Alta Terra di Lavoro

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Mafia e Massoneria italiana: l’infamante deriva

Posted by on Ago 22, 2019

Mafia e Massoneria italiana: l’infamante deriva

Il giudice Giovanni Falcone, con grande acume, così commentava l’iniziazione dei mafiosi a ‘cosa nostra’ evidenziando l’estrema pericolosità ed efficacia delle forme ritualistiche utilizzate dalla criminalità organizzata per arruolare i suoi accoliti: “Si può sorridere all’idea di un criminale, dal volto duro come la pietra, già macchiatosi di numerosi delitti, che prende in mano un’immagine sacra, giura solennemente su di essa di difendere i deboli e di non desiderare la donna altrui. Si può sorriderne, come di un cerimoniale arcaico, o considerarla una vera e propria presa in giro. Si tratta invece di un fatto estremamente serio, che impegna quell’individuo per tutta la vita. Entrare a far parte della mafia equivale a convertirsi a una religione. Non si cessa mai di essere preti. Né mafiosi.” (G. Falcone, Cose di Cosa Nostra, ed. Rizzoli, Milano,1991, pag.97; citato in L’inganno della Mafia di Nicola Gratteri-Antonio Nicaso, ed. Rai Eri, Roma, 2017).
Il magistrato siciliano, geniale e coraggioso giudice istruttore del maxi-processo di Palermo, vero e attuale martire hiramitico, avvertiva come l’aspetto rituale dell’affiliazione alla criminalità organizzata rivesta un ruolo focale costitutivo della stessa esistenza e struttura mafiosa, e pur non essendo un esperto occultista, Falcone da fine investigatore aveva compreso che l’apparato esoterico-ritualistico portava a un vero e proprio cambiamento di status, di nuova nascita del delinquente nella più ampia e potente eggregore psichica criminale.
Dal punto di vista storico, il fenomeno della pratica di specifiche forme ritualistiche per entrare a far parte di un gruppo di persone dedite al crimine si verifica già nelle cosiddette societas scelerisdell’antica Roma, dove gli appartenenti offrivano sacrifici a Mercurio, dio dei ladri, e praticavano varie prove d’ingresso per testare i nuovi soci, oltre ad altre forme cerimoniali.
La mafia siciliana e la ‘ndrangheta calabrese ricalcano questa tradizione, perché comprendono inconsciamente l’importanza di costituire insieme non solo una sommatoria di individui, ma di creare un vero e proprio Ente a sé stante formato dalle energie e dalle volontà dei singoli dirette verso uno scopo comune, in questo caso la creazione di un potere anti-statale volto esclusivamente all’arricchimento del gruppo e dei singoli, commettendo delitti e nefandezze.
E’ il concetto occultista dell’Eggregore, termine apparso nel 1857 negli scritti di Victor Hugo ed utilizzato in  ambito ermetico-esoterico nel senso di forma-pensiero collettiva  da Eliphas Lévi, concetto ripreso da Annie Besant secondo cui si tratterebbe di una sorta di vibrazione emanata da un individuo o da un gruppo, che continua a vivere di vita propria, alimentandosi dello stesso tipo di pensieri da cui è stato generato, inducendo perciò le persone con cui entrano in contatto a continuare a svilupparli.
In sintesi, nella fattispecie dell’eggregore mafiosa, si tratta di un’entità psichica che ha il Male come oggetto della propria attività, dove i suoi adepti sono caduti nelle tenebre più profonde per ottenere potere e vantaggi materiali, il tutto camuffato da principi e da regole dal sapore tutto tribale dove bene e male si confondono, invertendo subdolamente i punti cardinali dell’anima.
La Massoneria che cosa c’entra in tutto questo?

