Paolo Manzi, uno scrittore Itrano, alta Terra di Lavoro, visto da Alfredo Saccoccio
L’itrano Paolo Manzi è uno scrittore di grande valenza, dotato di uno stile asciutto e di pagine mai banali, mai superflue, ma essenziali all’economia del testo, godibilissimo e ricchissimo quanto al lessico e alla struttura, in cui il rigore e la sorveglianza, aliena da qualsiasi sottolineatura o concessione sentimentale, non producono in nessun caso sensazioni di estraneità o di freddezza.
Il volume “…A peste, fame et bello, libera nos, Domine…- La battaglia di Ytri”, per le Edizioni Odisseo di Itri, si articola in dieci capitoli, in cui si fornisce al lettore una sintesi documentata e lineare di quel periodo storico nell’odierno Lazio meridionale a quel tempo Terra Laboris. Il primo segue le vicende di Gaeta, che acquisì la sua indipendenza, dopo essere stata governata dai bizantini, ed ebbe un notevole sviluppo economico coniando una propria moneta, il “follaro”. In esso si parla della controversia dell’ “Anno Domini 1338”, che vide i contadini gaetani e i pastori itrani in lite per un “tenimento” tra loro confinante. I primi, armatisi fino ai denti, marciarono su Itri con un gran numero di soldati incendiando lungo il percorso le capanne e i pagliai e colpendo chiunque si trovasse sul loro cammino. Allora i reggitori della “cosa pubblica” chiesero aiuto al conte di Fondi, Nicolò I Caetani, che organizzò prontamente un’armata che inflisse una batosta all’esercito gaetano. Molti caddero suoi prigionieri e finirono tutti rinchiusi nelle carceri di Fondi. Il re di Napoli, Roberto d’Angiò, premiò il coraggio ed il valore dimostrati in battaglia dall’indomabile condottiero con il Cingolo d’Oro.
I capitoli II, III , IV e V delineano la prepotente ascesa dei Caetani nella contea di Fondi e nelle terre della Campagna e della Marittima. Il Manzi tratta con una meticolosità quasi “scientifica” i caotici e tragici eventi degli anni 1343, 1345, 1346. In quest’ultimo anno avvenne la battaglia di Ytri. L’esercito gaetano, non contento della dura sconfitta patita nel 1338, con ostinazione cinse d’assedio, nel settembre del 1346, appoggiato dalle schiere della regina di Napoli, Giovanna I d’Angiò, il “castrum” di Itri. Il Caetani, sfruttando la strategica posizione del paese, attirò in un trabocchetto l’agguerrito esercito napoletano decimandolo. Le truppe partenopee caddero in un’imboscata. Il conte usò un espediente: fece murare tutti i vicoli laterali alla strada che faceva capo alla porta principale e le porte del nucleo medioevale, eccetto la principale, Porta Mamurra; poi, di notte, uscì furtivamente con tutto l’esercito. L’indomani le truppe regie, non notando alcuna resistenza, si riversarono nelle anguste stradine del centro storico sguarnito, pronto a demolire o a saccheggiare le case degli odiati nemici, con l’intento di fare bottino di guerra. Allora Nicolò I Caetani rientrò improvvisamente nel “castrum” con i suoi uomini e con l’ausilio degli itrani, che dalle finestre delle case riversarono sugli assalitori di tutto, ma soprattutto il micidiale fuoco composto da olio bollente comune, che si trova facilmente nel centro aurunco, da pece nera, da zolfo e da tizzoni ardenti, che cadevano come un fulmine carbonizzando le facce dei nemici, inferse la seconda, solenne “lezione” ai napoletani, comandati da Filippo de Anatolio, Fusco Guindaccio e Jacopo Faraone, che potevano contare su più di mille cavalieri e su 8000 fanti. Il conte di Fondi disponeva solo di 200 cavalieri tedeschi e di 200 suoi cavalieri, oltre a tanta gente a piedi. Tanti furono i morti nelle schiere dei napoletani, tanti di essi furono fatti prigionieri e tornarono liberi solo pagando un forte riscatto, ammontante a oltre 3000 once. A quelli che non potettero pagare il riscatto furono amputate le membra, mani o piedi, o tagliati il naso o la lingua o le orecchie. Alcuni prigionieri furono mandati a Napoli completamente nudi e con un cartello addosso, che diceva, per scherno alla regina Giovanna: “Ego sum roba quam comes Fundi fecit de novo”. Lo attesta il “Cronicon Suessanum”, che riporta essere stati uccisi il capitano Filippo de Anatolio, Fusco Guindaccio ed altri capitani. Giacomo Faraone, uomo di spicco gaetano, suo nemico personale, trovato morto sul campo di battaglia, fu barbaramente fatto impiccare da Nicolò e fu poi consegnato alla famiglia.
Molto interessante il settimo capitolo, riguardante la peste, o meglio la “peste nera” (si manifestava con la comparsa di grosse macchie nerastre su alcune parti del corpo), che decimò tutte le popolazioni del litorale tirrenico, soprattutto quelle di Salerno, di Amalfi, di Napoli (la celebre peste, magistralmente descritta da Giovanni Boccaccio nel “Decameron”, vi causò la morte di ben 60.000 persone), di Gaeta.
Data l’estrema gravità del morbo, che devastò l’Europa intera, vista da molti come l’ira di Dio, si assistette dovunque a disperate e tragiche scene di desolazione, di violenza, di fanatismo. Ne sono testimonianza le solenni processioni dei “flagellanti” e le persecuzioni e i terribili massacri di ebrei, allora considerati tra i nemici più pericolosi della religione cattolica, in quanto “deicidi”. Si credeva assurdamente che essi fossero responsabili della diffusione della terribila epidemia.
La pestilenza, portata dai marinai delle navi mercantili che commerciavano con i Paesi orientali, allentò i legami sociali e familiari, inducendo a comportamenti egoistici e spietati.
Il contagio, diffusosi con rapidità e con forza mai viste, era anche favorito dalle precarie condizioni ambientali e igienico-sanitarie: la stragrande maggioranza della gente viveva in luoghi e in case malsane ignorando le più elementari norme dell’igiene pubblica e personale.
Gli uomini del tempo erano impotenti di fronte alla peste, soprattutto perché gli strumenti della medicina si rivelavano scarsi e inadeguati e perché i medici del Medioevo avevano modeste conoscenze scientifiche e pochi mezzi a disposizione per curare le numerose malattie del tempo, tutte legate, direttamente o indirettamente, alla condizione delle abitazioni e alla cattiva alimentazione.
Nell’importante “lavoro” di Paolo Manzi, degno di attenzione, perché si tratta di una ricognizione ampia ed esauriente della storia delle nostre terre, scorrono le pagine autentiche di vita dei centri del basso Lazio, le travagliate e cruente vicende storiche di alcune comunità e di alcuni personaggi indimenticabili. L’opera, che mantiene una sua unità stilistica e concettuale e che si distingue per la ricchezza delle fonti consultate dallo studioso aurunco negli archivi e nelle biblioteche di Napoli, di Roma, di Caserta e di Gaeta, si legge con piacere. Sono mille rivoli di conoscenza e di riferimenti documentali, di notevole interesse, fatti conoscere dall’autore con dovizia di particolari dandoci uno “spaccato” dei Comuni dell’attuale provincia di Latina. La lettura scorre agile e veloce, grazie ad un linguaggio estremamente chiaro e comprensibile.
Alfredo Saccoccio