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PAOLO MENCACCI. UNO SGUARDO ALLA RIVOLUZIONE ITALIANA (tredicesima parte)

Posted by on Feb 2, 2018

PAOLO MENCACCI. UNO SGUARDO ALLA RIVOLUZIONE ITALIANA (tredicesima parte)

CAPO III.

Qualche Commento.

Al memorandum del Conte di Cavour

Secondo la Nota verbale, ossia Memorandum di Cavour, le Legazioni, vale a dire la parte più ragguardevole, più industriosa e attiva degli Stati della Chiesa, erano, come si vede, prese di mira dalla rivoluzione, perché meglio si prestavano agli intendimenti settarii; tolte le quali alla S. Sede rimaneva appena politicamente di che sussistere.

I Plenipotenziarii sardi, arrogandosi la parte di tutori degli Stati italiani, si scandalizzano della presenza dell’esercito austriaco; questa però era resa necessaria, non dall’indole delle medesime provincie, ma sì dalle maligne influenze delle società segrete e dall’azione perseverantemente rivoluzionaria del vicino Piemonte, e degli emissarii e congiunti del Bonaparte. Era quindi naturale, che nulla facesse presagire che tale stato di cose potesse terminare, perché così appunto si voleva dalla setta. Dal che veniva la impotenza del Sovrano legittimo a governarle senza un appoggio straniero, a fronte di malvagio influenze straniere. Il Memorandum, senza tener conto della storia, non dubita d’affermare che, anche prima della rivoluzione francese, il dominio clericale era antipatico a quelle provincie, e che gli eserciti francesi vi furono accolti nel 1796 con entusiasmo; e dimentica che la S. Sede perfettamente disarmata, perché fino allora in perfetta pace con tutti, in un momento, per mezzo dei medesimi suoi sudditi, poté improvvisare un esercito di ben quaranta mila uomini, tutti volontarii, e volontariamente mantenuti ed equipaggiati. Quell’esercito, così improvvisato, purtroppo non riuscì ad arrestare le schiere della Francia repubblicana, ma rimarrà sempre pel dominio clericale una prova irrefragabile della simpatia non solo, ma dell’amore e della devozione de’ suoi popoli.

Quindi è, che tutte le tradizioni e le simpatie di quelle provincie erano pel Governo della S. Sede e non per quello del Despota francese, che vi passò sopra quale paurosa meteora di desolazione e di: empietà, di cui parlano tuttora raccapricciati coloro che ne serbano memoria.

Commettevano poi un vergognoso errore storico i Plenipotenziarii sardi, quando affermavano, che le usurpate Legazioni furono restituite

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alla S. Sede solamente dopo la battaglia di Waterloo, avvenuta il 18 di Giugno 1815, in cui il famoso Napoleone pagava con una irreparabile sconfitta i torti fatti a Dio e alla S. Sede; mentre è noto a tutti, che Tatto del Congresso di Vienna, che restituiva al Papa le Legazioni, fu segnato nove giorni prima che accadesse quella memorabile battaglia, cioè ai 9 di Giugno 1815.

Che la Francia in seguito, nel 1831, rispondesse colla occupazione di Ancona all’intervento austriaco, non prova altro se nonché la prepotenza dei rivoluzionarii Orleanesi che pretesero paralizzare, a profitto della setta, l’esercizio di un diritto della Santa Sede, e del suo alleato d’Austria. E la presa di Roma, come venne eseguita nel 1849, fu una nuova soverchieria del Governo liberalesco di Francia, in onta dei legittimi accordi ed impegni presi a Gaeta tra le Potenze cattoliche.

Quanto al Memorandum del 1831, lungi dal constatare lo stato deplorabile del paese, il quale non aveva mai cessato di essere devoto ai Papi, non prova se non che l’azione sempre più crescente delle società segrete nei Gabinetti europei, i quali fin d’allora, invece di unirsi alla Chiesa per combattere la Frammassoneria, si univano a questa ai danni della Chiesa.