Il 22 dicembre 2017 la Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo (DNAA) afferma per la prima volta l’enorme interessi di cosa nostra e ‘ndrangheta per la massoneria deviata, indicando ben 193 soggetti affiliati alla criminalità organizzata e nel contempo membri delle più importanti obbedienze massoniche italiane, di cui 122 iscritti al Grande Oriente d’Italia, 58 alla Gran Loggia Regolare d’Italia, 9 alla Gran Loggia d’Italia di Palazzo Vitelleschi e 4 alla Serenissima Gran Loggia.
Oltremodo inquietanti risultano le dichiarazioni dell’ex Gran Maestro del Grande Oriented’Italia, Giuliano Di Bernardo, il quale ha svelato alla magistratura che una compenetrazione tra massoneria e la ‘ndrangheta ci sarebbe sempre stata, precisando, nel corso di un interrogatorio, che  ciò  che accomuna l’appartenenza massonica e quella mafiosa risiederebbe, come vero e proprio punto di giuntura, nel ‘rituale’ poiché in entrambe le cerimonie iniziatiche si usano forme rituali che hanno lo scopo di vincolare l’adepto ad un segreto, e ciò avrebbe facilitato proprio la fusione in Calabria e in Sicilia tra Mafia e Massoneria.
L’affermazione dell’ex G.M. Di Bernardo appare troppo semplicistica e non aiuta sino in fondo gli investigatori, perché, il mafioso è attirato sia dalla riservatezza che la massoneria può garantire che dal legame ‘fraterno’ che si crea in loggia ed inconsciamente anche dalla componente che investe i cosiddetti campi sottili energetici sviluppati dall’eggregore latomistico.
Dal punto di vista iniziatico, perché questo è il piano sottile d’azione, non bisogna fare confusione sul concetto e funzione del silenzio, infatti, nelle forme rituali massoniche ci si riferisce esclusivamente al silenzio iniziatico, al divieto di svelare rituali allo scopo di preservare e proteggere l’eggregore, come ha ben evidenziato Fernando Pessoa nel suo libro “Pagine Esoteriche”, mentre il silenzio mafioso è diretto alla conservazione del gruppo criminale per commettere i vari crimini e arricchirsi, tutelandosi così nei confronti delle forze dell’ordine e della magistratura per non essere scoperti.
Il massone al contrario, come Landmark costitutivo, deve rispettare le leggi dello stato a cui appartiene, essere un buon cittadino e portare avanti con la propria condotta principi di correttezza e, soprattutto, di legalità.
Certamente, il mafioso cerca ambienti riservati dove poter venire a contatto e conoscere persone influenti che possano servire per avere i più svariati favori, ad esempio, nel campo dei lavori pubblici o, come espressamente evidenziato dalla Commissione parlamentare antimafia, in ambito giudiziario.
Pertanto, colui che è indirettamente coinvolto con gli ambienti mafiosi si iscriverà con le proprie generalità all’obbedienza massonica e farà da trait d’union con le cellule ‘ndranghetiste, altrimenti, il personaggio  direttamente implicato, l’uomo cosiddetto d’onore, si farà iniziare con tutte le cerimonie previste dal rituale nell’atelier massonico ma senza figurare negli elenchi, oppure fornendo una falsa generalità, peraltro, non verificata, pretendendo, grazie all’ingresso in loggia, un automatico aiuto solidale per il fatto di essere un ‘fratello’.
È vero che la Libera Muratoria utilizza cerimonie rituali per iniziare i fratelli massoni e creare così l’eggregore latomistico che deve costruire, però, il Bene dell’Umanità e, come recitano le formule ritualistiche, ‘scavare oscure e profonde prigioni al vizio’, aprendo i lavori di loggia alla pagina del Vangelo di San Giovanni, là dove recita: “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di Lui e senza di Lui nulla è stato fatto di ciò che esiste. In Lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta”.
Con l’iniziazione massonica, l’adepto riceve la luce, quella sorgente luminosa che viene evocata nel vangelo di San Giovanni, la luce divina del Figlio dell’Uomo che è sostanza di vita e, pertanto, solo al bene devono essere rivolti i pensieri e le azioni del fratello massone; è indubbia la natura ‘cristica’ dell’investitura se viene utilizzato il Vangelo! È intuitivo rendersi conto che nella societas sceleris mafiosa si riceve una luce di segno opposto o meglio la parte degradata della luce astrale che sfocia nelle tenebre.
Per comprenderne il significato esoterico ci sono d’aiuto le riflessioni di Eliphas Levi, il quale identifica la Luce Astrale proprio con Lucifero; simbolicamente il Drago è l’antico glifo della Luce Astrale che parte dal più puro piano spirituale per scendere gradualmente fino a divenire grossolana e, sul nostro piano, diventare il Serpente tentatore ed ingannatore.
Lucifero, identificato simbolicamente nella Luce Astrale, è una forza intermediaria esistente in tutto il creato, serve a creare ed a distruggere, così come la natura del fuoco: l’uso corretto ed equilibrato riscalda e vivifica, l’eccesso sconvolge e distrugge, infatti, come agente negativo e disequilibrante, essa è il Fuoco dell’Inferno.
