Nel 1894 Raffaele De Cesare di Spinazzola racconta la fine del Regno delle Due Sicilie
Circa 30 anni dopo la Storia di de’ Sivo, quando ormai il processo unitario si era consolidato e aveva superato la cruenta prova della lunga e violenta guerra civile e sociale che il popolo del Sud aveva sostenuto con vigore e con un’accanita resistenza, Raffaele De Cesare[1] pubblicava nel 1895, utilizzando lo pseudonimo “Memor”, La fine di un Regno: dal 1855 al 6 settembre 1860 [2].
Il successo di questi articoli, scritti da Raffaele De Cesare sotto lo pseudonimo di Memor, indusse Schilizzi a proporre al giornalista un’altra serie di articoli sul tema “Napoli 1855-56”, che furono pubblicati dall’8 settembre al 3 ottobre del 1893. Rilevato l’interesse straordinario dei lettori, divenne chiaro che occorreva proseguire la serie di articoli andando a completare il quadro storico degli ultimi anni del Regno. Infatti, sempre affidati alla penna di De Cesare, il 12 dicembre 1893 veniva pubblicato il primo di 40 articoli delle serie “Dal 1857 alla fine del Regno”, l’ultimo dei quali andato in stampa il 2 gennaio 1895[4].
Proprio allo scadere dell’ultima serie di articoli, il 27 dicembre 1894, ad Arco in provincia di Trento, moriva l’ultimo re del Regno delle Due Sicilie, Francesco II di Borbone. Il Corriere di Napoli, che qualche giorno prima della morte del Re aveva comunicato ai propri lettori la decisione di raccogliere gli articoli pubblicati negli ultimi due anni sulla fine del Regno in un testo, il giorno dopo la scomparsa del Re annunciava ai lettori:
“In seguito alla morte dell’ex Re Francesco II, il volume in corso di pubblicazione sulla Fine di un Regno, acquista una palpitante attualità ed assume una importanza addirittura eccezionale. Il volume vedrà la luce negli ultimi giorni di gennaio 1895 e perciò i nostri abbonati potranno riceverlo in dono nella prima settimana di febbraio[5].”
La morte di Francesco II e la pubblicazione del testo crearono l’occasione per aprire il dibattito sulle condizioni politiche, sociali ed economiche di Napoli e del Sud, mettendo a confronto il prima e il dopo l’unità, i Borbone e i Savoia, la Napoli capitale del passato e la città declassata del presente. Ormai, appariva chiaro anche a De Cesare che «l’epoca della storia convenzionale» era passata e occorreva andare oltre quella «vecchia storia ridotta alle guerre, alle ambasciate, agli intrighi della diplomazia e della vita delle corti, e narrata in episodi pomposi e retorici». In definitiva, per De Cesare la storia era chiamata «a riprodurre tutte le manifestazioni umane, tutta la vita sociale»[6]; non era possibile continuare ad ignorare la storia dei «senza voce», che erano i veri sconfitti del processo unitario: i soldati borbonici rimasti fedeli, i giovani renitenti alla leva, i contadini illusi dalle vuote promesse garibaldine, le masse popolari profondamente ancorate al mondo cattolico.
Nella prefazione del suo testo De Cesare ribadiva chiaramente che la storia non doveva essere «esercitazione rettorica, ma studio intimo e vivo» e, inoltre, precisava che la narrazione degli ultimi anni del dramma politico e umano dei Borbone, attraverso ricerche in biblioteche, in archivi «più privati che pubblici», rilevando testimonianze vagliate attentamente, raccogliendo informazioni, notizie, ricordi, aneddoti non presenti nei libri, non poteva in alcun modo renderlo «sospetto di attaccamento all’antico regime», circostanza che evidentemente era ancora da temere.
De Cesare affermava senza mezzi termini, noncurante dei rischi a cui si sottoponeva, che «i ricordi di quel periodo», pubblicati fino a quel momento, erano «inconcludenti, monchi e partigiani». Risultava del tutto ordinario che «l’esumazione obiettiva di personaggi e di fatti, alla distanza di quarant’anni, e di tutto un periodo storico, contro il quale tonò esageratamente la rettorica rivoluzionaria» fosse gradita ai protagonisti «vecchi e disillusi» che si erano distinti negli studi, nei giornali, nei teatri, nelle cariche pubbliche degli ultimi anni del Regno. D’altronde, per De Cesare, gli stessi liberali, almeno quelli più illuminati, avrebbero dovuto riconoscere che
“la rivoluzione corse troppo, travolse troppo, accusò troppo, e, come tutte le rivoluzioni, non sapendo distinguere, ferì più interessi di quanti non era necessario; e che il torto, il vero e inescusabile torto dei Borboni, fu quello di non essersi serviti dell’immenso potere che ebbero, per migliorare il Regno economicamente, e rifarlo moralmente dandogli coscienza e dignità, cioè il contenuto della libertà, più che la libertà, nelle sue forme esteriori e pericolose[7].”
