Napoli spagnola o Napoli ispanico?

Gianandrea de Antonellis
Una scelta politica, non linguistica
Quando, nel 1998, Silvio Vitale iniziò la traduzione del fondamentale saggio storico di Francisco Elías de Tejada sul Regno di Napoli, prese anche una decisione che tuttora non manca di suscitare qualche perplessità.
Il titolo originale del saggio è infatti Nápoles hispánico che, tradotto letteralmente, suonerebbe Napoli ispanico: quindi al maschile – perché relativo al Regno e non alla sola città – ed inoltre con un riferimento al concetto di Hispanidad ben più complesso del semplice richiamo alla Spagna.
Nella cultura – e nella lingua – italiana, esistono più modi di riferirsi al mondo ispanico: in passato – fino a metà Novecento – era molto usato il termine iberico (e ibero-americano, adesso soppiantato dal termine ispano-americano e soprattutto dal francesismo latino-americano[1]). Attualmente il termine iberico è utilizzato soprattutto con una connotazione geografica, che comprende, oltre alla Spagna, il Portogallo[2].
Del tutto assente il termine peninsulare[3], per evitare la per altro naturale confusione con la penisola italica, e ben poco usato il termine castigliano per indicare la lingua spagnola ufficiale: nella cultura italiana spagnolo soppianta castigliano (esistono forse dizionari di castigliano nelle librerie?) e la maggior parte delle persone considera catalano e galiziano come semplici dialetti del castigliano[4] (solo il basco è – giustamente – ritenuto dai più una lingua vera e propria).
Se il termine castigliano è dunque poco usato (se non nel senso strettamente geografico – o eventualmente storico, con riferimento al regno di Castiglia) ancor meno fortuna ha avuto il termine castizo e il suo derivato casticismo: si pensi che nell’unica traduzione italiana del saggio di Miguel de Unamuno En torno al casticismo (1943) il titolo è stato reso – e per di più da una casa editrice che ha stretti legami con la Spagna! – con la locuzione Cultura e Nazione[5].
Se, come dicevamo, nell’uso italiano corrente il termine iberico ha essenzialmente una connotazione geografica, il termine ispanico ne ha piuttosto una linguistica: «Oggi, sull’esempio dello spagnolo hispano, la parola è spesso adoperata (come anche l’aggettivo ispanico e il sostantivo ispanità) con riferimento a tutti i popoli di lingua e civiltà spagnola, cioè Spagnoli e Ispano-americani», scrive l’enciclopedia Treccani (voce ispanico), che alla voce ispanità conferma una tale impostazione essenzialmente glottologica usando questa definizione: «L’insieme delle popolazioni di lingua spagnola e, in riferimenti storici, la comunità dei popoli che costituivano l’impero spagnolo».
Non è un caso che il più importante studioso italiano del periodo ispanico del passato, Benedetto Croce, non abbia quasi mai usato nei titoli dei propri saggi l’aggettivo ispanico, ma solo quello spagnolo (o, più esattamente spagnuolo)[6].
Tornando al saggio di Francisco Elías de Tejada, non si può quindi negare che la traduzione più corretta – da un punto di vista linguistico – di Nápoles hispánico sia Napoli ispanico. Allora perché modificare tale termine? Si tratta solo di una svista, di un errore iniziale sorto con il primo volume e quindi protratto nella traduzione per esigenze di continuità?
No. Silvio Vitale era ben conscio di quanto stava facendo e decidendo di imporre anche ai suoi collaboratori l’utilizzo del termine spagnolo, anziché ispanico, lo fece per un ben preciso motivo. Per comprenderlo, bisogna fare un passo indietro.
L’antispagnolismo come categoria risorgimentale
Il Risorgimento italiano, unico caso di unificazione nazionale fatto contro e non in nome della religione del popolo[7], è nato in nome di una pretesa lotta allo “straniero”. La ricerca del “nemico”, per un movimento elitario e forzato quale fu il cosiddetto Risorgimento italiano, è stato dunque un passaggio fondamentale per giustificare i vari tentativi “spontanei e popolari” di rovesciamento dei governi legittimi, culminati con l’aggressione militare sabauda nel 1860.