Le riforme poi di Pio IX furono solo un atto del suo magnanimo cuore per Smascherare e vincere, se fosse stato possibile, la protervia dei settarii: e se gli effetti di quegli atti per sempre memorandi non furono quali Egli se li prometteva, non è punto da addebitarne le saggie istituzioni del Governo pontificale, ma sì la perversità dei tempi che rendevano e rendono tuttora impossibile ogni cosa veramente utile e buona. Luigi Napoleone, con quel colpo d? occhio giusto e fermo che lo caratterizzala, nel voler imporre, colla famosa lettera al Colonnello Nev, al Governo pontificio la secolarizzazione dello Stato e il Codice napoleonico, mirava con quelle proposte alla distruzione dello stesso Governo, i cui sacri diritti e inconcussi principii intrinsecamente ripugnavano a quella così detta secolarizzazione e al Codice bonapartesco: e la Corte di Roma saggissimamente combatterà sino all’estremo l’esecuzione di codesti due disegni. È quindi verissimo,e ben sei sapeva il Bonaparte, che le riforme da lui proposte scalzerebbero dalle radici e farebbero cadere il sacro edificio del Potere temporale dei Papi, togliendogli i principali sostegni, i cosi detti privilegi, cioè la libertà del Clero e il Diritto canonico’, che è quanto dire le sacre ragioni della Chiesa, le quali sono veramente di tal guisa intrecciate con quelle del potere spirituale,

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come chiaramente dice il Memorandum, che non sarebbe dato di disgiungerli compiutamente senza correre pericolo di spezzarle. Dopo tali cose, il proporre alla S. Sede di fare delle Legazioni un Principato apostolico sotto l’alto dominio del Papa, è più che un assurdo, una insolenza; è l’anteporre le pagane pretensioni del regno napoleonico alle venerande tradizioni della S. Sede; è una empietà, una scelleratezza evidente che riducono la proposta piemontese a un inganno, a un agguato; cosicché i i Plenipotenziarii sardi, senza lusingarsi che combinazioni di questo genere possano eternamente durare, la proponevano appunto quale una via meno diretta, ma secondo loro più sicura, di giungere all’intero spodestamene della S. Sede e alla presa dell’istessa Roma. Dopo le quali cose ci passiamo dal toccare dei punti essenziali di esecuzione del progetto piemontese, siccome quelli che appariscono affatto insensati e ridicoli.

Il volere irrevocabile poi delle Potenze, di por termine e senza indugio, per siffatti inauditi modi, alla occupazione degli Stati pontificii e pretendere di obbligare la Corte di Roma ad accettare codesto piano, è un vero insulto alla maestà della S. Sede, una vera sfida al mondo cattolico.

È dunque evidentissimo, e noi aggiungeremo naturale e giusto, che il compito di spodestare sé stessa non si potrebbe mai in nessun modo imporre alla S. Sede, la quale per lo appunto troverebbe nel suo Governo tradizionale, non già i mezzi di non venirne a capo e di falsare interamente lo spirito delle nuove istituzioni, come dice il Memorandum, ma sì il dovere e la forza di fulminarle.

Che l’Inghilterra poi, Governo protestante, applaudisse alle enormezze diplomatiche del Piemonte, non fa meraviglia, avendo l’Anglicanismo per principio la distruzione della Chiesa cattolica; ma che il Walewski, ministro di un Governo che ardiva dirsi Cristianissimo, unisse la sua voce a quella del Governo sardo apostata, e dell’Inglese eretico e scismatico, è cosa senza nome.

n Piemonte con la sua Nota aveva fedelmente recitato la sua parte. Trovandosi già in aperta guerra con la S. Sede, non gli aveva ripugnato nei segreti accordi di iniziare, sebbene Governo cattolico, l’empia guerra stabilita; ripugnava invece ai Plenipotenziarii di Vittorio Emanuele di assalire nel Congresso il Re di Napoli, suo stretto congiunto. Tale parte era riservata al Walewski, e quell’antico cospiratore straniero lo fece senza scrupolo nella sua Dichiarazione.