Ora, alla luce della devastante penetrazione mafiosa accertata dalla Commissione Antimafia, il ‘fuoco dell’inferno’ è penetrato nelle logge delle varie obbedienze massoniche italiane, secondo le evidenti risultanze investigative, inquinando la struttura non solo da un punto di vista social-giudiziario ma infettando e alterando l’intero eggregore latomistico anche sotto l’aspetto occulto più profondo, fenomeno questo ancora peggiore per quanto riguarda il piano esoterico-iniziatico.
Se, infatti, secondo quanto dichiarato correttamente dal Gran Maestro del GOI la massoneria è una società iniziatica non settaria, dal punto di vista tecnico-occultista saremmo di fronte a un vero e proprio fenomeno di contro-iniziazione dell’intero eggregore latomistico.
Secondo quanto emerso dalle indagini effettuate sia in Calabria che nel nord Italia, sfociate in varie sentenze che hanno compiutamente affrontato il tema dell’“associazione segreta” e i rapporti tra massoneria e ‘ndrangheta, la criminalità calabrese sarebbe composta da due entità, la prima costituita da ciò che viene appellata ’ngrangheta (sotto la protezione dell’arcangelo Michele…sic!), mentre la seconda da un altro gruppo criminale denominato la Santa.
Quest’ultima costituirebbe il ‘varco’, ossia lo strumento attraverso cui i suoi accoliti avrebbero sia il compito di trait d’union con il mondo liberomuratorio, sia quello d’infiltrarsi all’interno delle logge massoniche e di costituire a loro volta gruppi segreti, con lo scopo di penetrare maggiormente nel tessuto economico-sociale.
Infatti, questo ‘varco’ coprirebbe la necessità della struttura criminale di avere relazioni, contatti personali, di creare quel traffico d’influenze con persone del mondo politico-economico al fine di possedere sicuri canali operativi, sia nel mondo della politica e della pubblica amministrazione che in quello finanziario, per poter interferire nel campo degli appalti pubblici, nonché per trovare appoggi per poter riciclare a getto continuo l’immenso gettito di denaro proveniente dal traffico di droga.
Pertanto, non saremmo di fronte a una semplice associazione criminale ma, per quanto riguarda la mafia calabrese, si tratterebbe di una vera e propria società segreta i cui vincoli di appartenenza vengono dettati da regole settarie ben precise, che affondano le proprie radici nella più profonda conoscenza dell’occultismo magico e nelle più fini capacità di utilizzare simboli e rituali per fondare, alimentare e preservare il proprio eggregore criminale rivolto al Male contro l’autorità statuale costituita, minando così alle fondamenta la società civile.
Risulta, quindi, incomprensibile, sia dal punto di vista morale che iniziatico, il comportamento tenuto dal Grande Oriente d’Italia nel momento in cui il suo rappresentante si è rifiutato di consegnare i nominativi richiesti dalla Commissione Antimafia – subendo poi una conseguente umiliante perquisizione e sequestro delle liste richieste – giacché in questo modo si è violato un Landmark essenziale che deve permeare la condotta massonica  e, precisamente, la regola che i liberi muratori devono obbedire e rispettare le leggi dello stato a cui appartengono, non valendo in alcun modo il movente di dover preservare la privacy degli iscritti.
Di conseguenza, non ha torto l’onorevole Bindi, presidente della suddetta commissione, quando rileva che: “da parte delle associazioni massoniche si è registrata una sorta di arrendevolezza nei confronti della mafia. Sono i casi, certamente i più ricorrenti, in cui si riscontra una forma di mera tolleranza che si rivelano i più preoccupanti”.
Infatti, non si comprende la motivazione di tale condotta, se non constatando una perdita inesorabile delle tradizioni esoteriche che sarebbero professate, attraverso la ripetizione delle ritualità, dalle obbedienze italiane, solo per abitudine ma non per vera e cosciente conoscenza, poiché non solo da queste non vengono applicati gli strumenti tecnico-normativi per proteggersi dalle infiltrazioni mafiose, ma ormai le associazioni iniziatiche liberomuratorie non sarebbero in grado di reagire utilizzando le tecniche rituali che dovrebbero proteggere e conservare l’eggregore spirituale iniziatico degli adepti, il cui scopo è il Bene e il Progresso dell’Umanità.
Speriamo che la tradizione degli ordini iniziatici non venga travolta da questa infamante deriva, in aiuto soccorrono le parole del poeta portoghese Fernando Pessoa, scritte nel 1936, da adattare alla concreta e attuale minaccia mafiosa: “Il piccone del Duce può distruggere l’edificio del comunismo italiano, ma non è abbastanza potente per abbattere colonne simboliche, fuse in un metallo che proviene dall’Alchimia.”

