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NELL’INDIPENDENTISMO DELLA SICILIA SI TROVO’ IL MODO DI SCARDINARE IL REGNO DELLE DUE SICILIE

Posted by on Gen 2, 2025

NELL’INDIPENDENTISMO DELLA SICILIA SI TROVO’ IL MODO DI SCARDINARE IL REGNO DELLE DUE SICILIE

I rivoluzionari unitari soffiavano sul fuoco del malcontento siciliano; il 27 novembre 1859 il capo della polizia siciliana, Salvatore Maniscalco, fu pugnalato sugli scalini della cattedrale di Palermo mentre stava entrando in chiesa con moglie e figli per assistere alla messa, rimase gravemente ferito (il sicario fu ricompensato, mesi dopo, da Garibaldi con una pensione).

In Sicilia, i moti del ’20 e del ’48 avevano registrato una massiccia partecipazione popolare, perché era maturata la convinzione che l’indipendenza da Napoli poteva essere ottenuta solo mediante l’adesione ad un progetto di confederazione italiana. Quindi non era irrealistica la previsione che un intervento armato potesse provocare una sollevazione. A Francesco Crispi e a Rosolino Pilo, ambedue siciliani ed il primo in rapporti di vicinanza con Mazzini, era stato affidato il compito di preparare il terreno per tale eventualità ed avevano convinto Garibaldi che era maturato il momento di sfruttare l’endemica irrequietezza contadina perche il sentimento di staccarsi da Napoli si diffondeva in tutte le classi. Era pertanto divenuta praticabile la possibilità di promuovere, secondo l’idea mazziniana, la rivoluzione dal basso. Idea che Vittorio Emanuele, in costante contatto con un Garibaldi deciso ad ottenere adeguatezza di mezzi e finalità di unificazione al Regno Sardo, incoraggiava segretamente senza compromettersi. Altri esuli siciliani più conservatori, per sondare la possibilità di una azione diplomatica sorretta da una militare rivolta all’annessione, fatta salva l’autonomia, avevano preso contatto con Cavour il quale promise che, ove gli eventi portassero la Sicilia ad una annessione al Regno Sardo, essa avrebbe ricevuto un notevole grado di autonomia. Cavour, aspramente avversato da Garibaldi per la cessione di Nizza, malgrado si rendesse conto dello stato di crisi del regime borbonico, riteneva prematura qualsiasi azione militare, comunque condotta, nel timore che essa, per la tendenza separatista dei siciliani, potesse assumere una impronta mazziniana difficilmente gestibile. Tuttavia egli, in stretto contatto con l’esule La Farina, era favorevole a mantenere in Sicilia un costante stato di agitazione, sperando che il governo borbonico, non riuscendo a controllare l’anarchia delle campagne, ricorresse al Piemonte per una qualsiasi forma di sostegno. Ed, a tal fine, attraverso il suo ministro Villamarina, cercava di stabilire con i Borboni un qualche rapporto che li sottraesse all’influenza austriaca. Anche Mazzini sosteneva l’impresa cui si accingeva Garibaldi, avendo superato la contrapposizione repubblica-monarchia e privilegiando l’obiettivo dell’unità nazionale. Infatti il 2 marzo 1860 Mazzini incitava alla ribellione i siciliani, mettendo da parte le sue convinzioni repubblicane che venivano sacrificate all’ideale unitario sotto lo scettro della monarchia sabauda. Crispi era ritornato segretamente in Sicilia stabilendo contatti con la rete di forze insurrezionali e con alcuni capibanda per organizzare le fasi iniziali della rivolta che avrebbero dovuto preparare il terreno per l’azione di Garibaldi. Il 25 marzo l’ambasciatore inglese a Torino, Sir James Hudson, scriveva al suo ministro degli Esteri Lord Russell “… dobbiamo desiderare ardentemente lo scontro tra l’Italia del Nord e quella del Sud. Il risultato non può essere dubbio. Il Papa e il Re di Napoli saranno battuti, la Sicilia si dichiarerà per i suoi diritti costituzionali e per