NOSTALGICI COME IL CIENZO DI BASILE
ormai la letteratura è in piena crisi e se non fosse per i continui aiuti di stato, nel mondo intero, già sarebbe morta. la gente è stanca ma forse direi annoiata dove si parla dell’io, delle proprie ansie, delle proprie angosce, dell’astrattismo in senso puro senza che alla fine si quaglia qualcosa. a questo punto torna prepotente la narrativa, la storia, romanzi storici, che parlano di vita concreta di storie di uomini di miti, di leggende perché la gente soltanto potendo tornare a sognare o a immedesimarsi in storie riesce a distrarsi dalle ansie quotidiane e pensieri avvelenati. I radical chic di sinistra o giacobini chiamano questa novità, ma per noi che siamo figli della terra dei miti e abbiamo mangiato pane e grecia da sempre, historyselling e snobbando il fenomeno non riescono a capire perché e non comprendono perché Lu cunto de li cunti di Basile sia diventato un fenomeno planetario di grande spessore e che piace come piaceva 500 anni fa. Alcuni, incapaci di confrontarsi con il ragionamento attaccano il ragionatore, ci chiamano nostalgici ed io rispondo come rispose alla stessa accusa Ferdinando Russo a Benedetto Croce, ” se il passato è più bello del presente allora sono orgoglioso di essere un nostalgico” di seguito un bel articolo del Prof. Francesco Iodice preso da Chiaiamagazine.it.
NOSTALGICI COME IL CIENZO DI BASILE
Tutti dobbiamo qualcosa a Giambattista Basile – nato e morto a Giugliano (1566-1632) letterato e scrittore italiano di epoca barocca, primo a utilizzare la fiaba come forma di espressione popolare: dal Maestro De Simone (che ha curato un’edizione in napoletano corrente)con La gattacenerentola, a
Enzo Moscato e tanti altri. E soprattutto noi lettori gli dovremmo chiedere scusa perché abbiamo
letto e continuiamo a leggere poco il suo capolavoro Lo cunto de li cunti ovvero Lo trattenemiento de
le piccirille, una raccolta di 50 fiabe in lingua napoletana, scritta tra il1634 e il 1636.
L’opera, nota anche come Pentamerone, è costituita da 50 fiabe, raccontate da 10 novellatrici
in cinque giorni. Chi non ha letto il libro e non è cresciuto con le favole della raccolta fantastica a fosche tinte, come
possono esserlo solo le “pitture nere” di Goya, si è perso il sensodell’eterna infanzia. Non ha assistito
alle inenarrabili diarree di diamanti da parte di un asino, non ha temuto le terribile vecchie
vanitose che – pur di ritornare giovani e belle (era già il tempo della chirurgia plastica) – non
esitavano a farsi spellare, anzi scorticare vive dal macellaio (la fiaba A vecchia scurtecata è una
delle tre riprese nel film di Garrone, assieme a ’O pòlece e ’A cerva fatata). Senza dilungarci in giudizi
o critiche letterarie, è possibile fornire un ulteriore esempio dell’opera di Basile, accennando al
racconto ‘O mercante, settimo della giornata prima, che arieggia un addio ai monti “sui generis” ma
per niente manzoniano. Cienzo deve scappare via da Napoli perché, giocando, ha colpito alla testa
con una pietra il figlio del re: arrivato in alto – verso Capodimonte –si ferma ad ammirare il paesaggio,
la città, poi prorompe nel suo personalissimo “addio”: «Tienete, ca te lasso, bello Napole mio. Nun
me pozzo spartere da te bella Chiaia, senza portare mille piaghe a stu core (da bambino, nella
piazza del paese, sentivo spesso il ruspante e ignorante nobilotto, di ritorno dalla passeggiata nella
zona-bene di Napoli, italianizzare goffamente il nome del quartiere, dicendo agli amici del Bar dello
Sport: “Sono stato a via Piaga”, ritenendo il termine “chiaia” la versione volgare di “piaga”), addio
pastinache e foglia molle, addio zeppole e migliaccie, addio vruoccole e capecuolle! Addio callo ‘e
trippa c’’o limone, strùffole e casatielle! Addio cajonze e ciento figliole, addio, scior’’e tutt’’e città,
Napule. Io me parto pè stà sempe vidovo d’’a menesta ‘mmaretata».
Come potremmo, anche noi, meridionali nostalgici, tenacemente legati alla terra d’origine
una volta schiodati dalla città fare a meno del ragù, delle braciole, del soffritto e carnacotta, degli
struffoli e della pastiera? Mia figlia Francesca, meno prosaicamente, mi ha inviato un inequivocabile
sms dalle brume di Londra: «Papà, rimpiango Capri». Chi potrebbe darle torto?