Luca Fucini

fonte https://www.riflessioni.it/massoneria/mafia-e-massoneria-italiana-infamante-deriva.htm

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IL PROF. DOMENICO SCAFOGLIO SMONTA IL RISORGIMENTO AD ATINA

Posted by on Mag 9, 2019

IL PROF. DOMENICO SCAFOGLIO SMONTA IL RISORGIMENTO AD ATINA

Negli ultimi tempi assistiamo ad un rigurgito degli storici salariati, cosi li definiva Gramsci, contro l’onda indentitaria composta da storici e saggisti autofinanziati che da anni stanno ripristinando verità storiche che vanno dal 1799 fino a tutta la prima guerra mondiale.

I Giacobini intellettuali Napoletani, orfani del Marotta e del Galasso, nella loro pochezza spirituale e professionale non sanno più come arginare questa ondata di studi e di ricerche che li sta travolgendo pensando di essere immortali, il Titanic affonda e loro continuano a suonare.

Storici Istituzionali che campano con le nostre tasse, scusate il populismo, acquistano addirittura pagine intere di giornali di tiratura nazionale per poter difendere le ragioni dei vari Cialdini, Garibaldi, Vittorio Emanuele II, Cavour, Mazzini dimenticando, in questo caso volutamente, che la storia non raccontata è venuta a galla e nessuna la nega più nemmeno negli ambienti culturali stranieri.

Altri funzionari pubblici come il compianto Giudice Rocco Chinnici o il contemporaneo Giudice Nicola Gratteri, i primi due che mi vengono in mente, invece con onestà hanno detto e dicono le cose come sono realmente andate e addirittura il Giudice Gratteri ha sferrato un duro attacco ai suddetti storici per il loro operato.

Mi è venuto in mente di organizzare una Class Action contro questi storici per farci rimborsare i soldi che, attraverso le nostre tasse, vengono utilizzati per pagare i loro stipendi di Storici così la smetteranno di dire le cavolate che dal 1860 raccontano.

L’idea sembra paradossale e fantasiosa ma non cosi peregrina e inapplicabile.

Ad Atina, sabato 13 ottobre 2018, nel convegno “Brigantaggio Postunitario visioni dall’interno” tenutosi al Palazzo Ducale che ha avuto come unico relatore il Prof. Domenico Scafoglio, è accaduto qualcosa  di inedito e sorprendente che ha bucato il muro di gomma di omertà che da decenni ci opprime e ci distrugge. Infatti è la prima volta, per lo meno in mia presenza, che un accademico dell’Università Italiana, per l’appunto il Prof. Domenico Scafoglio, afferma che è arrivato il momento che lo stato italiano giudichi gli eroi della Patria per i crimini commessi.

Inutile aggiungere altro vi invito solo a vedere il video dell’intervento e a seguire tutti i video del convegno.    

Cogliamo l’occasione per ringraziare il Comune di Atina nella persona di Adolfo Valente e la Biblioteca di Atina nelle persone di Mario Riccardi e Luciano Caira per la solita e piacevole accoglienza. Un grazie anche alla Sig.ra Ilenia Carnevale, splendida guida nella visita al Museo Archeologico di Atina.

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Togliere la statua del generale Cialdini stravolge la storia

Posted by on Mar 3, 2019

Togliere la statua del generale Cialdini stravolge la storia

L’amico e nostro associato Lucio Castrese Schiano, ci invia un articolo di una storica italiana nata a Napoli che pubblichiamo integralmente senza nessun commento perché si commenta da solo. Due cose che mi vengono in mente “versiamo tante tasse per pagare un simile personaggio”? “Benedetto Croce non si sta rigirando nella tomba”? Credo che nemmeno lui avrebbe pensato di aver creato simili disastri!!!

Senza risposta è rimasta una mia richiesta via pec, in quanto storica e presidente della Società napoletana di storia patria, al presidente della Camera di commercio di Napoli di un confronto e di un dibattito pubblico sulla delibera di togliere dalla sede della Camera di Commercio il busto del generale Enrico Cialdini, in quanto responsabile dei presunti eccidi di Pontelandolfo e Casalduni.

La decisione è stata presa senza affrontare un problema fondamentale per chi gestisce un’istituzione con antiche radici nella vita cittadina, fornita di un’importante biblioteca e di un archivio: perché gruppi imprenditoriali della Napoli di secondo Ottocento ritennero di dover fare un omaggio al generale e a Camillo Benso conte di Cavour, il cui busto è collocato nella stessa sede?

L’opportunità di tornare sul tema, già oggetto nei mesi passati di interventi che suggerivano di contestualizzare i comportamenti dei gruppi dirigenti locali in base a una valutazione del clima complessivo che dettò scelte a suo tempo condivise (Carmine Pinto, Luigi Mascilli Migliorini, Paolo Macry, Giancristiano Desiderio) si lega alla presa di posizione delle maggiori Società degli Storici in merito all’attività di “bonifica storica” di cui la decisione della Camera di commercio è una testimonianza ulteriore.