l’annessione. Napoli sarà alla mercè di tutti… Cavour per le molte necessità della sua posizione è ora più che mai gettato nelle vostre mani se la vostra politica nell’Italia meridionale è vigorosa ed armata…. Per parte mia io sono per la costruzione di un’Italia forte e per il raddoppiamento della nostra forza navale nel Mediterraneo: quando tratteremo con Luigi Napoleone sulla Questione Orientale dovremo volere l’Italia per noi!” All’inizio del 1860 piccoli focolai di disordine si manifestavano ovunque e la popolazione, diffondendosi l’attesa di una imminente rivoluzione, cominciò ad agitarsi per ottenere giustizia ed a porre le prerogative per un movimento di vaste proporzioni. Il 25 marzo, Giovanni Corrao e Rosalino Pilo, su suggerimento di Giuseppe La Masa, capo indiscusso dei siciliani rivoltosi, si recarono in Sicilia con la paranza “Madonna del soccorso” per ottenere il sostegno dei baroni alla prossima spedizione dei Mille; sbarcati nei pressi di Messina contattarono gli esponenti delle famiglie più importanti”; con essi fu concordato che appena sbarcato Garibaldi, i “picciotti”, appartenenti alla malavita locale e alle bande al soldo dei latifondisti, accorressero “spontaneamente” in suo aiuto. Un tentativo insurrezionale, organizzato dal comitato rivoluzionario di Palermo, coordinato da Genova da Francesco Crispi e condotto da Francesco Riso, il 4 aprile, a Boccadifalco, sulle alture del versante che affaccia sulla valle di Badia, alcune bande armate fronteggiarono due compagnie del 9º battaglione del Real Esercito delle Due Sicilie. Dopo non poca resistenza, i rivoltosi furono sconfitti e dispersi, fu prontamente sedato presso il convento della Gancia con la fucilazione di numerosi insorti. Il fermento popolare non cessò e si estese alle campagne ed ai centri (Messina, Carini, ecc.) assecondato dall’aristocrazia e dalla nuova borghesia terriera che, mirando a difendere la solida impalcatura feudale, tendeva ad attribuire al governo le colpe della miseria e dello sfruttamento, trovando la solidarietà dei contadini che furono trascinati in una guerriglia con obiettivo del conseguimento dell’autonomia, non dell’unità nazionale. La guerriglia si diffuse, attaccando gli avamposti delle truppe borboniche. Vennero tagliate le linee telegrafiche diffondendo il panico tra i funzionari e vennero interrotti i rifornimenti, causando un aumento dei prezzi che rinfocolava le proteste e, col deteriorarsi dell’ordine, creava una situazione caotica e di diffusa anarchia. Il 18 aprile, Cavour, invia due navi da guerra, Governolo e Authion, in Sicilia, ufficialmente per proteggere i sudditi piemontesi presenti nell’isola ma in realtà ”per giudicare con perfetta conoscenza di causa delle forze che si trovano nell’isola così dalla parte degli insorti come da quella delle truppe reali”, poco dopo lo stesso primo ministro chiede all’ambasciatore piemontese a Napoli, anche a nome del ministro della Guerra Fanti, l’invio di carte topografiche del regno delle Due Sicilie che giungeranno nel regno sabaudo con la nave Lombardo, utilizzata nove giorni dopo da Garibaldi per la spedizione dei Mille. Diversi galantuomini come Scordato e De Miceli, fiutando il corso degli eventi, divennero rivoluzionari per controllare la rivolta e preservare i loro imperi privati. Il governo per controllare il disordine incoraggiò la formazione di una milizia di volontari della classe media e trovò aiuto in coloro che, pur avversando i Borbone, ancor più temevano la rivolta contadina. Il 26 marzo Rosolino Pilo con Giovanni Carrao era partito da Genova recando in Sicilia un ingente quantitativo d’armi ed appena arrivato era riuscito, dopo l’insuccesso del 4 aprile, a serrare le fila dei rivoltosi. Prese contatto anche con i capi della