Esemplificativo, all’interno di tale ricerca, è il romanzo per eccellenza della lingua italiana: I promessi sposi (1827, revisione 1840) di Alessandro Manzoni (1785-1873). L’opera del Conte lombardo proponeva il parallelo Spagnoli del Seicento/Austriaci dell’Ottocento, sottintendendo che al malgoverno dei primi corrispondesse quello dei secondi[8]. Nonostante le (scarse) critiche che Manzoni si attirò per aver indicato negli Spagnoli e non, più correttamente, nei Francesi, il nemico atavico dell’Unità italiana – come avviene, ad esempio, nel romanzo Ettore Fieramosca o la disfida di Barletta (1856) del marchese Massimo d’Azeglio (1798-1866), peraltro genero di Manzoni – grazie all’indiscutibile valore letterario, la sua visione, quella antispagnola, si è imposta nelle coscienze di generazioni e generazioni di studenti, formando una ulteriore leggenda nera giunta fino ai nostri giorni e pressoché inscalfibile.
Nel contesto risorgimentale italiano, l’antispagnolismo fu quindi un «atteggiamento mentale» sviluppatosi «nell’Ottocento romantico soprattutto in quei Paesi in cui il trinomio patria-nazione-libertà ebbe bisogno, più che altrove, di costruire miti di fondazione dei nuovi Stati unitari e indipendenti»[9].
Tra i primi e principali ad indicare nella Spagna la causa della decadenza italiana c’era stato Vincenzo Cuoco, che apre la strada ad uno stuolo di detrattori, tra cui si distingue Francesco De Sanctis, il quale a sua volta ha indirizzato gli studi di critica letteraria per almeno un secolo (anzi, si può dire, anch’egli fino ai nostri giorni). Il critico irpino parlò addirittura di «mal governo papale-spagnolo»[10] unendo Chiesa e dominio ispanico in una sorta di endiadi costitutiva nell’aggravamento delle condizioni della penisola tra XVI e XVII secolo[11].
Al contrario, autori come Berchet, Tommaseo e Guglielmo Pepe propugnarono un sentimento filospagnolo[12], ma ebbero ben scarso seguito rispetto alle critiche dirette ed indirette di Manzoni e De Sanctis, “grazie” ai quali «in piena età risorgimentale la chiave di lettura antispagnola [era] diventata un topos storico ineludibile, non solo per l’enorme fortuna del romanzo manzoniano, ma in funzione di un lunghissimo percorso che ha origine dalle prime formulazioni della decadenza italiana seicentesca»[13].
Negli anni Ottanta del XIX secolo viene addirittura coniato il termine spagnolismo parlamentare per criticare il Ministro del Consiglio Giovanni Nicotera e la sua pretesa partigianeria (il “nicoterismo”), mentre nella relazione dell’Inchiesta Saredo (che nel 1901 mise a nudo la corruzione amministrativa del Comune di Napoli) si fa risalire la causa del coevo malgoverno all’«infausto periodo della dominazione spagnola»[14].
A rompere l’omogeneità del fronte antispagnolo che prosegue nei primi decenni del Novecento giunsero Benedetto Croce (1866-1952) e Gioacchino Volpe (1876-1971), il primo riconoscendo alcuni meriti alla dominazione iberica nel Meridione d’Italia (la protezione del territorio e la fine della potenza semisovrana del baronaggio)[15], il secondo cercando di superare la “leggenda nera”[16]: negli anni Trenta Volpe indicò in Federico Chabod (1901-1960) uno storico da valorizzare, in particolar modo per i suoi studi su Carlo V. Nel dopoguerra la cultura di sinistra riprese i temi dell’antispagnolismo di marca desanctisiana, soprattutto con Gabriele Pepe, per il quale la decadenza meridionale avrebbe coinciso con la presenza controriformista spagnola, che avrebbe allontanato l’Italia del Sud dal fervore protestante europeo, causa principale di quella che sarebbe stata definita la “questione meridionale”[17]. Lo storico criticò anche la posizione di Croce, negando i benefici derivati dal far parte dell’Impero: la Spagna non avrebbe protetto il Regno di Napoli e Sicilia, ma lo avrebbe utilizzato soltanto in funzione di barriera antiturca[18].