Estrapolare personaggi e eventi dalla propria epoca, per renderli invece funzionali a problemi e questioni del presente, è un procedimento diffuso, che banalizza la complessità dei problemi affrontati.

La legge n. 680 del 6 luglio 1862 stabilì in tutto il Regno italiano le Camere di commercio e di arti, con lo scopo di valorizzare le potenzialità e il mondo produttivo locali. Rispetto alla Camera di Napoli, creata da Giuseppe Bonaparte il 10 marzo 1808, che fu sciolta, quella creata nel 1862 ebbe 21 componenti, tra cui banchieri, assicuratori, armatori.

In una memoria dei suoi consiglieri del 6 ottobre 1888, rivolta ai consiglieri del Comune di Napoli in merito all’edificazione della nuova Borsa, argomento a lungo dibattuto negli anni precedenti, si ricordava l’opera del generale Cialdini, nel 1861 Luogotenente del re per le province meridionali, che aveva allora deciso di accantonare il compenso datogli dallo Stato per questo ruolo, vincolandolo alla costruzione di una nuova sede della Borsa.

Si trattava di una cifra consistente, corrispondente a 212,500 lire dell’epoca (divenute con gli interessi 1.300 lire nel 1893). Il generale esprimeva in tal modo una decisa fiducia nel futuro della città, mentre erano in atto il taglio dell’istmo di Suez, la costruzione di ferrovie e strade, i lavori nel Porto.

Chiedeva che a realizzazione avvenuta fosse posta nelle nuova sede la statua di Cavour. La cifra iniziale, incrementata con contributi del Comune, della Provincia, del Banco di Napoli, e di altri enti, non fu utilizzata che 31 anni dopo, a causa della lunghezza delle procedure per attuare il “nobile pensiero del generale Cialdini”.

Dopo falliti tentativi di collocare la costruzione in piazza Municipio, con la disponibilità di suoli durante le operazioni del Risanamento dopo il colera del 1884, il Collegio camerale, d’intesa con l’amministrazione comunale, sottoscrisse il contratto con i banchieri finanziatori dell’opera.

I componenti della Camera, nella estenuante attività per la costruzione dell’edificio, si ritenevano “mandatarii del generale Cialdini nella esecuzione di una nobile idea… e depositarii della munificenza di lui”.

L’edificio fu quindi inaugurato nell’ottobre 1889 dal ministro Salandra e i visitatori rimasero impressionati dalla “cura architettonica” dell’edificio, “opera notevole della Napoli di allora” (La Camera di commercio di Napoli e il Palazzo della Borsa, Napoli 1987, ma si rimanda ai lavori fondamentali di Giuseppe Russo e di Giancarlo Alisio).

Cura architettonica che verrebbe profondamente alterata dalla rimozione del busto del generale; nell’edificio, costruito su progetto e direzione dei lavori dell’architetto Guerra e dell’ingegnere Ferrara, tra il 1893 e il 1898, i due busti in marmo di Cialdini e Cavour furono eseguiti dagli artisti scultori professori Raffaele Belliazzi (famoso in Europa, lavorò alla statua di Carlo III sulla facciata del Palazzo Reale) e Achille D’Orsi (artista in contatto con i maggiori esponenti della scultura del tempo), in perfetta sintonia con stucchi, marmi e dipinti della sala. In occasione dell’inaugurazione i componenti della giunta della Camera, la stampa e la società cittadine ricordarono con grande riconoscenza il lascito iniziale di Cialdini.

Il clima è evidentemente cambiato e Cialdini fu anche un generale particolarmente duro nella repressione del brigantaggio, che ebbe manifestazioni crudeli da entrambi le parti in lotta, con la distruzione di interi villaggi a opera dei briganti stessi, assalto alle case dei notabili, episodi di cannibalismo e altre aberrazioni.

Va ricordato che egli era essenzialmente un militare, educato, come i suoi colleghi napoletani, nelle scuole ad hoc, che prevedevano, di fronte alla “guerra per bande”, misure radicali, attuate nelle guerre europee ottocentesche e non a caso praticate dalla dinastia borbonica nel 1828 con la distruzione del villaggio di Bosco e nel 1848-49 contro Messina.

Re borbonici pronti ad uccidere i propri sudditi con modalità identiche a quelle degli ufficiali “piemontesi”- italiani.

