Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

Nota informativa n. 8 gennaio-aprile 1998

Posted by on Mar 16, 2022

Nota informativa n. 8 gennaio-aprile 1998

Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa lettera-riflessione del dott. Sandro Totti, medico in Ancona ed esponente del comitato per le celebrazioni del bicentenario dell’insorgenza di Servigliano (Ascoli Piceno).

IL RICORDO E IL PERDONO

Servigliano, piccolo centro del fermano, noto agli architetti come esempio di “civitas perfecta”,cioè edificata tutta in una volta, conosceva bene la vicenda della sua costruzione: nella seconda metà del 1700 il paese vecchio franò irreparabilmente e il pontefice Clemente XIV ne volle la ricostruzione secondo il progetto dell’architetto Bracci. Le abitazioni popolari furono uno dei primi modelli di “case a riscatto” in quanto assegnate dietro modica obbligazione: fu un’operazione di “buon governo pontificio”, per cui il paese assunse il nome riconoscente di Castel Clementíno, mutato poi nell’antico nome dopo la conquista piemontese delle Marche da parte del generale Cialdini vincitore a Castelfidardo nel 1860. Quasi del tutto dimenticati erano invece il saccheggio l’incendio e la strage che il paese subì alla fine del 1700, quando Castel Clementino, divenuto quartier generale degli Insorgenti, fu attaccato all’improvviso da truppe francesi e giacobine. Era il 28 maggio 1799; il parroco dell’epoca accanto ai nomi dei trucidati, annota commosso: “Supradicta dies fuit amara valde huic misero et infelici Oppido, quod fuit prorsus depopulatum a perfidis et iniquis Gallis, assocíatís non paucis eiusdem factionis hominibus, presertim firmanis, a quibus factae fuerunt victimae homines sequentes [seguono alcuni nomi]. Poche ore prima, oltre il fiume Tenna in piena, i francesi avevano sorpreso gli insorgenti e nello scontro era rimasto ucciso Luigi Navarra, giovanissimo figlio del generale Clemente che cercava di organizzare le truppe popolari, coraggiose ma piuttosto scoordinate. Una croce, pietosamente posta nel luogo della battaglia, fu meta di annuali processioni per molto tempo.

Gli anni post-unitari, umbertini e giolittiani trascorsero sonnacchiosi per il paese; poi vennero la bufera fascista, le vicende belliche, la ricostruzione e infine la rivoluzione produttiva con la trasformazione di una società contadino-artigianale in una industriale e dei servizi, consumistica e secolarizzata. è avvenuta in tutta Italia questa omologazione culturale per cui giovani e vecchi, uomini e donne, campagnoli e cittadini, ricchi e meno ricchi, conducono una vita molto simile, tumultuosa e dissipata, informati di tutto e competenti poco, intimamente persuasi di vivere nel modo migliore e di essere avviati verso un inarrestabile progresso. Una vita quasi senza casa perché si vive fuori tutto il giorno e quando si fa ritorno si è nuovamente trasportati fuori da telefono e televisione, una vita ove il nuovo rimpiazza il nuovo continuamente e dove si fa fatica a capire da dove si viene e dove si è diretti.

Il tempo provvidenziale del giubileo invita però alla riflessione sul senso della vita individuale e delle comunità piccole e grandi. Chi non sa da dove viene e dove è diretto è una sorta di vagabondo che finisce per comportarsi come tale tra incertezza e rapina, mentre chi sa da dove viene e dove è diretto è un viaggiatore; la sua cultura è diversa.

Se dunque questo è il tempo della riflessione, esso è anche il tempo della storia.