Più obbiettivo Antonio Gramsci, nelle cui pagine si trovano pochi riferimenti alla Spagna; anzi, quando ne parla a proposito del Risorgimento e di Machiavelli, indica la Corona ispanica come un esempio da seguire per la formazione di uno Stato “moderno” ed unitario[19]. Peraltro lo studioso riconosce la “anazionalità” degli Italiani:
Si osserva da alcuni con compiacimento, da altri con sfiducia e pessimismo, che il popolo italiano è «individualista»: alcuni dicono «dannosamente», altri «fortunatamente», ecc. Questo «individualismo», per essere valutato esattamente, dovrebbe essere analizzato, poiché esistono diverse forme di «individualismo», più progressive, meno progressive, corrispondenti a diversi tipi di civiltà e di vita culturale. Individualismo arretrato, corrispondente a una forma di «apoliticismo» che corrisponde oggi all’antico «anazionalismo»: si diceva una volta: «Venga Francia, venga Spagna, purché se magna», come oggi si è indifferenti alla vita statale, alla vita politica dei partiti, ecc.[20]
La posizione di Gramsci è fortemente influenzata dalle ideologie nazionalistiche di stampo post-hegeliano: non riesce a comprendere – come accade a molti suoi (e nostri) contemporanei – la reale essenza delle Spagne e confonde l’Impero ispanico con una sorta di Impero britannico di matrice cattolica, con una Corona centralizzatrice e impegnata soprattutto a succhiare energie dai suoi più o meno lontani possedimenti, i cui abitanti vengono considerati inferiori. Ma se ciò è vero per l’Inghilterra coloniale, tale modus imperandi non si può certo applicare alle Spagne asburgiche: le Spagne erano non un unico Regno, bensì un insieme di Regni (Salvador de Madariaga usa l’immagine di «un insieme di aquile con un sol capo»[21]) di cui venivano rispettate le usanze, le tradizioni ed i diritti (i fueros) e ciò che valeva per i Regni europei (estos reinos), dalla Castiglia a Napoli, valeva anche per quelli indiani (esos reinos), da Cuba al Perù[22]. Palese anche la distanza dalla mentalità coloniale francese, evidenziata pure da uno scrittore transalpino:
«La Francia alla base del suo sistema ha introdotto la nozione che le colonie debbano essere considerate, sia dagli europei che dai creoli, semplicemente come temporanee residenze che attraggono individui per la facilità di far fortuna, e dalle quali costoro dovrebbero allontanarsi appena ottenuto lo scopo prefisso. La Spagna, al contrario, permette che tutti i suoi sudditi, americani o europei, possano considerare come loro patria qualsiasi parte dell’impero dove siano nati o che sia in possesso di particolari attrattive per essi». Ma la vera ragione è molto più profonda: la Corona non vide motivo per il quale «quei regni» dovessero dipendere da «questi regni» quanto a cultura ed educazione, pertanto, al momento stesso della conquista, università, collegi e scuole furono fondati ovunque per lo sviluppo della nuova comunità.[23]
Una concezione organica incomprensibile, ad esempio, ad una mente sostanzialmente totalitaria come quella di Tommaso Campanella, che servilmente aveva proposto a Filippo III di imporre la lingua spagnola in tutti i suoi Regni, scontrandosi con l’impostazione asburgica di rispettare le culture – e quindi le lingue – dei vari popoli della Corona ispanica:
Al Re delle Spagne [Campanella] chiede che non siano rispettate la cultura e le istituzioni dei popoli italiani, anzi suggerisce di castiglianizzare gli italiani sia culturalmente sia politicamente. Se si trova un consiglio reiterato nella Monarchia di Spagna è quello di spagnolizzare il mondo intero, inclusa la penisola italiana.[24]
Napoli spagnola o ispanica?
Tornando alla questione del titolo scelto da Silvio Vitale, dopo questa un po’ lunga, ma forse non inutile digressione, è più facile comprendere i motivi della decisione dello studioso napolitano.
