Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

Panorama storico-letterario di Napoli

Posted by on Feb 21, 2022

Panorama storico-letterario di Napoli

“Quando Ulisse – scrive il Doria -, legato all’albero della sua nave per sfuggire alla seduzione delle tre Sirene, ebbe superato il braccio di mare che separa e congiunge l’isola di Capri e la penisola sorrentina; e ai suoi occhi, pur adusati agli incanti glauchi dell’Egeo e del Jonio, si aperse l’incomparabile spettacolo del golfo, che poi fu detto di Napoli; e vide un succedersi di montagne e di colline, del più puro contorno, coperte di boschi digradanti fino alla riva, e spiagge assolate splendenti come oro, e seni profondi e misteriosi, e un cielo singolarmente luminoso su questo scenario;

il prudente uomo della petrosa Itaca dovè, suo malgrado, lasciarsi trascinare dall’entusiasmo – egli che aveva resistito, sia pure con lo sforzo delle funi anziché della volontà, ai richiami di Ligea, di Leucosia e di Partenope – e dirsi, con l’orgoglio dello scopritore, che egli era penetrato, per il primo, nell’Olimpo terrestre e che quivi avrebbe dovuto stanziarsi e propagarsi una razza di eroi semidivini, che dalla bellezza e dalla feracità dei luoghi avrebbero tratta la più grande felicità di vita”.
“Il navigatore moderno – continua il Doria – che, oltrepassate le Bocche di Capri, si trovi, sulla tolda di un transatlantico, nelle stesse condizioni di visuale che Ulisse sul ponte della sua navicella, rinnova l’entusiasmo e considera questo il luogo della perfetta felicità, la sosta al dolore”.
A confortare le piacevoli congetture del Prof. Doria, circa le poetiche sensazioni provate dal mitologico navigatore Ulisse alla vista del golfo partenopeo e delle verdeggianti terre e colline che lo circondano, possiamo dire che Napoli, fra le località della Campania, fu quella che più d’ogni altra attirò lo sguardo degli antichi navigatori greci, possedendo la sua costa, da Miseno a Sorrento, un carattere quasi ellenico. Chi veniva, infatti, dalle sponde del golfo Saronico, dalle rive dell’Euripo e dal golfo di Corinzio, una volta giunto a Capri, a Ischia, a Cuma, a Baia e oltre, provava dinanzi al mare e al suolo napoletani la sensazione di aver ritrovati il mare e il suolo greco, con lo stesso sviluppo di articolazioni come nelle coste dell’Ellade, con lo stesso ornato di frastagli e sinuosità. E chiamata fu “Pithaecusa”, ad esempio, l’isola di Ischia, ed “Aenaria” ed “Inarime” la chiamarono successivamente i romani, nomi sul cui significato sin dall’antichità si sono manifestate le opinioni più diverse, ma che sono da ricondurre tutti all’attività vulcanica che un tempo agitò quell’isola, ricordata persino da Licofrone nella sua Alessandra.
Non molto diversamente da come si presentò al greco Ulisse dovè apparire Napoli, con il suo mare e i suoi seni, alcuni secoli più tardi, ai primi romani: a Plinio, che affermò entusiasta: “La natura si è qui rallegrata dell’opera sua”; a Seneca, che vi giunse sbucando dalla Grotta Vecchia di Pozzuoli ed al cui sguardo, offeso dal buio e dalla polvere del budello traforato da Cocceio, il paradisiaco sito apparve come un angolo di cielo trapiantato in terra; a Pollio Felice, che soddisfatto del bel sito e dell’azzurrissimo mare, volle qui, sulla costa di Posillipo, edificarsi una rustica villa, quella stessa ricordata da Stazio nelle “Selve” col suggestivo appellativo di “Limon” o “Epilimones”; la Leimong, cioè del Beloch, denominazione che nell’antichità pare sia stata anche per molto tempo attribuita alla plaga di Mergellina.
Bella, nella solidità dei suoi approdi, delle sue mura e delle sue torri, dovette apparire ancora Napoli – ci sia consentito il supporlo – a Corradino di Svevia, il 26-10-1268, allorchè su un vascello venne trasportato, via mare, dagli armigeri del crudele Carlo d’Angiò al luogo del supplizio, cioè alla piazza del Mercato, detta allora “il Moricino”. Si mosse – scrive il Dattilo – dal Castello dell’Ovo la piccola nave funeraria. Il biondo Corradino teneva gli occhi lacrimosi e bassi; ma quando in un barbaglio di luce, dopo che la nave ebbe doppiato Castelnuovo, egli potè per poco posare lo sguardo sulla Napoli del suo sogno; il cuore gli martellò forte nel petto. Potè sembrargli, per un istante, di andare incontro a una festa! E quando, accostandosi la navicella allo scalo, presso la porta del Carmine, ei vide sulla marina il brulicar della gente, l’illusione che questo lo attendesse per festeggiarlo potè nella sua mente prendere per un momento consistenza.