Si ha l’impressione che termini ora l’epoca delle ideologie che, forse in buona fede, si credettero salvifiche e si scoprirono sanguinarie, derivazione non prevista di quell’illuminismo che ebbe l’illusione di fare uscire l’uomo dallo stato di minorità facendolo guidare solo dalla ragione. Finisce l’epoca dei grandi stati nazionali e sta davanti a noi la sfida istituzionale: che assetto dare al mondo? Chi deve guidarlo, gli stati del G7 o l’ONU e quale ONU? L’attuale o quella dei popoli, indicata dal Santo Padre? E quali assetti, quali costituzioni, quali abiti per i popoli, per le comunità, per i corpi intermedi?

E ancora quali i rapporti tra popoli ricchi e organizzati e quelli più poveri? E quale il modello educativo da proporre ai giovani?

Di fronte a questa prospettiva è giusto rivedere il passato, almeno quello prossimo, come nipoti che interrogano i nonni con curiosità mista a rispetto, alla riscoperta delle proprie radici; così fa il paese di Servigliano la cui breve storia ebbe un esordio così drammatico quando fu di prepotenza coinvolto in una vicenda che interessò l’Europa nella sua interezza e che solo ora volge al termine.

Un comitato comunale organizzerà un convegno storico sull’insorgenza europea e locale e intanto va coordinando una serie di iniziative culturali tra cui ha trovato posto l’otto dicembre scorso una conferenza di Cleto Bellucci, arcivescovo emerito di Fermo, dal titolo Il Ricordo e il Perdono.

L’Antico Testamento parla di un Dio che sa perdonare al suo popolo, anche se esige l’espiazione, e il Nuovo estende il perdono ai nemici e ai carnefici, all’apostolo che rinnega, e forse anche a quello che tradisce, al quale sembra venire offerto fino all’ultimo un appiglio al pentimento.

Il perdono esige peraltro la memoria perché ricordare il mal fatto può diventare saggezza e fedeltà: “il mio peccato mi sta sempre davanti” dice il salmista.

Ricordare dunque per perdonare e comprendere che il male è sempre possibile, anche se non finisce mai di stupire questa nostra libertà di poterlo commettere. Forse la dimenticanza degli orrori passati è una premessa per quelli futuri, anche se il semplice ricordare non è sufficiente.

La storia abbonda di violenze e soprusi, ne commisero certamente rivoluzionari ed insorgenti; una ricerca storica puntigliosa fino alla severità è segno di civiltà come civile è il perdono. In effetti perdonare si deve, ma ciò non esime dal ricordare perché il perdono non è affatto smemoratezza. Se diventa smemorato esso si sfibra nella noncuranza e diventa ininfluente, mentre se ricercato e donato è capace di influenzare per sempre la vita.

Si parla di “Etica del futuro” che impone una responsabilità non limitata al qui e adesso,ma estesa alle generazioni future alle quali è doveroso lasciare un mondo vivibile e la fruizione dell’ambiente naturale e delle opere della bellezza e della scienza. Così deve esistere un’”etica del passato” che ci obbliga a parlare con verità, se non con indulgenza, di coloro che ci hanno preceduto talora in maniera esemplare. Di qui la nobiltà della storia e l’esigenza che essa non sia epopea di vincitori o rivincita di sconfitti ma affettuoso interesse verso il passato verso il quale non abbiamo debiti di celebrazione ma solo di ricordo nella verità. Nella Patria che non muore, forse ci sarà concesso di incontrare quegli uomini; da essi sentire quel che veramente accadde senza restar confusi per aver parlato avventatamente e giudicato per sentito dire.Sandro Totti, presidente del comitato“Amici di Castel Clementino”

Ancona, domenica 14 dicembre [1997], terza di Avvento. 

Riceviamo anche la seguente precisazione — datata 25-1-1998 — del prof. Gianfranco Emilio De Paoli di Pavia, che trascriviamo integralmente.

Ho ricevuto la nota N.7 dell’Istituto a cui Ella appartiene. A p. 4 trovo un’osservazione che mi riguarda. Non intendo imbarcarmi in polemiche, ma desidero rispondere, pregandola di dar cenno delle mie note sul prossimo numero.