“Spagna”, “spagnolismo”, “grandeza spagnola” sono, nella cultura scolastica italiana, sinonimi che indicano la decadenza, l’ofanità, l’inutile ampollosità, la vuota pompa priva di reale sussistenza: sono indicative in tal senso alcune scene dei Promessi sposi, come quella del cap. IV, in cui il fratello del gentiluomo ucciso ostenta la potenza della propria famiglia nel ricevere fra’ Cristoforo: «era un girare, un rimescolarsi di gran cappe, d’alte penne, di durlindane pendenti, un moversi librato di gorgiere inamidate e crespe, uno strascico intralciato di rabescate zimarre»; o quella del cap. XIX, quando il Conte-zio invita a pranzo il Padre provinciale, circondandolo di uno stuolo di familiari altolocati al fine di impressionarlo: «Qualche parente de’ più titolati, di quelli il cui solo casato era un gran titolo; e che, col solo contegno, con una certa sicurezza nativa, con una sprezzatura signorile, parlando di cose grandi con termini famigliari, riuscivano, anche senza farlo apposta, a imprimere e rinfrescare, ogni momento, l’idea della superiorità e della potenza». Per non parlare della cultura secentista o spagnolesca (dopo Manzoni, fa tutt’uno), incarnata nel personaggio di Don Ferrante, con la sua biblioteca descritta – o per meglio dire dileggiata – nel cap. XXVII[25].
Insomma, nell’immaginario comune dello studente liceale, la Spagna sintetizza tutto il negativo dello spirito barocco e controriformista: vuota tronfiezza e forma mentis retriva. Tutti i mali dell’Italia deriverebbero dalla dominazione spagnola, di cui quella borbonica (con l’eccezione di Carlo) sarebbe la naturale prosecuzione: in particolare i due Ferdinandi, rei di essersi opposti ai giacobini, ai Francesi, ai liberali, ai mazziniani ed agli unitari, rappresentano la quintessenza della mentalità “reazionaria e bigotta” di derivazione spagnola.
Contro questo luogo comune, contro tale “leggenda nera” Silvio Vitale decise di opporre non solo la traduzione di un ponderoso saggio che, dati alla mano, attraverso l’analisi dei pensatori della Napoli ispanica (solitamente conosciuti solo per nome – se non del tutto ignoti – anche da parte di molti studiosi), dimostra la vivacità della cultura “spagnola” sviluppatasi in riva al Golfo; ma volle che questo vero e proprio monumento alla verità e all’influsso positivo dell’unione con la Corona asburgica recasse in copertina il vituperato termine “spagnolo”.
Alla leggenda nera, tramandatasi per sentito dire, Vitale volle dunque contrapporre i documenti sottratti al polveroso oblio da Francisco Elías de Tejada; e volle che questa raccolta di oltre duemila pagine smentisse fin dal titolo tutta l’infamia che secoli di propaganda avevano accumulato.
La sua non fu una scelta corretta dal punto di vista linguistico: ma egli ne era ben conscio. Fu una scelta di dichiarata “politica culturale”, per fare di Nápoles hispánico non un testo destinato esclusivamente agli studiosi, bensì anche un libro di diffusione della verità.
«Ho fatto tanta fatica per cancellare il senso negativo del termine “spagnolo”!», mi disse quando gli portai la traduzione del quarto volume rendendo, di volta in volta, hispánico con ispanico. E volle che l’aggettivo venisse sostituito con spagnolo.
A vent’anni dalla sua scelta iniziale, che ha necessariamente pregiudicato quella dei volumi successivi, ci si può legittimamente domandare se non sarebbe stato meglio utilizzare una diversa traduzione del termine. Ma non si può dimenticare il valore, pienamente conscio, di quella decisione.
Napoli ispanica o Napoli ispanico?
Infine, l’opera di Francesco Elías de Tejada si dovrebbe rendere con Napoli ispanica o ispanico?
È auspicabile una futura edizione con questo titolo, quando al pubblico di cultura italiana saranno ben chiari sia la differenza tra i due termini spagnolo ed ispanico, sia l’apporto positivo dell’unione alla Corona delle Spagne; intanto, si deve rispettare una scelta effettuata in un momento in cui l’antispagnolismo era ancora ben presenze nella cultura italica – ammesso e non concesso che ora, anche grazie alla traduzione di Nápoles hispánico, esso si sia stemperato…
Quanto alla scelta del femminile, anziché del maschile, va detto che, mentre lo studioso ispanico distingueva tra Napoli al femminile, intesa come città e Napoli al maschile, inteso come Regno, la cultura italica ha sempre declinato al femminile Napoli, anche quando voleva chiaramente indicarla come Regno (si è sempre detto la Napoli sveva, angioina, aragonese, spagnola, austriaca, vicereale, borbonica, francese…)[26].