Con meravigliose, incomparabili seduzioni dovettero apparire Napoli e le sue graziose cornici anche: al Boccaccio, per il quale il Mare del Golfo sembrava risuonare in ogni istante del canto delle Sirene; al Petrarca, i cui occhi, spaziando lungo l’azzurra curva delle marine, videro levarsi salde e tangibili dalle acque le favolose spiagge di Virgilio, mentre dal Capo Miseno e dalle isole di Procida ed Ischia sentiva correre sino a lui, fra l’eterna voce del mare, i sospiri remoti della poesia e della leggenda: “Partenope mi chiama da lontano”, scriveva al Barrili, suo amico, allorchè lasciava Napoli per recarsi a Roma a cingere il lauro dell’immortalità.
E che dire di Bernardo Tasso, il quale, in una lettera all’amico G.B.Peres, scritta da Sorrento, approssimativamente tra il gennaio e il maggio 1545, magnificava Napoli, le bellezze del mare e l’amenità dei luoghi della ridente costiera, con frasi di particolare entusiasmo?
Deliziosa, poetica ed ospitale ancora fu Napoli, con il suo mare, le sue colline e i suoi porticcioli, al Sannazaro, che condensò le impressioni dei primi romani nella mirabile frase: “Lembo di Ciel caduto in terra!”.
Il plastico incanto di Napoli e del suo mare affascinò anche Lucullo, Polibio, Svetonio, Marziale, Giovenale, Tacito e Silio Italico, il quale ultimo dichiarava la città “rifugio ospitale delle Muse”, e Stazio la magnificava “per la salubrità del clima mite” ed il lodato Sannazaro ne celebrava una bellissima zona, quella di Mergellina – Pulcherrima Mergillina -, “inesausta produttrice di profumati molluschi e di pesci, perennemente alimentati dalla tepide arene, dall’incessante respiro del mare, dalle salse acque, come egregiamente il nostro Carlo Nazzaro ebbe a descriverla alcuni anni or sono.
In verità, il divino poeta delle Piscatoriae, l’Actius Sincerus che visse nella pace della dolce, bucolica Mergellina e “che alle Camene lasciar fa i monti ed abitar le arene”, come ebbe a cantarlo l’Ariosto, sapeva tutto di quello che questa spiaggia, questa azzurra conchiglia produce; sapeva della brava gente di Napoli, della vita degli animosi pescatori del Golfo, delle operose paranze di Santa Lucia, dei frutti di mare, dei veloci velieri, dei tramonti indimenticabili. Napoli, infatti, sin dai tempi del Sannazaro, e ancor prima e ancora oggi, è stata, ed è, una città “marina” per eccellenza. Sul mare e dal mare essa trae il suo respiro; sul mare nacquero i suoi antichi miti; dal mare è balzata essa stessa, in un’alba leggera del mondo, quando si schiuse come una corolla, mitica e favolosa, Partenope. Napoli è sul mare; è il mare, per i cui verdi solchi per secoli diffuse la sua civiltà.
Per il mare e per il porto di Napoli, anima, vita, fisionomia si sono sempre fuse in una gamma luminosa e indissolubile di suoni e di colori, di luci e di stupore, di fantasia e di spettacolo, di vitalità, tormento e giubilo.
I volti del porto e del mare di Napoli hanno avuto, ed hanno, il volto della vita, non quello della morte; hanno avuto ed hanno il voluttuoso mistero della luce e della dolcezza che ha sedotto la fantasia ed il cuore di grandi artisti, di viaggiatori illustri, di letterati famosi. Il Golfo di Napoli, in tutta la sua ampiezza, visto nelle sere estive dai viaggiatori stranieri o nazionali, nei secoli passati, quando al calar del maestrale le grandi vele gialle dei trabaccoli e delle golette gemevano e schioccavano sotto gli ultimi soffi, dovè certamente avere un suo aspetto ineguagliabile ed un incanto speciale, se è vero, come è vero, che più di un pennello di artista ne immortalò sulla tela la divina bellezza, come ne fanno fede i fascinosi guazzi conservati nelle pinacoteche e nei musei. “In questa coppa preziosadel Golfo di Napoli, abbellita da tutte le seduzioni della natura, si svolsero – esclama il Tescione – nella favola dei secoli e nella risonanza di un’eterna armonia, dalla poesia dell’Odissea fino all’egloga degli umanisti, fino alla musica delle canzoni napoletane, nell’alternativa e nella fusione delle razze, le leggende del più bello dei mari mediterranei”.