delinquenza locale di Cinisi, Tenasini, Montelepre, S. Giuseppe Iato Corleone, Partitico ecc. e, ridestando le speranze, riuscì a creare un’attesa carica di tensione. La notizia della reazione borbonica al tentativo insurrezionale fu taciuta a Garibaldi ma provocò apprensione ed indusse Crispi a sollecitare l’organizzazione di Genova ad accelerare i preparativi per la spedizione che erano intralciati da difficoltà di ordine politico create da Cavour. Questi si sentiva in difficoltà a favorire un movimento diretto contro lo Stato borbonico con cui si mantenevano relazioni diplomatiche ma, politicamente indebolito per la cessione di Nizza e della Savoia, non era in grado di contrastare apertamente Garibaldi. Comunque egli, pur non fidandosi di Garibaldi e temendo l’influenza che avrebbe potuto esercitare Mazzini, non aveva obiezioni di principio verso gli obiettivi della spedizione ed, oltre ad operare un attento controllo della fase preparativa, manteneva una cauta posizione di attesa. Infatti a fine aprile si reca personalmente a Genova, dove rimane due giorni per controllare i preparativi dei garibaldini, il 3 maggio fu stipulato un accordo a Modena (presenti l’avvocato Ferdinando Riccardi e il generale Negri di Saint Front, appartenenti ai servizi segreti piemontesi che avevano avuto l’incarico dall’Ufficio dell’Alta Sorveglianza politica e del Servizio Informazioni del presidente del Consiglio); regolarmente formalizzato con rogito del notaio Gioacchino Vincenzo Baldioli in data 4 maggio 1860; con il quale si stabiliva la vendita di due navi al regno di Sardegna e si precisava che il beneficiario era Giuseppe Garibaldi, rappresentato nello studio del professionista, sito in via Po a Torino, dal suo uomo di fiducia: Giacomo Medici; garanti del debito il re sabaudo e il suo primo ministro. “Il giorno 28 aprile a Garibaldi, che viveva a Quarto arrivò un telegramma cifrato che tradotto diceva che la rivoluzione in Sicilia era fallita. La disperazione dei volontari intimi di Garibaldi fu enorme e Garibaldi decise di non partire più. Ma il 29 aprile giunse un nuovo telegramma, che poi si disse inventato da Crispi, e in tale messaggio si diceva [falsamente] che l’insurrezione vinta a Palermo, seguitava nelle province. E così i Mille partirono da Quarto il 6 maggio, i vapori Lombardo e Piemonte (che quindi non erano stati rubati dai garibaldini, come recita la storiografia ufficiale), dopo una sosta in Toscana a Telamone, giungevano la mattina dell’11 presso le isole Egadi. Ma i “Mille” non erano un gruppo di goliardici ed improvvisati rivoluzionari ma in gran parte, veterani delle campagne del 1848-49 e del 1859, folta la rappresentanza straniera di inglesi, ungheresi, polacchi, turchi e tedeschi; inoltre furono indispensabili: l’appoggio del Piemonte, degli ufficiali borbonici “convertiti” alla causa, dei latifondisti siciliani e quello inglese; del resto questo è ovvio in quanto tutti comprendono che nulla avrebbero potuto 1000 uomini contro i 25 mila soldati perfettamente equipaggiati dell’esercito meridionale stanziati in Sicilia, senza considerare gli altri 75 mila presenti nel Sud continentale. Lo stesso Garibaldi, si rese conto del problema ed esitò a lungo nell’accettare il comando della spedizione perchè temeva di far la fine dei fratelli Bandiera e di Carlo Pisacane che avevano tentato nel 1844 e nel 1857, delle sortite simili fallite miseramente e pagate col loro sangue; a fine aprile stava per rientrare a Caprera e si convinse, quando Cavour stava per affidarla al generale Ribotti (che rifiutò) perché “i capi militari della spedizione, Garibaldi, Bixio, Cosenz, Medici, sapevano di poter soprattutto contare sul supporto logistico del governo sardo, una volta effettuato il primo sbarco“.