Ed è indubbio che la locuzione Napoli spagnola viene immediatamente compresa da chiunque come l’intero Regno di Napoli (con lo scettro nelle mani del Re delle Spagne) e non soltanto come la sua sola Capitale[27].
Infine, una soluzione potrebbe essere quella di definire il periodo che va da Carlo IV a Carlo V (cioè, per la numerazione spagnola, da Carlo I a Carlo II) come imperiale, dato che Napoli fece parte dell’Impero spagnolo.
E, certo, l’augusta definizione di Napoli imperiale farebbe giustizia di tutto il fango che secoli di propagandistica “leggenda nera” hanno gettato sulla nobilissima Napoli spagnola.
[1] Locuzione nata in ambito francese ai tempi del secondo Impero e che sarebbe meglio evitare.
[2] Sia il termine più geografico iberico (la penisola) che quello più culturale ispanico includono il Portogallo. Luís Vaz de Camões (1524-1580), poeta nazionale portoghese, cantò i Lusitani descrivendoli come «huma gente fortissima de Espanha» (Os Lusíadas, I, 31) e il poeta romantico João Baptista da Silva Leitão de Almeida Garrett (1799-1854) concluse un interessante ragionamento sulla “spagnolità” dei vari popoli iberici – “espressione geografica” al pari della “italianità” dei differenti popoli italici e della “germanicità” di quelli tedeschi – sostenendo che «Hespanhoes somos, de Hespanoes nos devemos prezar: Castelhanos nunca» (Camões, nota C al canto III, p. 210 della I ed., Na Livrearia nacional e Estrangeira, Paris 1825; divenuta nelle edizioni successive nota D e così modificata: «espanhóis somos, de espanhóis nos devemos apreciar todos os que habitamos à Península Ibérica», rimuovendo il Castelhanos nunca che pure si ritrova in tante citazioni).
[3] Usato dagli Inglesi, ad esempio, per indicare la guerra del 1807-1814 contro l’invasione napoleonica, maldestramente resa in italiano come “guerra d’indipendenza spagnola”.
[4] In realtà sia il catalano che il gallego o galiziano (che è di derivazione portoghese) sono lingue romanze al pari del castigliano.
[5] Miguel de Unamuno, Cultura e Nazione, Medusa, Milano 2011.
[6] Fanno eccezione le Ricerche ispano-italiane, (Stabilimento tipografico della Regia Università, Napoli 1898) e il capitolo La decadenza ispano-italiana del saggio La Spagna nella vita italiana durante la Rinascenza (Laterza, Bari 1917).
[7] «L’Italia è l’unico Paese d’Europa la cui unità nazionale e la cui liberazione dal dominio straniero siano avvenuti in aperto, feroce contrasto con la propria Chiesa nazionale». Ernesto Galli della Loggia, cit. in Massimo Viglione, “Libera Chiesa in libero Stato”? Il Risorgimento e i cattolici: uno scontro epocale, Città Nuova, Roma 2005, epigrafe al volume.
[8] «A far sì che l’antispagnolismo si affermi con la forza di un luogo comune è principalmente il romanzo di Manzoni, il testo più influente nello sviluppo di una memoria storica nazionale. Ed è facile verificare che, nelle pagine dei Promessi sposi, la Chiesa della Controriforma trova una sua nobilitazione (nella figura di Federigo Borromeo), mentre lo stesso non accade agli spagnoli, ai quali non viene attribuito alcun rappresentante positivi». Gianvittorio Signorotto, Dalla decadenza alla crisi della modernità: la storiografia sulla Lombardia spagnola, in Alle origini di una nazione. Antispagnolismo e identità italiana, a cura di Aurelio Musi, Guerini, Milano 2003, p. 313-314.
[9] A. Musi, Fonti e forme dell’antispagnolismo nella cultura italiana tra Ottocento e Novecento, in Alle origini di una nazione, cit., p. 11.