Ecco perchè sull’animo di centinaia di illustri viaggiatori, stranieri e italiani, specie del Sette-ottocento, il mare e le coste di Napoli esercitarono un fascino irresistibile e dolcissimo.
Ecco perchè Inglesi, Tedeschi, Spagnuoli, Francesi, Fiamminghi e tanti di altre nazionalità venivano in Campania e di proposito a Napoli per ammirare la rupestre, saluberrima, climatologica e luminosa Sorrento, odorosa e pingue di aranci; per bearsi alla poetica visione di Ischia dai mormoranti, ombriferi pini, eternamente verdi e leggiadri; per ritrovare il sorriso e la salute di fronte al sorriso azzurro del mare di Capri, l’isola imperiale, della serenità e dei sogni, degli amori e del sole; per esaltarsi in impeti di poesia di fronte ai riflessi inimitabili del mare verde e delle verdi altrure di Procida, la patriarcale, la semplice, la umana, la più marinara delle isole, perchè terra di pescatori e di naviganti, nutrice di Enea, secondo una graziosa leggenda; per risvegliare e fecondare le menti di fronte a Baia, l’aristocratica, dove resti di incantevoli ville e di giganteschi templi pagani (di Venere genitrice, di Mercurio, di Diana lucifera) furono e sono, in questo sito, incorniciati in una dolcezza panoramica che ispira una riposante melanconia, quale forse sorrise a Virgilio, intento a tessere la trama della sua Epopea: “Nullus in orbe locus Baiis praelucet amoenis”. E difatti niente è più caro, più seducente di questo delizioso soggiorno, già preferito dai grandi romani, da Silla a Cesare, da Mario e Bruto, da Antonio a Tiberio, da Caligola a Nerone. Fu questa la terra classica del lusso e del piacere e l’occhio vi spazia meravigliato: da una parte le coste salenti del Monte Gauro e di una serie di colline iridescenti e dall’altra la suggestione di un mare frastagliatissimo, di un mare bellissimo di colori e di aspetti, dominatori incontrastati della sublime località, che, carezzando gli occhi, fanno cessare il moderno fermento del cervello, che “si discioglie, qui – scrive il De Magistris -, in una languida e soddisfatta beatitudine, come di chi contempla una magica visione”.
Ecco perchè da lontanissimi paesi, innumeri viaggiatori venivano a Napoli: per scoprire, indagare e studiare Cuma, la greca, sacra alla Sibilla, ispirata da Apollo. La esistenza di questa località marina costituì certamente un’armonia di potenza, di bellezza, di gloria. Culla della più antica civiltà italiana, Cuma, rappresentò nei secoli oscuri, un faro di luce vivissima, che si proiettava fino nel Lazio, al nord, e fino a Pest, a sud.
“Tutta l’immensa e rigogliosa conca, fremente di vita agricola, che si distende dalle pendici del Monte Gauro al mare – scrive il De Magistris – costituiva il massimo emporio culturale, commerciale, marittimo della più remota antichità; tutti i Campi Flegrei, fino al Vomero, rappresentavano il suo retroterra ferace, abitato dai favolosi Giganti Leuterinii, preausonici e preopicii. E chi sa se, nella notte dei tempi, questa Terra popolata di vulcani non dovette apparire interamente di fuoco ai primi navigatori greci, donde il nome di Italia, da aitalion, ardente, bruciante, arso, che gode il calore del sole”.
La spiaggia cumana contro cui si infrange il mare lucente di madreperla e di oro, dove furono combattute memorabili battaglie navali – prima quella dei Cumani contro gli Etruschi soccombenti – si congiunge alla piana verdeggiante di Licola, che si stende sul mare di Mondragone, poco lungi dall’incanto, sacro al passato, del Tempio di Apollo e della Grotta della Sibilla.