In base a questa serie di valutazioni la Società napoletana di storia patria, cui competono anche i pareri sulla toponomastica, si è espressa contro una visione del passato che stravolge gli spazi e il loro portato simbolico, disancorandoli dalle motivazioni che li hanno plasmati, sulla base di sollecitazioni di parte.

Una domanda infine: non esiste un vincolo delle Soprintendenze per la tutela del patrimonio storico-artistico?

Può un Consiglio di amministrazione non tener conto delle leggi dello Stato e gestire, durante un mandato a scadenza, ciò che gli è stato affidato, ignorando competenze e normative che hanno un valore più radicato e ampio di un decisionismo occasionale?

Riportato sul n. 122 del Nuovo Monitore Napolitano

ps= vorrei ricordare alla gentile Sig.ra che da tempo cerchiamo di avere un dibattito pubblico sul 1799 senza avere nessuna risposta, alla faccia della democrazia che loro tanto esaltano

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REGINA MARIA SOFIA DI BORBONE UNA EROINA DIMENTICATA (III)

Posted by on Gen 15, 2019

REGINA MARIA SOFIA DI BORBONE UNA EROINA DIMENTICATA (III)

16 gennaio 1860 Francesco II compì ventiquattro anni, e fu grande festa in tutta Napoli; i sovrani accolsero la nobiltà borbonica a palazzo reale, e fu uno spettacolo di divise, grandi uniformi, fregi, ricchi abbigliamenti; ministri, alto clero, diplomatici stranieri; le carrozze della nobiltà fecero la spola tra i fastosi palazzi aviti e la piazza di palazzo reale.

Purtroppo i sovrani di Napoli erano circondati, anche in questa occasione, da una massa di cortigiani, funzionari, militari, uomini di governo ignoranti e incapaci, tutti pronti al tradimento.

Da questi emergeva un solo statista degno di rispetto, quel Carlo Filangeri che, deluso dalle circostanze, aveva abbandonato la barca del governo nel momento in cui si addensavano, paurosamente, le nuvole della tempesta. Maria Sofia, sul trono accanto a Francesco, era splendida, affascinante, la corona reale le riluceva sull’acconciatura dei capelli, opera del più rinomato parrucchiere napoletano, quel Totò Carafa, del quale si serviva la migliore aristocrazia del Regno.

Accanto alla regina sedeva l’ambasciatore di Spagna, don Salvador Bermudez de Castro, un hidalgo dai modesti natali che si era conquistato sui campi di battaglia il favore dei sovrani di Spagna, che lo avevano nominato marchese di Lema e ambasciatore presso il governo delle Due Sicilie. Bermudez de Castro era un uomo affascinante: appena quarantenne, aveva guadagnato l’amicizia incondizionata di Francesco e la simpatia piuttosto interessata della regina.

Le malelingue del tempo, compresa Maria Teresa, lo attribuirono come amante della regina, ma in realtà fra lo spagnolo e Maria Sofia ci fu solo una forte, leale e sincera amicizia, anche perché la regina di Napoli vedeva nel de Castro tutte quelle doti e virtù che avrebbe voluto trovare nel marito.

Il genetliaco del re fu anche l’occasione del varo a Castellammare di Stabia di una potente nave da guerra, la nuova fregata Borbone, che era armata con sessanta moderni cannoni. Una delle migliori navi a vapore del tempo, che andava a rinforzare la già potentissima squadra navale napoletana: la migliore nel bacino del Mediterraneo.

Nel porto di Napoli, una grande città di cinquecentomila abitanti, la quarta metropoli d’Europa, stavano ancorate le navi militari di molti Paesi: la Bretagne, ammiraglia della flotta francese; l’Algeciras, l’Imperial; le inglesi Hannibal, Agamemnon, London; pericolosa intrusa, anche l’ammiraglia della flotta del Regno di Piemonte e Sardegna: la Maria Adelaide, comandata dall’ammiraglio Carlo Pellion di Persano, che ritroveremo nel mare all’assedio di Gaeta, e poi quale responsabile del disastro navale di Lissa nella guerra del 1866 contro l’Austria.

Fra le navi straniere la Borbone, con il suo gran pavese e i suoi lucidi cannoni schierati, faceva un bell’effetto. Ironia della sorte, la fregata, consegnata ai Piemontesi dal suo comandante traditore e ribattezzata Garibaldi, la ritroveremo con i suoi sessanta cannoni a sparare sulla piazzaforte di Gaeta contro quegli stessi carpentieri e marinai napoletani che l’avevano costruita e varata.