 

 

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Alla dichiarazione del conte Valewski

Al Rappresentante del figlio primogenito dalla Chiesa non era conveniente assalire la Chiesa; per il che velava la sua approvatone alla Nota cavourresca con una sequela di quelle frasi elastiche, che dicono e non dicono, e conchiudono coll’approvare ogni malvagio intendimento. Quindi ei dice, che il titolo di figlio primogenito della Chiesa, di cui il Sovrano di Francia si gloria, gli fa un dovere di prestare aiuto al Pontefice; poi fa una colpa all’istesso Pontefice della poco onorevole situazione in che versa, che, per mantenersi, ha bisogno di essere sostenuto da milizie straniere: e non esita punto di chiamare il Conte Buoi a partecipare alle risoluzioni della Francia per ritirare le milizie dagli Stati della Chiesa, sebbene il farlo in quelle condizioni era un fare ciò cfee si diceva non voler fare, cioè di compromettere la tranquillità interna del paese e l’autorità del Governo pontificio. Il quale senza avere un esercito sufficiente, che il Bonaparte aveva sempre impedito che si formasse in modo proporzionato al bisogno, si trovava più che mai esposto alle influenze e alle agitazioni delle società segrete, imbaldanzite sempre più dal palese appoggio dei tre collegati di Occidente. Laonde il credere che il Governo romano si consolidasse abbastanza fortemente, nell’interesse dell’equilibrio europeo, era cosa affatto derisoria e impossibile.

Volendo poi il Walewski scagliare il dardo prestabilito contro il Re delle Due Sicilie, domanda a sé stesso, se non è da augurare che certi Governi della Penisola, richiamando a sé con atti di clemenza gli spiriti traviati e non pervertiti, mettano termine a un sistema che va direttamente contro il suo scopo. Quindi non già per alcun secondo fine, ma per rendere un segnalato servigio al Governo napolitano, nonché alla causa dell’ordine, vuole illuminare quel Governo sulla falsa via sulla quale si è posto, ciò che è quanto dire, che quel Governo governa male e che bisogna farlo governar bene, ossia a modo e secondo gli interessi della setta, con lo spodestarsi da sé medesimo.

Alla dichiarazione inglese

Alla Dichiarazione francese teneva dietro quella del Plenipotenziario inglese, e, all’unisono coi due colleghi di Francia e di Sardegna, Lord Clarendon affermava la necessità del ritiro delle milizie francesi-austriache dagli Stati romani; e non trovando nulla a ridire, come nulla aveva trovato a ridire dell’anormale stato di cose e dell’agitazione rivoluzionaria e provocante del Piemonte verso gli altri Stati d’Italia, non trova altro cui deve apporre rimedio, che i giusti motivi di malcontento, fomentato dallo stesso Piemonte, negli altri Stati italiani. Il nobile Lord poi, non scorgendo alcun inconveniente nell’attitudine provocante dell’amico Piemonte,

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donde ben potevano sorgere pericoli che il Congresso ha diritto di cercar modo di prevenire, ne scorge invece nei pacifici Stati della Chiesa. Al solito poi, come panacea sovrana a guarire tutti i supposti mali d’Italia, ribadisce il progetto della cosi detta secolarizzazione del Governo pontificio, e l’organamento di un sistema amministrativo in armonia colle così dette tendenze del secolo, quelle cioè di scristianeggiare il mondo; e su di ciò ripete pedantescamente le stesse frasi e cose espresse nella Nota piemontese circa la ritirata delle milizie austriache dalle Legazioni.