I patrioti italiani, i liberali, gli unitaristi, reagirono con una dura critica alla pubblicazione del testo di De Cesare. Abituati com’erano a veder “dipinto” Ferdinando II come un «tiranno sanguinario» dalla pubblicistica liberale e massonica e il suo Governo come la «negazione di Dio» sulla terra, non accettarono il sereno e imparziale giudizio applicato dallo scrittore pugliese nel rievocare l’ambiente sociale, culturale e politico degli ultimi anni del Regno, dove le colpe del Governo borbonico erano state ricondotte al una valutazione prudente ed avveduta, scevra dalle esagerazioni ampollose e retoriche.
A De Cesare, peraltro parlamentare della Destra estrema e distante da qualsiasi concepibile insinuazione di simpatie borboniche, non sarebbe stato perdonato l’aver raffigurato gli ultimi anni del Regno con un seppur velato senso di nostalgia per il passato, che emergeva e veniva alla luce non tanto per quanto scritto da De Cesare, quanto piuttosto per il poco edificante presente di una città decaduta da capitale a provincia.
Come scrive Catenacci, dopo le accuse dei suoi avversari politici che gli valsero la mancata rielezione, la stroncatura definitiva sarebbe arrivata l’8 dicembre del 1908, sul Marzocco, ad opera di un critico abitualmente fine quale il Panella[8].
Ma, a ben guardare, la rilettura critica proposta da De Cesare non poteva passare in quel clima politico e culturale: era l’Italia che attraversava il decadente periodo che intercorreva tra l’unità e il fascismo, guidata da una monarchia liberale, pienamente in sintonia con la Destra storica, e che aveva relegato ai margini le velleità democratiche e repubblicane.
Sull’impossibilità in quegli anni di mettere in discussione almeno le modalità con cui era avvenuta l’unificazione, il giornalista e scrittore Gigi Di Fiore, in maniera chiara e convincente, ha espresso il proprio parere:
“Tutti i documenti e le testimonianze più diffusi erano dettati da chi aveva vissuto da protagonista vincente il processo storico risorgimentale. Per questo motivo, la stampa che contava, i rapporti diplomatici, i libri di memorie, i ricordi pubblici, venivano tutti piegati alle ragioni di chi aveva plasmato l’Italia liberale: i ceti borghesi imprenditoriali, rappresentati in politica dalla destra cavourriana[9].”
La maggioranza politica che sosteneva il governo di Cavour, come Di Fiore spiega in una nota, era il frutto della politica definita del “connubio”, cioè dell’accordo del 1852 della Destra dei gruppi avanzati con i democratici liberali guidati da Urbano Rattazzi. Un’ intesa imperniata sull’abolizione dei dazi doganali, sul centralismo parlamentare con elezione a suffragio ristretto, sulla tutela della libertà d’opinione, sull’unificazione dell’Italia e che avrebbe condotto più tardi all’alleanza con la Francia, al concorso attivo nella guerra di Crimea, all’approvazione delle leggi Rattazzi del 1855 comportanti la soppressione degli ordini religiosi e l’esproprio statale dei loro beni patrimoniali[10].
L’opera di De Cesare, boicottata, attaccata, sminuita, criticata, cadde nell’oblio negazionista dei tempi, finché – lo ricorda Catenacci – Ruggero Moscati, ne La fine del Regno di Napoli, edito nel 1960, la riabilitava con un onesto giudizio che le attribuiva il giusto e meritato valore.
[1] Raffaele De Cesare era un pugliese nato a Spinazzola nel 1845. Laureatosi a Napoli in Scienze politiche, esperto di economia politica e problematiche agricole, di commercio e dogane, da giornalista aveva collaborato con il Corriere della Sera. Più volte eletto deputato, in Parlamento faceva capo all’estrema Destra, difendendo spesso gli interessi delle popolazioni meridionali. Nel 1910 fu nominato senatore e fece parte del gruppo politico di Benedetto Croce. Morì a Roma nel 1918.
[2] R. DE CESARE (Memor), La fine di un Regno: dal 1855 al 6 settembre 1860, Città di Castello, S. Lapi tipografo-editore, 1895.
[3] R. DE CESARE (Memor), La fine di un Regno: dal 1855 al 6 settembre 1860, Napoli, Grimaldi § C. Editori, 2003, pp. VII-XVI.
[4] G. CATENACCI, Introduzionein R. DE CESARE (Memor), La fine di un Regno: dal 1855 al 6 settembre 1860, Napoli, Grimaldi § C. Editori, 2003, pp. IX-XI.
[5] Ivi, p. XII.
[6] R. DE CESARE, Prefazione in Roma e lo Stato del Papa. Dal ritorno di Pio IX al XX settembre, Roma, Forzani e C. Tipografi-Editori, 1907.
[7] R. DE CESARE, Prefazione in MEMOR, La fine di un Regno, cit., pp. XXIX-XXX.
[8] G. CATENACCI, Introduzione in R. DE CESARE (Memor), La fine di un Regno: dal 1855 al 6 settembre 1860, cit., p. XIV.
[9] G. DI FIORE, Controstoria dell’unità d’Italia. Fatti e misfatti del Risorgimento, Milano, Rizzoli libri Bur, 2016, p. 13.
[10] Ivi, nota n. 6, p. 375.
Michele Eugenio Di Carlo
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