[10] Storia della letteratura italiana, cap. XVIII, La nuova scienza, Einaudi, Torino 1975, p. 752.
[11] Coerentemente con questo a dir poco discutibile assunto, De Sanctis contrapponeva alla cultura della “reazione” i nomi di Giordano Bruno, Tommaso Campanella, Galileo Galilei e Paolo Sarpi, indicandoli come «primi santi del mondo moderno» (ivi, p. 684).
[12] «Anche in Italia la percezione della Spagna si modificò in positivo come di fatto avvenne per molti letterati e patrioti militanti quali Nicolò Tommaseo o Giovanni Berchet o il meridionale Guglielmo Pepe. Nell’Ottocento italiano queste aperture alla Spagna, molto legate alle congiunture politiche della rivolta antinapoleonica e delle rivoluzioni liberali, appaiono però marginali rispetto alla straordinaria fortuna del romanzo manzoniano e al peso della complessiva ricostruzione della vicenda culturale italiana proposta da Francesco De Sanctis nella Storia della letteratura italiana». Maria Antonietta Visceglia, Mito/antimito, spagnolismo/antispagnolismi: note per una conclusione provvisoria, in Alle origini di una nazione, cit., p. 427.
[13] Chiara Di Giorgio, L’antispagnolismo nella letteratura italiana: storiografia e testi, Dottorato di ricerca in Italianistica, Università di Roma “Sapienza”, Roma 2011, p. 154. La studiosa individua in Traiano Boccalini (1556-1613) il primo “antispagnolista” italiano.
[14] Commissione d’inchiesta per Napoli, Relazione sulla amministrazione comunale, Forzani e C. Tipografi del Senato, Roma 1901, vol. II, p. 837. Paradossalmente, la frase introduce la descrizione della Prammatica che imponeva a tutte le alte cariche dello Stato di essere sottoposte da un controllo dei propri beni prima e dopo il loro insediamento, per evitare illeciti arricchimenti: «Fra le più commendevoli leggi che abbia dato fuora Filippo IV, potrà, dirsi a mio credere, la Prammatica XXII, che leggesi sotto il titolo: De officialibus et hiis quae eis prohibentur. Questa è tutta in lingua spagnuola, e comincia: Desseando cumplir, di cui ne seguì la promulgazione in Napoli a’ 30 di Marzo del 1622 che fu commessa al Cardinal Zapatta [Antonio Zapata y Cisneros], da poi che erasi fatta pubblicare in tutti i Regni della Spagna». A questo punto appare evidente come la locuzione infausto periodo della dominazione spagnola fosse una semplice frase fatta, talmente entrata nel linguaggio comune da poter essere citate anche in un contesto che contraddice apertamente il giudizio negativo!
Sulle vere cause della corruzione dell’amministrazione napoletana, che secondo accreditati studi risale non all’epoca vicereale, bensì, più prosaicamente, all’Unità, ed in particolare alla cosiddetta “Consorteria”, cioè l’accordo criminale tra camorristi e liberali nella Napoli “affidata” da Francesco II al capo della polizia – e camorrista – Liborio Romano, mi permetto di segnalare il mio studio Dal legittimismo al carlismo, introduzione al romanzo anonimo del 1874 Il passato e il presente o Ernesto il disingannato, Vincenzo D’Amico Editore, Nocera Superiore 2017, p. III-XX.
[15] Cfr. Benedetto Croce, Storia del regno di Napoli, Laterza, Bari 1925, cap. Il «Viceregno» e la mancanza di vita politica nazionale.
[16] «Vi è nella nostra storia moderna un’epoca che poco finora ha attirato la nostra attenzione, quasi adduggiata dalle due che la fiancheggiano rigogliose: voglio dire l’epoca che fu di dominio e di predominio spagnolo, epoca che si presenta scialba e grigia e triste, una specie di Medio Evo italiano, quasi non-storia, se storia vuol dire movimento e sviluppo. Immagine falsa, anche ammesso che, in quell’epoca, molte attività nostre caddero o languirono, come per stanchezza, oltre che per effetto di quella dominazione: dominazione di Paese esso stesso in decadenza o povero di energie innovatrici. Ma non ci fu soltanto decadenza e languore. Accanto a cose che languivano e magari morivano, altre che nascevano, magari alimentate da quel morire. Questo è ormai chiaro. E ci sono zone d’ombra da illuminare in quella storia: per esempio, il regime spagnuolo e l’Italia nei rapporti con la Spagna dominatrice». Gioacchino Volpe, Storici e Maestri, Sansoni, Firenze 1967, p. 458.