Sulle cose delle Due Sicilie però il Plenipotenziario inglese si ferma maggiormente, quasi ne avesse speciale incarico; e con premura desidera imitare l’esempio del Conte Walewski, tacendo atti, che si guarda bene dal citare e che, secondo lui, ebbero (non si sa dove) una molto spiacevole eco. Quindi mentre riconosce ciò che è impossibile sconoscere, che cioè niun Governo ha diritto d’ingerirsi degli affari interni degli altri Stati, formola un’accusa solenne contro il Governo di Napoli, che dice pare abbia conferito questo diritto e imposto questo dovere all’Europa, di alzar la voce contro di un sistema che tiene accesa fra le masse l’effervescenza rivoluzionaria, (importata però dall’estero e dal Governo inglese in particolare per i noti fini, come vedremo). Profferendo poi una grande verità, vale a dire, che non vi ha pace senza giustizia, suggerisce al Congresso una insigne ingiustizia, dicendo come esso debba far giungere al Re di Napoli il voto perché migliori il suo sistema di governo, (senza punto dirci in che fosse cattivo), voto che certo non può rimanere sterile, ciò che è quanto dire, che si pretende obbligare il Re di Napoli a sottomettervisi.

All’ultimatum sardo

Formulate cosi le accuse contro Napoli e contro Roma, e designati così ambedue agli assalti rivoluzionarii, rimaneva la parte materialmente più grave, quella cioè di chiamare in giudizio l’Austria e di obbligarla alla guerra: e i Plenipotenziarii sardi, sicuri dell’appoggio dell’Inghilterra e della Francia, non esitarono ad assumerne il facile compito, scorgendo ormai affatto isolata l’abborrita e potente rivale. Perciò nell’atto di lasciare il Congresso, quando i Plenipotenziarii austriaci non erano più presenti, quelli lasciarono la seconda Nota diretta alla Francia e all’Inghilterra, che fu un vero Ultimatum, una vera dichiarazione della nuova guerra, che infallantemente doveva ben presto scoppiare.

Sicuri pertanto del concorso dei loro alleati, i Plenipotenziarii sardi, visto l’interessamento sì vivo e generoso per la sorte dei Cristiani di Oriente mostrato dai congregati di Parigi, credettero di certo

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non si rifiuterebbero di occuparsi non già dei Cristiani di Occidente veramente infelici per l’azione delle sette, ma solo di quelli di razza latina, soggetti a Sovrani legittimi e cattolici, ai quali intendeva strapparli la rivoluzione. Laonde, malgrado del buon volere della Francia e dell’Inghilterra poiché il Congresso erasi dichiarato officialmente avverso a prendere ad esame soggetti estranei al presente trattato di pace, vedevano la loro speranza venuta meno a cagione dell’Austria, di far splendere al di là delle Alpi un bagliore qualunque atto a calmare gli animi ed a far loro sopportare con rassegnazione il presente.

Quindi senza rivolgere il menomo rimprovero ai loro alleati, i Plenipotenziarii sardi credono debito loro di richiamare la seria attenzione dei medesimi sulle conseguenze spiacevoli che erano per provenirne, o per dir meglio, che essi erano per farne provenire. Così tra le altre cose ci fanno sapere, che giammai le prigioni ed i bagni non sono stati più pieni di condannati, giammai maggiore il numero dei proscritti, giammai la polizia più duramente applicata’, asserzioni tutte gratuite, recate senza alcuna prova e smentite dai fatti, come vedremo ampiamente tra poco. Dippiù essi ci raccontano, che tuttavia in questi ultimi tempi l’agitazione sembrava essersi calmata gl’Italiani (cioè i rivoluzionarii italiani) vedendo uno dei PRINCIPI NAZIONALI COALIZZATO COLLE GRANDI POTENZE OCCIDENTALI per far trionfare i principi del diritto e della giustizia (della Frammassoneria); per il che appunto era stato chiamato il Piemonte alla guerra d’Oriente. I mastini della setta erano stati ipocritamente raffrenati dai banderai franco-anglosardi durante la guerra; ma, conosciutisi i risultati negativi del Congresso di Parigi, dai Plenipotenziarii sardi si fa sapere, che l’irritazione assopita si sveglierà fra di essi in modo più violento che mai; vale a dire saranno in modo più violento che mai sguinzagliati dagli emissarii del Piemonte, come per lo appunto avvenne. Spinta perciò più che mai l’Italia nelle file del partito rivoluzionario e sovversivo secondo essi affermano, (ed erano al caso di farlo) sarà di nuovo un focolare ardente di cospirazioni e di disordini.