“Due milioni di franchi oro erano stati raccolti dal Cavour per le occorrenze della spedizione dei Mille e altri tre milioni dalle logge massoniche inglesi, americane e canadesi, trasformati da governo sabaudo in un milione di piastre oro turche perchè quella era la moneta più accettata nei porti mediterranei”. [valore stimabile intorno ai 50 miliardi di lire dei giorni nostri, cioè 25 milioni di euro]. L’appoggio economico piemontese fu addirittura computato nel bilancio del neostato italiano tanto che quando nel 1864 il ministro delle Finanze Quintino Sella lasciò il dicastero a Marco Minghetti, nel passargli le consegne “preparò uno specchietto riassuntivo dei debiti e fra le voci: 7.905.607 lire attribuite a “spese per la spedizione di Garibaldi” [circa 60 miliardi di lire, 30 milioni di euro].

«La mattina del 30 maggio 1860, mentre l’alba era ancora nitida e luminosa, il signor De Palma, telegrafista ottico, se ne stava sull’osservatorio del Palazzo Reale di Palermo con l’incarico preciso di vigilare se mai apparisse sulla strada di Villabate un luccichio d’armi e un muoversi di truppa: sarebbero stati i battaglioni del Generale Von Mechel, i quali accorrevano a percuoter sul fianco e a spezzare l’attacco garibaldino. Quel Von Mechel, da buon tedescone, faceva sul serio. Il De Palma era impaziente e aveva le sue buone ragioni perché c’era di mezzo l’armistizio famoso, sintomo e preludio di capitolazione, il quale doveva concludersi quella mattina stessa tra Borbonici e Garibaldini, a mezzogiorno in punto, sempre che non fossero arrivate prima le truppe scelte di Von Mechel, in cui solo schieramento avrebbe capovolto la situazione, chiudendo le camicie rosse in una trappola irta di carabine e di cannoni. Che se poi quelli fossero giunti più tardi, ad armistizio firmato, avrebbero dovuto starsene cheti anche loro con l’arma al piede, e di vittoria – o magari soltanto di salvezza – non si sarebbe parlato più. La soluzione di questo nodo era tutta nella buona vista del Signor De Palma, che sinceramente in cuor suo sperava di veder avanzare da Villabate quei famosi cannoni, quei cavalli, quelle baionette, quelle salmerie, prima di mezzogiorno. E infatti li vide; anche senza cannocchiale n’era certo, anche a occhio nudo. Scorse lontano sulla strada un luccicar d’armi e un polverone frazionato e regolare, che era segno di una colonna di milizie scaglionate in marcia. Balzò di gioia nell’animo e in tutta fretta mandò a informare rispettosamente Sua Eccellenza il Generale Lanza, alter ego di Sua Maestà (Dio guardi). Viene su il Generale Lanza, piano piano (ha l’età sua, poveretto!), trascinando dispettosamente la sciabola, e guarda e sbinoccola a dritta e manca: “Addò stanno? Polvere? Qua polvere? Umh… Mha! Corre il desio veloce, dello mio!”. Si torse i mustacchi, si ficcò un dito tra solito e collo e sbadi- gliando disse: “Niente, niente…: nuvole basse”. Fulminò con un’occhiata lo sbalordito telegrafista ottico e corse giù ad affrettare l’armistizio. Arriva dopo un’oretta il Generale Marra sbuffando cordialmente per via dei molti gradini che ci vogliono per arrivare lassù, lui piuttosto bolso e un tantin gravante: “Neh, guagliò, fammi vedere queste famose truppe…”. Il De Palma si sbracciava, quasi smanioso, perché quelle s’erano avvivate un bel po’: “Ecco i cannoni, signor Generale, i cavalli, le salmerie…”. “Seh! E pure l’anema ’e chi t’è… tu chi buò fa’ fesso?” E il Generale si raschiò la gola: “Giovanotto, tu hai dormito bene sta’ notte o staie sunnano ancora? O, al contrario, ti fossi fatta ’na bevutella di primo mattino, a stomaco vuoto?”. Egli voltò solennemente le spalle. Sull’uscio dell’osservatorio si diede una passatina al ventre per stirare le pieghe della tunica e andò via, solenne e furioso insieme. Un’altra ora, e saliva sulla torre il Capitano Rada ad accertarsi, per ordine di Sua Eccellenza, che i soccorsi non arrivavano ancora. “Capità” si precipitò il povero telegrafista: “Capità, presto correte da Sua Eccellenza, ché quelle stanno arrivando, le reali truppe! Mò si riconoscono pure i colori delle tuniche!”. Il Capitano guardò, aggrinzò la fronte e strinse le labbra: “Uhm… vedi un po’ che scherzi ti fa il sole sulla campagna! Che magari ti sembrano gente che cammina, soldati, o che so… e invece è il sole che scherza con le ombre… uno magari ci giurerebbe… stranissimo! Vedi mò che ti fa la natura! Sei stato a Messina tu, no? Embè, hai visto mai, o nessuno t’ha mai detto il fatto della fata Morgana? Vedi case dove non ci stanno, uomini, barche, cose, dove non ci sta niente… beh, tutto questo dovrebbe essere un fenomeno analogo. Tutta natura, è”.
“Qua’ natura, capità?”, strillò il De Palma. “Non li vedete i pantaloni rossi dei carabinieri e i giubbetti celesti dei lanceri con l’elmo che pare d’oro in capo? E i cannoni sui muli pure quelli so scherzi? Pazzielle? Capi- tà, ca’ nisciuno è fesso!”. E gli veniva da piangere per la grande passione e anche perché gli pareva che lo volessero far passare per matto. Il Capitano fece un sorrisetto, strizzò l’occhio e domandò: “Neh, don De Pa’, tu che bbuò ’a me? Se Sua Eccellenza, che è Generale in capo e niente di meno che alter ego, non ci vede, perché devo vedere io che sono soltanto un subalterno di Stato Maggiore? Politica… misteri… e ci debbo rimettere io? Aggì ’a fa ’o martire? Impara anche tu che mo sono arrivati tempi nuovi, perché quegli occhi che ti servivano bene sotto la buonanima di Ferdinando, mo, co su ’Re nuovo, guaglioncello, nun te servono cchiù”».
E il De Palma si strinse nelle spalle, avvilito sì, ma non meravigliato. Subito dopo l’Autore fa una precisazione che riteniamo doveroso riportare con la relativa nota bibliografica:
«Questa che c’è narrata non è una favoletta o un’estrosa invenzione. Si può leggere (e chi vuole la tenga per apologo) nella Cronaca degli avvenimenti di Sicilia, estratta da documenti riportati. Le parole non saranno state proprio queste, perché abbiamo voluto dare una forma drammatica all’episodio, costruendo un dialogo, ma la sostanza è quella, fedelmente conservata»