[17] Gabriele Pepe, Il Mezzogiorno d’Italia sotto gli Spagnoli, Sansoni, Firenze 1952, p. X-XI: «Tra la fine del Quattrocento e il Cinquecento tutta l’Italia fu in crisi; una gigantesca crisi politica che spezzò definitivamente la storia italiana in storia di tante Italie, mentre nel periodo del Magnifico Lorenzo si erano delineate le grandi linee di una politica interitaliana. La crisi fu, dunque, italiana; ma, mentre il resto dell’Italia lentamente risorse, sicché all’Unità alcune regioni avevano un livello di vita uguale a quello degli altri stati europei, il Mezzogiorno non superò mai la sua crisi, anzi la vide aggravarsi. La storia dell’aggravarsi della crisi del Mezzogiorno è la storia della dominazione spagnola».
[18] Cfr. ivi, p. VIII.
[19] «Può esser vero che l’Umanesimo nacque in Italia come studio della romanità e non del mondo classico in generale (Atene e Roma): ma occorre distinguere allora. L’Umanesimo fu “politico-etico”, non artistico, fu la ricerca delle basi di uno “Stato italiano” che avrebbe dovuto nascere insieme e parallelamente alla Francia, alla Spagna, all’Inghilterra: in questo senso l’Umanesimo e il Rinascimento hanno come esponente più espressivo il Machiavelli». Antonio Gramsci, Umanesimo, Rinascimento, in Quaderni del carcere, Quaderno 17 (IV), § 33. «Su Machiavelli opera l’esempio della Francia e della Spagna che hanno raggiunto una forte unità statale. Fa un “paragone ellittico” come direbbe il Croce e desume le regole per un forte stato in generale e italiano in particolare». Id., Su Machiavelli, Quaderno I (XVI), § 10.
[20] Id., Passato e presente. Caratteri italiani, Quaderno 6 (VIII), § 162.
[21] Salvador de Madariaga, Ascesa dell’Impero ispano-americano, Dall’Oglio, Milano 1965, p. 32.
[22] Cfr. ivi, p. 31.
[23] Ivi, p. 60. Il testo citato è François Raymond Depons, Voyage a la partie oriental de la Terre Ferme, dans l’Amérique Méridionale, fait pendant les années 1801, 1802, 1803, et 1804…, Paris 1806, I, cap. V (Salvador de Madariaga ne cita l’edizione inglese del 1807).
[24] Francisco Elías de Tejada, Napoli spagnola, IV, p. 209-210. Lo studioso spagnolo cita in particolare un passaggio del cap. XII: «E avendo il Re da acquistare il mondo, deve tutte le genti spagnolare, cioè farle spagnole». Il concetto di spagnolare (o spagnolizzare) il mondo si ritrova anche altrove (cap. XIV, XV, XIX, XX, XXXI, XXXII). Gli studiosi potranno trovare il testo completo dell’opera di Campanella sul sito “Archivio dei filosofi del Rinascimento” (www.iliesi.cnr.it) oppure su quello della Società Storica del Sannio – Club di Autori Indipendenti (www. samnium.org).
[25] Inoltre, facendo eleggere Aristotele come il filosofo preferito da Don Ferrante («Siccome però que’ sistemi, per quanto sian belli, non si può adottarli tutti; e, a voler esser filosofo, bisogna scegliere un autore, così don Ferrante aveva scelto Aristotile, il quale, come diceva lui, non è né antico né moderno; è il filosofo», cap. XXVII), si esprime una critica indiretta – o meglio subliminale – allo Stagirita e, di conseguenza, a S. Tommaso d’Aquino ed alla Scolastica.
[26] Mentre la locuzione “il Napoli”, al maschile, si usa esclusivamente per riferirsi alla compagine calcistica cittadina.
[27] Si suggerisce anche l’aggettivo napolitano (con la i) in riferimento al Regno, laddove napoletano (con la e) sarebbe riferito alla sola Capitale.