Dopo di ciò, sentendosi forti abbastanza i Plenipotenziarii sardi, per l’appoggio di Francia e d’Inghilterra, rinnovano la favola del lupo e dell’agnello, e, mascherandosi da vittime, fanno notare, che lo svegliarsi delle passioni rivoluzionarie in tutti i paesi che circondano il Piemonte.… lo espone a pericoli di una eccessiva gravita, che possono compromettere quella politica moderata che gli ha valso

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la simpatia dell’Europa illuminata. Né omettono di designare l’Austria quale supremo pericolo per l’Italia, e quale una minaccia continua pel Piemonte, che, lungi dall’essere esso stesso, il Governo piemontese, un vero pericolo per l’Austria, è invece da questa tenuto in uno stato costante di apprensione, che l’obbliga a rimanere armato e a misure difensive; dissimulando poi la vera causa del dissesto delle finanze piemontesi, cioè le dilapidazioni dei suoi rivoluzionarii governanti e le spese segrete per fomentare dovunque la rivoluzione, ne accusano l’Austria e ne la chiamano responsabile. Confessando finalmente, che il loro Governo era turbato all’interno dalle passioni rivoluzionarie (già s’intende per causa dell’Austria), dichiarano, poter esso da un momento all’altro essere costretto…. ad adottare misure estreme, di cui è impossibile calcolare le conseguenze (sola verità contenuta nella Nota). Fanno perciò caloroso appello all’amicizia sincera e alla simpatia reale di Francia e d’Inghilterra verso il Sovrano, che solo fra tutti si era dichiarato apertamente in loro favore, concludendo, che se la così detta Italia venisse abbandonata dai suoi cari amici ed alleati, l’Austria, dopo i beneficii ottenuti nel Danubio e nel mar Nero dal trattato di pace, acquisterebbe una influenza preponderante in Occidente: ciò che la Francia e l’Inghilterra non potrebbero volere e non permetteranno mai. In seguito di che i Plenipotenziarii sardi (sicuri a priori del fatto loro) erano convinti che i Gabinetti di Parigi e di Londra avviseranno d accordo colla Sardegna ai mezzi di recarne un efficace rimedio.

Ma le segrete mene dei maneggiatori del Congresso venivano meglio svelate varii anni dopo (1862) dall’illustre Lord Clarendon in pieno Parlamento inglese, allorché venne interpellato circa le rivelazioni fatte dalle lettere del Conte di Cavour, pubblicate dopo la costui morte, e che non poco ebbero ad imbarazzare i Diplomatici inglesi in faccia a tutta Europa. Infatti per ismentire queste rivelazioni, o almeno per menomarne la importanza e la troppa gravita, Lord Clarendon prese a dire così:

Discorso di Lord Clarendon sulle sue relazioni col Conte di Cavour

«Signori, io spero che le W. SS. mi permetteranno di abusare della nostra indulgenza per qualche minuto, finché io v’intrattenga circa una materia che, sebbene personale a me stesso, pure è di una grande importanza pubblica, e che la mia inevitabile assenza dalla città solo m’impedì di subito segnalarvi.

«Le W. SS. probabilmente avranno letto alcune lettere del Conte di Cavour recentemente pubblicate nei giornali, ed io posso assicurarvi che,