Frattanto gli eventi precipitavano: il Piemonte, dopo l’occupazione della Lombardia con l’appoggio militare francese, aveva conquistato tutta l’Italia centrale: Toscana, Emilia, Romagna (queste ultime terre sottratte allo Stato Pontificio) con il sistema dei plebisciti truccati.

Pio IX aveva comminato la scomunica agli usurpatori: questo atto della Chiesa aveva turbato profondamente il cattolico Francesco, che aveva rafforzato in sé la convinzione che i Piemontesi fossero i primi nemici della fede cristiana in Europa.

Nel marzo successivo giunsero dalla Sicilia i primi segni della crisi che avrebbe sconvolto e distrutto il Regno: le campane del convento della Gancia suonarono a martello annunziando lutti e sciagure. I servizi segreti napoletani avvisarono il re dei preparativi che Garibaldi andava effettuando in Liguria con il tacito consenso del governo sardo. Fu individuato anche il luogo dello sbarco: la Sicilia.

Maria Sofia, consapevole del pericolo più del marito, spinse il sovrano ad emanare disposizioni urgenti per fronteggiare l’imminente aggressione; il re allertò la flotta, concertò personalmente le misure di difesa per bloccare sul nascere l’impresa di Garibaldi.

La squadra navale napoletana era allora la più potente del bacino del Mediterraneo: comprendeva fra navi grosse e piccole 36 vascelli, fra cui 11 fregate (l’equivalente oggi dei moderni incrociatori); a capo della squadra navale era Luigi conte d’Aquila, zio del re.

L’esercito napoletano era il più potente di tutti gli Stati italiani: comprendeva 83.000 uomini bene armati e bene addestrati, senza contare i mercenari svizzeri e bavaresi, che costituivano il nocciolo duro di tutte le forze armate.

Impensabile, dunque, che 1072 borghesi guidati da Garibaldi potessero battere un siffatto esercito. Infatti, il gruppo capeggiato dall’eroe dei Due Mondi era costituito da professionisti: medici, avvocati, ingegneri, commercianti, capitani di marina mercantile, chimici; c’erano pure alcuni preti che avevano abbandonato da tempo l’abito talare.

I Siciliani erano 34:24 palermitani, 3 messinesi, 3 trapanesi, 1 catanese, e rispettivamente uno di Trabia, uno di Gratteri e Francesco Crispi, con la moglie Rosalia, di Castelvetrano.

A comandare l’esercito napoletano erano in tanti: Landi, Lanza, Nunziante, Clary; tutti incapaci, corrotti ed invidiosi l’uno dell’altro. Landi e Lanza erano addirittura ultrasettantenni e non erano più in grado di montare a cavallo: seguirono le operazioni militari in Sicilia seduti in carrozza! Pur tuttavia, se i due generali non fossero stati corrotti e inclini al tradimento, i garibaldini non sarebbero certo riusciti neanche a sbarcare.

Ma Landi, a Calatafimi, pur disponendo di una posizione strategica favorevole, le colline, e di una forza di 3000 uomini di truppa scelta, di un reggimento di cacciatori, di 20 pezzi di artiglieria, di una cavalleria forte di 1500 unità, si ritirò senza combattere, così come Lanza a Palermo consegnando la città a Garibaldi.

Quando giunse a Napoli la notizia che in Sicilia la situazione stava drammaticamente precipitando, la regina chiese a Francesco di intervenire personalmente e lo incitò a mettersi a capo delle truppe per combattere la sfiducia che serpeggiava fra i soldati, già consapevoli del tradimento dei loro generali. Maria Sofia consigliò con energia di fare arrestare Landi e Lanza e farli processare per alto tradimento.

Poi chiese che fosse richiamato a capo del governo il principe di Satriano, l’unico uomo politico in quel momento capace di padroneggiare la situazione che si andava profilando disastrosa.

Il principe di Satriano, convocato dal re, in un primo tempo declinò l’invito poiché l’età e le malattie legate alla vecchiaia non gli consentivano di adempiere con la solita premura ed attenzione all’incarico di primo ministro; cedette poi alle insistenti richieste di Maria Sofia, che si recò di persona nella villa di campagna dove il principe si era ritirato da tempo.

Filangeri dettò subito le sue condizioni, previa accettazione del suo incarico di primo ministro: proclamazione immediata della Costituzione, invio di un contingente di 40.000 uomini a Messina, che dovevano essere guidati dallo stesso re. A queste condizioni, il vecchio generale era disposto ad assumere la carica di Capo di Stato Maggiore.