Rosalino Pilo era figlio di Gerolamo conte di Capaci e Antonia Gioeni dei principi di Bologna e di Petrulla, un titolato praticamente, nacque il 15 luglio del 1820 e insieme all’altro nostro caro compatriota Giuseppe La Masa organizzò la rivolta del 1848 a Palermo. Rosolino apparteneva alla Massoneria, come emerge anche dal discorso di Ernesto Nathan, Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, fatto il 21 aprile del 1918 a Roma. Rosolino Pilo trova la morte in circostanze che definire strane è poco. Quel giorno si trova a San Martino delle Scale, alle porte di Palermo. Con lui ci sono personaggi non esattamente cristallini: in pratica, picciotti di mafia. Non c’è da stupirsi perché, a Palermo, a volere la ‘rivoluzione’ contro il Borbone sono alcuni nobili che contano di mantenere i propri privilegi nell’Italia che nasceva e i mafiosi che, dal 1860 in poi, sarebbero diventati parte importante dello Stato italiano. Sulla strada che li conduce a Palermo Rosolino Pilo e i picciotti di mafia incontrano un gruppo di soldati Duosiciliani che i generali corrotti del Regno delle Due Sicilie non erano riusciti a bloccare. Lo scontro è inevitabile. Pilo cade ferito a morte, la sua morte avrebbe lasciato un vuoto notevole nello schieramento garibaldino. Venuto meno Rosolino Pilo, le squadre dei picciotti si disperdono. La battaglia di San Martino si conclude quindi con la vittoria del Capitano Del Giudice e dei soldati Duosiciliani”.