Ecco perchè i viaggiatori di ogni tempo vennero qui: per acquistare il senso del culto, della civiltà, delle bellezze e delle armonie pagane od orientali nella vulcanica Pozzuoli, pregna d’acque mefitiche ma salutari, maestosa di classiche rovine, antichissima Dicearchia, col suo Anfiteatro maestoso, dalle linee rimaste perfette, colle sue vestigia monumentali e rivelatrici di tutto un mondo meraviglioso, sul golfo che vide all’ancora la massima flotta dell’Urbe, dominatrice incontrastata del “Mare Nostrum”, sul dolcissimo lido sul quale spasimò la più sfrenata lussuria, ribollì nei corpi e nei cuori nei secoli della decadenza imperiale. E vennero i viaggiatori di ogni paese e di ogni credo politico e religioso, qui, per osservare la Pompei di un tempo, provinciale e pettegola, o per godere della dolce Posillipo, risuonante della voce melodiosa del mago Virgilio, dalla cui tomba gloriosa trassero motivi di vita e di contemplazione le generazioni di due millenni ed a cui si portarono le masse pellegrine per onorare, se non adorare il fascinoso, mirabile, divino poeta, dinanzi al riposante panorama di Partenope, che, contemplato, riesce ancora oggi a purificare la nostra vita di tutte le impurità e ad addolcire tutti i dissapori.
E vennero, infine, gli illustri viaggiatori per scorazzare in lungo e in largo per tante e tante altre ridenti località rivierasche che gli ultimi raggi infuocati del sole facevano apparire come fiabesche, indorate, vive, sulla roccia viva dei frangenti, sotto un cielo quasi sempre roseo, svanite in una gamma iridescente di viola e di celeste, circonfuse d’incanti nella penombra dei crepuscoli, tra i frutteti e il mare, tra gli agrumeti e i porti.
Oggi ancora, infatti, si faccia caso, il sole, lo stesso, eterno, si accende e si spegne sul porto e sul mare di Napoli con il medesimo inusitato splendore, con lo stesso divino incantesimo, con la stessa magia di toni e di colori; brillano le stelle di sempre; beccheggiano navi piccole e grandi sotto la maretta addormentata e gemono e svettano i pennoni dei moderni transatlantici, come un tempo gemevano e svettavano quelli degli agili sciabecchi e i terzaroli delle polacche o dei brigantini e le vele quadre dei galeoni. Ancora oggi, a distanza di secoli, il golfo di Napoli è una profondità arcana, variegata di luce e di verde, di scogli e di isole boscose, di spume bianche e scroscianti, che inseguono come una musica dolce il navigante e lo confortano nel desolato silenzio dei mari lontani.
Anche se la Storia ha dimostrato ai turisti moderni come la bellezza del panorama di Napoli, che essi, rapiti, ammirano, non formò mai la gioia, la felicità e la ricchezza dei napoletani, ma rappresentò spesso la loro infelicità, nondimeno resta il fatto che Napoli, il suo scalo ed il suo mare, furono preda agognata di duri dominatori – scrive il Doria – e meta seducente di uomini delle più svariate razze: greca, romana, bizantina, gotica, saracena, balcanica, castigliana, gallica, tedesca, e approdo di viaggiatori dei più svariati tipi e ceti sociali: letterati, umanisti, poeti, pittori, politici, militari, filosofi, banchieri, scienziati, tutti concordemente entusiasti della città, delle sue antichità, della voluttuosa curva del suo Golfo, dell’incanto perenne del suo cielo e del suo mare, della solidità, attività ed importanza del suo porto, della dolcezza del suo clima, della bontà del suo popolo. A centinaia, infatti, si contano i viaggiatori di tutto il mondo che hanno scritto (a volte intorpiditi da una facile seduzione) delle bellezze di Napoli, cadendo in non pochi errori di valutazione, perpetuando dicerie e leggende, concorrendo a tramandare il falso concetto del napoletano indolente e sognatore, nemico del movimento e dello sforzo, ozioso, vagabondo e cantatore; contaminando la storia con la favola, la storia con gli allettamenti dello scenario, coinvolgendo i fenomeni astrali e climatologici con i costumi e gli usi del popolo partenopeo.

in “Napoli – il suo mare e il porto visti da viaggiatori illustri”
di Giuseppe Porcaro

fonte

Panorama storico-letterario | Lazzaro Napoletano – Gennaro Agrillo

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