La regina rinnovò con entusiasmo la sua disponibilità a cavalcare accanto al re, alla testa dei soldati, ma Francesco, sempre dubbioso ed esitante, non si mostrò favorevole alle proposte del principe di Satriano, anche perché la Corte, controllata da Maria Teresa, non vedeva di buon grado la concessione della Costituzione.

Filangeri, deluso ed amareggiato dall’atteggiamento del re, declinò il suo incarico e, sollevato, se ne tornò nella sua residenza di campagna. Furono contattati i generali Ischitella e Nunziante perché assumessero il comando supremo in Sicilia, ma essi rifiutarono.

L’alto incarico fu affidato, pertanto, al generale Ferdinando Lanza.
Francesco II, su consiglio di Maria Sofia, inviò ai comandi di Sicilia delle direttive precise ed avvedute, purtroppo disattese da comandanti incapaci di applicarle, o per inefficienza, insipienza, o per serpeggiante tradimento.

La regina continuò ad insistere affinché il marito concedesse la Costituzione, malgrado l’ostilità aperta della regina madre e di tutta la corte filoaustriaca. Segretamente trattò col Papa, e lo convinse ad inviare una lettera al re di Napoli. Il dispaccio di Pio IX giunse nella reggia di Caserta il 24 maggio 1860.

La parola del Papa fu per il re di Napoli verbo divino, anche perché il Pontefice lo esortava a non fidarsi troppo dei Savoia e di un Piemonte abilmente padroneggiato da Cavour.

Il re convocò i ministri e il Consiglio di Famiglia, ed espose fermamente la sua intenzione, scatenando la fiera opposizione di Maria Teresa, che lo accusò di mancanza di coraggio, di insensibilità e di aver ceduto alle intimazioni dei cugini sabaudi.

La sfuriata della regina madre mortificò il timido Francesco, che piegò il capo in silenzio senza reagire; reagì, pesantemente, invece Maria Sofia, che rintuzzò con orgoglio e fierezza le parole dell’ex regina ingiungendole con dura voce, appena frenata dalla rabbia, di rispettare il re e di piegare il capo dinanzi alla volontà sovrana. In quel frangente, Maria Sofia si comportò da vera regina dimostrando, ancora una volta, il suo carattere deciso e fermo e la piena lealtà che la legava al marito.

Quel giorno stesso Francesco II promulgò l’atto sovrano di concessione della Costituzione. Ma questa decisione ormai tardiva non suscitò gli effetti sperati; i liberali rimasero indifferenti anche perché i Borbone avevano già concesso altre tre Costituzioni: nel 1812, nel 1820 e nel 1848, tutte disattese nella loro promessa di libertà e riforme.

Quando giunse a Napoli la notizia della conquista di Palermo da parte di Garibaldi, la situazione precipitò drammaticamente: in città scoppiarono tumulti e violenze, ci furono scontri a fuoco fra i filoaustriaci e i liberali, e come al solito furono saccheggiati negozi, abitazioni civili; alcuni commissariati di polizia furono abbandonati e dati alle fiamme. In questo frangente drammatico il re proclamò lo stato di assedio e nominò ministro di Polizia quel Liborio Romano che poi sarebbe passato anche lui, come gli altri traditori, dalla parte di Garibaldi.

Quel momento drammatico segnò anche la divisione della Corte: Maria Teresa, i suoi figli e molti dignitari e funzionari abbandonarono la capitale per rifugiarsi nella fortezza di Gaeta.
Accanto al re rimasero pochi ministri fedeli e l’indomita Maria Sofia, che assunse subito la guida del governo, rivelando, ancora una volta, le sue doti di coraggio, equilibrio e saggezza.

Passato lo Stretto con la complicità delle navi inglesi e americane e con il favore dei comandanti di marina traditori, Garibaldi si affacciò sul continente e avanzò verso Salerno non trovando alcuna seria resistenza ad eccezione delle truppe comandate da Von Mechel e dal colonnello siciliano Beneventano del Bosco.

A Napoli il generale Nunziante, che aveva fatto carriera e accumulato ricchezze sotto i Borbone, prezzolato da Cavour stilò una vergognosa “Proclamazione” per esortare i soldati fedeli al re alla diserzione: Compagni d’arme!

Già è pochi dì, lasciandovi l’addio, vi esortavo ad essere forti contro i nemici d’Italia dar prove di militari virtù nella via aperta dalla Provvidenza a tutti i figli della patria comune… forte mi sono convinto non esservi altra via di salute per voi e per cotesta bella parte d’Italia che l’unirci sotto il glorioso scettro di V. Emanuele: di questo ammirevole monarca dall’eroico Garibaldi annunziato alla Sicilia, e scelto da Dio per costituire a grande nazione la nostra patria…

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