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se nel leggerle voi avete provato qualche sorpresa, questa non può eguagliare la mia. Io non sa se quelle lettere siano genuine o in mani di chi siano cadute, oppure da chi e con quale scopo siano esse state pubblicate. Io non entro per nulla in tutto ciò; ma in quelle lettere veggo certi detti attribuiti a me, rispetto ai quali io credo che le VV. SS. e il pubblico hanno diritto di aspettarsi una qualche spiegazione;perché, all’epoca in cui le medesime lettere sembrano essere state scritte, e in cui le conversazioni alle quali fa allusione il Conte di Cavour ebbero luogo, io aveva l’onore di essere Segretario di S. M. per gli affari esteri, e di compiere le funzioni di Plenipotenziario inglese in Francia. In tale qualità era mio dovere di non esprimere alcuna opinione, o di dare alcun consiglio senza la sanzione del Governo di cui io faceva parte, o che io non fossi sicuro che sarebbe in armonia coi sentimenti, ed incontrerebbe l’approvazione di tutti i miei colleghi. Io sono pronto a prendere su di me la intiera responsabilità di ogni cosa che ebbi detto in quella occasione; ma non posso tenermi per responsabile di cose che sono attribuite a me, e che io non ho detto. (Ascoltate, ascoltate.)

«Nell’offerjre però ora alle VV. SS. la spiegazione, che io credo siate in diritto di attendere, mi trovo posto in una doppia difficoltà: primieramente, quella di sceverare ciò che è vero e ciò che è inesatto nelle lettere del Conte di Cavour; e secondariamente la difficoltà che sorge dal dispiacere e dalla repugnanza che provo di contraddire il defunto. Se il Conte di Cavour fosse tuttora in vita sarebbe per me comparativamente facile il correggere qualche inesattezza della sua corrispondenza e di accompagnare le spiegazioni che potrei fare con qualche commento, che, secondo io penso, giustificherebbe la pubblicazione di quelle lettere. Ma poiché il Conte di Cavour ora none più, io non dirò nulla all’infuori di ciò che credo strettamente necessario,allo scopo di giustificare me stesso delle assurdità, credo potrei dire palpabili, delle quali io sono fatto responsabile, forse non direttamente, ma implicitamente.

«L’asserzione si riduce a questo: che io impegnai il Piemonte ad accattar briga, ed in fatto a dichiarar guerra, contro l’Austria col dare assicurazione al Conte di Cavour, che «in tale ordine di politica il Piemonte avrebbe il materiale appoggio dell’Inghilterra». Io dico che vi è molto di vero nelle lettere del Conte di Cavour, e ciò si riferisce al suo racconto di quel che avvenne dal canto mio in una seduta del Congresso di Parigi, in cui gli affari d’Italia furono discussi – Fin dalla prima riunione

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del Congresso il Conte di Cavour costantemente insistette presso i Plenipotenziarii inglesi e francesi circa la necessità di metter fuori quella questione. Io gli feci osservare, che il Congresso era stato adunato nello scopo di negoziare un trattato di pace colla Russia, e che l’introdurvi un altro soggetto sarebbe cosa estranea e del tutto impossibile; e in fatti anche dopo la sottoscrizione del trattato di pace tale procedimento avrebbe incontrato serii ostacoli, perché gli altri Plenitenziarii avrebbero potuto protestare contro la introduzione di soggetti estranei, e dichiarare che i loro poteri erano limitati alle materie per le quali il Congresso era stato convocato. Ciò nonostante dopo che il trattato fu sottoscritto, i Plenipotenziarii di Francia e d’Inghilterra misero sul tappeto una discussione circa gli affari italiani, e la narrazione del Conte di Cavour di ciò che io dissi relativamente ai Governi napolitano e pontificio è vera; e io non ho né rincrescimento, ne voglia di ritrattare ciò che dicevo in quella occasione. (Udite udite) perché sento, come credo che ogni altro Inglese senta, il più profondo interessamento per i mal governati Italiani e un ardentissimo desiderio di vedere un alleviamento di quel sistema di oppressione e tirannia che prevale da una estremità all’altra dell’Italia; e pensai che un Congresso, in cui le principali Potenze d’Europa fossero rappresentate, sarebbe luogo veramente adatto per esprimere quelle opinioni. Il risultato di una lunga e viva discussione sopra tale soggetto fu, che il Plenipotenziario austriaco convenne col francese che gli Stati pontificii fossero evacuati dalle milizie francesi ed austriache, subito che si potesse effettuare l’evacuazione senza pericolo per la tranquillità del paese, e per il consolidamento della S. Sede romana; ed inoltre, ciò che i più dei Plenipotenziarii non mettevano in questione, era il buon effetto che poteva sorgere da misure di clemenza prese da parte del Governo di Napoli,

