vita popolare napoletana… e della cultura napoletana, primitiva, dinamica e popolare ma vera”. Come scrive Elsa Evangelista che, con la sua musica, sta raggiungendo un grandissimo successo.
Come tutta la mostra, che, tra i numerosi visitatori, conta molti turisti stranieri. Sembra che a Napoli stia per tornare il turismo dei tempi di Picasso, quando, dopo il trauma dell’Unità, nonostante la guerra, il turismo si stava riprendendo. Come testimoniava l’agenzia dell’American Express, che, con la sede nei pressi dell’albergo Vesuvio, dove Picasso alloggiò, era la più attiva tra quelle in Italia. Ma poi, l’ultimo ufficio del suo “Servizio clienti” nel dicembre del 1997, chiuse. Tempi bui, allora. Speriamo stia per tornare la luce.
Adriana Dragoni
fonte
agenziaradicale.com