Innanzitutto dirò che non ho inteso dare al brano da Lei citato una connotazione dispregiativa, ma solo definire la mia diversa posizione storiografica sul periodo in questione. D’altra parte in questo campo non mancano giudizi per così dire “ideologici” da cui io ho sempre preso le distanze, sia da quelli di sinistra che da quelli di destra.

E non vi è dubbio che l’Istituto si ispiri a questi ultimi; basti leggere le pubblicazioni che sono proposte e la rivendicazione stessa dell’evento vandeano in nome della “tradizione” che farebbe premio sul principio rivoluzionario.

Ma io rispetto, ripeto, anche queste posizioni che certo non condivido. E so perfettamente che sono state ribaltate le posizioni di Lumbroso in chiave appunto legittimistica e non certo risorgimentale (come poi si concilino queste posizioni con la ricerca di una indefinita “identità nazionale” da ritrovare, proprio non capisco).

Si dimentica inoltre, per ritornare all’argomento, che nel libro da me curato, criticato anche dagli ultra-democratici del versante opposto, che io mi sono occupato al parziale revisionismo della rivolta contadina di Pavia, mettendo in luce la figura di don Paolo Bianchi e degli altri trucidati in un’insurrezione che ben chiaramente ha sue giustificazioni morali e anche politiche.

Quando si cita un libro occorre essere puntuali e precisi.

E magari si potrebbe rilevare che la frase della mia introduzione “giacobini e legittimisti fanno parte della nostra storia” costituisce un modo nuovo di intendere quei lontani fatti. Discorso analogo vale anche per la storia contemporanea, se si vuole finalmente trovare un terreno comune su cui ricostruire il concetto di nazione senza riaprire nuovi steccati, svalutando in definitiva il Risorgimento che ebbe le sue basi con l’età napoleonica nel bene e nel male.

Queste posizioni se non sbaglio, sono quelle del compianto Renzo De Felice, che appunto studiò l’età giacobina per poi approdare in quella contemporanea.Tanto Le dovevo. 

Cordialmente.Gianfranco De Paoli

Evitiamo a nostra volta ogni polemica, soprattutto sulle ribadite considerazioni relative a un asserito orientamento politico dell’Istituto, che, oltre che “ultra-cattolico” e “legittimista”, viene stavolta accusato di formulare “giudizi […] “ideologici” […] di destra[,nonché di effettuare] la rivendicazione dell’evento vandeano in nome della “tradizione” […]”. Ci limitiamo a confermare che l’intento dell’ISIN è scientifico nell’atteggiamento e nella metodologia con cui conduce la sua ricerca, che non resta viziata da pregiudiziali ideologiche o politiche. Esso, per altro verso, non è, come lecito, culturalmente neutro quando si tratta di sottoporre a valutazione il portato della ricerca. Prendiamo atto che il prof. De Paoli intende rettamente il giudizio che l’Istituto dà sulle tesi proto-risorgimentalistiche di Giacomo Lumbroso, mentre tralasciamo invece di soffermarci sulle critiche di metodo formulateci, che riteniamo senz’altro immotivate. Concordiamo con il prof. De Paoli anche sull’atteggiamento “revisionistico” e innovativo con cui occorre accostare il fenomeno dell’Insorgenza, senza escludere quella della Vandea francese, uno dei primi esempi di genocidio politico dell’età contemporanea. Riguardo alla svalutazione del Risorgimento, ci permettiamo infine di osservare che il suo “ridimensionamento” storico ed emotivo è già in atto ed è a nostro giudizio un fenomeno inevitabile. Ciò non conduce però obbligatoriamente a rimettere in discussione lo Stato nazionale, ma solo a riscoprire serenamente i caratteri della sua genesi e affermazione per fare sì che la sua rifondazione costituzionale, oggi in atto, avvenga maggiormente in armonia e in continuità con le radici e con l’ethos pluri-secolari della nazione italiana. 

fonte

http://www.identitanazionale.it/boll_m008.php

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