l Generale Migy spezza la spada, perché il Luogotenente Lanza gli ha ordinato di non combattere contro l’Armata Anglo-piemontese-garibaldina e mafiosa: Francesco II ha appena inviato da Napoli due piroscafi con a bordo due battaglioni di Carabinieri Esteri, tutti soldati motivati e di alta professionalità. Sono prevalentemente svizzeri, tirolesi e bavaresi «napoletanizzati» e sono comandati dal valoroso Generale Aloisio Migy. Se intervenissero in un’azione contro l’Armata Garibaldina ne uscirebbero vincitori senza grande fatica. Ma il Lanza saprà renderli inoffensivi. Il 28 maggio le due navi sono alla rada nel porto di Palermo e vengono fatte avvicinare alla cittadella di Castellammare. Con il loro apparire hanno già messo in pensiero l’Ammiraglio Mundy ed ovviamente anche i Garibaldini ed i picciotti di mafia.
Il Migy chiede, ma non riesce ad ottenere l’autorizzazione, di fare sbarcare le proprie truppe. È scandaloso!
Il Generale sbarca pertanto da solo e si reca al Palazzo Reale per parlare e per prendere direttamente disposizioni dal Lanza. Questi prende tempo. Dispone che i Carabinieri restino ancora sulle navi, in attesa di disposizioni. Dopo molte ore di attesa, arriva finalmente l’ordine del Luogotenente di fare rotta su Sferracavallo, borgata marinara a diversi chilometri dalla cittadella. Lì i Carabinieri Duosiciliani potranno sbarcare. Ma il loro calvario morale e politico, ed anche militare, non è terminato. Pur volendo combattere, i poveri militari, dopo lo sbarco, con una lunga marcia si dovranno recare nei pressi del Palazzo Reale per acquartierarsi e restare immobili nel quadrilatero del disonore, assieme alle altre migliaia di uomini validi, obbligati a restare oziosi per consentire a Garibaldi di vincere senza problemi. Il Migy non ci sta. Protesta energicamente con il Lanza. Il quale non molla e ripete gli ordini già impartiti, minacciando il peggio.
Il Luogotenente, che in Sicilia è l’alter ego del Re Francesco II, infatti, sa anche essere autoritario e sa farsi obbedire. Il Migy è costretto ad obbedire. Lo fa, però, soltanto dopo avere spezzato la propria spada in segno di protesta. E di dispregio per il Luogotenente. Anche se il malcontento della base aumenta, il Lanza non se ne preoccupa eccessivamente, perché ora sa di averla spuntata anche con il Migy. La tregua alla quale lavora, lo toglierà ben presto dall’imbarazzo e dai pericoli di una rivolta militare.

Palermo. La storia – totalmente falsa – ci ha tramandato di una città “in fiamme” accanto a Garibaldi e ai suoi “valorosi”. I “valorosi”, in realtà, a parte i mercenari ungheresi, erano i picciotti di mafia. Ma tutti – Garibaldi, garibaldini e mafiosi, come ci racconta Giuseppe Scianò – erano spacciati. Sono i generali borbonici, traditori senza ritegno, che, d’accordo con gli inglesi, impongono una grottesca tregua per salvare Garibaldi e i suoi degni compari mafiosi. E poi si chiedono perché in Italia la mafia vince sempre…

fonte

https://unpopolodistrutto.com/page/5

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