“VOCI, SUONI E CANTI DI BRIGANTI IN TERRA DI LAVORO” RECENSIONE DI DOMENICO ANFORA
Ero un giovanotto e mi ero appena arruolato nei carabinieri quando sentii parlare per la prima volta di Fra Diavolo. Non me ne avevano parlato mio padre, i miei zii o i miei nonni che erano di Terra di Lavoro, ma lo stavo leggendo dall’appassionante libro di un giornalista piemontese (guarda un po’), Giuseppe Dell’Ongaro. Da quel momento rimasi affascinato da quel personaggio temerario e tumultuoso che tante difficoltà creò all’armata del Bonaparte conducendo la sua unità di guerriglieri. Lo scelsi come mio eroe.
La nostra memoria storica era stata seppellita da quasi due secoli di narrativa contraffatta, ma le parole di quel giornalista stavano disseppellendo quel personaggio che mi divenne tanto familiare. Lo immaginai subito «quel giovanotto un po’ tozzo, dal collo taurino e dalle spalle larghe, nella sua giamberga blu scuro del reggimento della fanteria reale Messapia», che saltando da una macchia all’altra dava ordini perentori in lingua laborina ai suoi selvatici insorgenti che sparavano verso la colonna francese in marcia sull’Appia antica, tra Fondi e Itri.
Dopo tutti questi anni, grazie all’amico Claudio Saltarelli (divulgatore, curatore storico, artistico e autore delle narrazioni brigantesche), sono stato precipitato nell’emozione identitaria di questa opera composita qual è Voci, suoni e canti di briganti in Terra di Lavoro, purtroppo solo in video e in testo, ma non di presenza. Ho avuto il piacere che un mio breve pensiero vi sia stato inserito nel capitolo Recensioni. Ho letto e ascoltato con profonda passione queste storie, dove finalmente noi napolitani non siamo semplici comparse, dove i protagonisti non vengono da terre lontane, ma sono gli “altri”, i piemontesi o i francesi, a riemergere nel loro reale ruolo di “cattivi” con la superbia dei conquistatori.
Questo saggio drammatizzato, come lo definisce il professore Gianandrea de Antonellis, è un lungo cammino di oltre un secolo, dove i narratori, i poeti, i cantori, i musici soffiano via quella coltre di polvere che ha coperto la nostra storia, la storia delle Due Sicilie. Diviso in una decina di tappe, il viaggio ci mette in ascolto di personaggi noti come Pasolini, Pimentel, Fra Diavolo, Ferdinando II, Francesco II, ma anche di altri sconosciuti, come briganti e brigantesse, come gente del popolo o come reduci dalla grande guerra. Quel treno che attraversa la ferace e fangosa pianura della Terra di Lavoro, a bordo del quale Pier Paolo Pasolini osserva dei personaggi ai margini della società, è la metafora del nostro viaggio a ritroso nella storia, per cercare le nostre radici e i nostri eroi. Un viaggio anche interiore, attraverso il quale sfuggire alla miseria della memoria. Sì, perché l’invasore che vuole conquistare totalmente un territorio deve anche cancellare la memoria e le tradizioni di quel popolo che lo abita. Così hanno fatto, ad esempio, gli anglosassoni in America settentrionale, dove i pochi nativi rimasti vivi sono stati spogliati di beni e cultura. Lo spiega bene Pietro Damiano nella sua tragica poesia e pregevolmente suonata e cantata da Pietro Rainone, scrivendo «C’Hanno arrubato tutte ‘e surrise / C’hanno lasciato muorte e appise / Se so’ pigliata pure la storia / Pe’ cancellà chesta memoria.»
La poetessa Eleonora Pimentel Fonseca attraversò invece in carrozza la Terra di Lavoro, partendo da Roma, superando la posta di Terracina e accedendovi da Portella Torre dei Confini. La sua famiglia, di origine portoghese, pagava con l’esilio lo scontro diplomatico tra lo Stato Pontificio e il Portogallo. Profuga speranzosa, fu accolta dai napolitani e dai loro sovrani, ma nel 1799 appoggiò l’invasore francese, pagando con la vita tale scelta di campo.
Un degno saluto pubblico al nostro ultimo Re fu scritto nel quotidiano Il Mattino dalla giornalista Matilde Serao, anch’ella legata alla Terra di Lavoro tramite i nonni paterni di Ventaroli, piccolissimo borgo frazione di Carinola, dove trascorse parte dell’infanzia. Così scrisse:
Don Francesco di Borbone è morto, cristianamente, in un piccolo paese alpino, rendendo a Dio l’anima tribolata ma serena. Giammai principe sopportò le avversità della fortuna con la fermezza silenziosa e la dignità di Francesco II. […] Detronizzato, impoverito, restato senza patria, egli ha piegato la sua testa sotto la bufera e la sua rassegnazione ha assunto un carattere di muto eroismo… Galantuomo come uomo e gentiluomo come principe, ecco il ritratto di Don Francesco di Borbone.
Ma dobbiamo prendere come stella Polare le parole di speranza che ci ha lasciato in eredità Francesco II:
Traditi egualmente, egualmente spogliati, risorgeremo allo stesso tempo dalle nostre sventure; che mai hanno durato lungamente l’opera della iniquità, né sono eterne le usurpazioni.
Questa preziosa eredità è stata presa ed è usata dal poeta e scrittore Raimondo Rotondi, col suo volto antico, e da tutti coloro che hanno contribuito a scrivere, creare ed eseguire questa straordinaria opera identitaria.
18 luglio 2025
Domenico Anfora



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