«Questa magra risoluzione non soddisfece il Conte di Cavour, ma grandemente lo sconcertò in riguardo alle sue vedute circa la cosa; egualmente come Italiano e come Piemontese la sua irritazione non fu innaturale, giacché tutto il suo cuore e la sua anima aveva posti nel liberare il Nord dell’Italia dalla dominazione austriaca. Mostrava egli una grande irritazione, e costantemente diceva che non sarebbesi potuto presentare al Parlamento di Torino, a meno che non potesse provare aver egli ottenuto qualche bene per l’Italia.

«Io era solito vedere il Conte di Cavour quasi ogni giorno durante quel periodo di tempo, e frequentemente l’udiva parlare su tale proposito,

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il quale per verità, era l’unico soggetto che volesse discutere e sul quale voleva sempre ritornare sopra; ma quelle conversazioni non mi sembrarono mai di un carattere abbastanza prattico cosi che per me fosse necessario di comunicarle al Governo di S. M; in conseguenza di che, per quanto io abbia cercato, non ho trovato ricordo di quelle ripetute assicurazioni che io avrei date al Conte di Cavour; poiché la nostra invariabile prattica era di mantenere i nostri obblighi del trattato, e di aderire ai principii della legge internazionale. Nel medesimo tempo non dissimulai al Conte di Cavour, ciò che egli sapeva, e ognuno sapeva egualmente, che nostro scopo in quel tempo era di affrancare l’Italia dalla occupazione straniera, e di riformare i Governi di Roma e di Napoli, che circa quest’oggetto l’appoggio morale dell’Inghilterra mai non sarebbe mancato. Ma all’infuori delle numerose conversazioni che io ebbi col Conte di Cavour, runica frase che io posso ricordare (la quale potrebbe non giustificare, ma far sorgere quello stato di cose che io diceva) – se voi siete in bisogno, noi verremo in vostro soccorso si riferisce non a una guerra dichiarata dal Piemonte contro l’Austria, ma a una invasione del Piemonte da parte dell’Austria: e questa era un’idea fissa nell’animo di Cavour. Egli sempre pensava che le libere istituzioni del Piemonte, le sue libertà della stampa e delle discussioni, e perfino la stessa sua prosperiti sotto il suo sistema di Governo, l’avrebbero sempre reso un intollerabile vicino per l’Austria.

«Io lo assicurava, che le mie conversazioni col Conte Buoi (certamente in generale non molto soddisfacenti per quanto si riferivano agli affari italiani) confermavano la mia credenza, che di tale apprensione non era bisogno che si preoccupasse il Piemonte in quel tempo; e chiedendomi il Conte di Cavour quali misure noi prenderemmo in tal caso, io ricordo di avergli detto: – Se voi mi chiedete la mia opinione, io vi dirò, che, se l’Austria invadesse il Piemonte allo scopo di sopprimere la sua indipendenza, voi avreste una prattica pruova dei sentimenti del Parlamento e del popolo britannico.

«Senza dubbio io non posso rispondere, che tali fossero esattamente le mie parole; ma credo intieramente sicuro, che esse esprimano nettamente lo spirito del linguaggio che io tenni: questa fu naturalmente una opinione personale, non una officiale opinione. Ciò fu espresso in un caso ipotetico, al quale io non annetteva alcuna importanza particolare, né io seppi che il Conte di Cavour ve l’annettesse finché non ebbi lette quelle lettere, in cui egli dice,

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che «l’Inghilterra, libera da impegni in virtù della con chiusa pace, vedrebbe, ne son certo, con piacere sorgere una opportunità per una nuova guerra, e una guerra che sarebbe» popolare, perché avrebbe per suo scopo la liberazione dell’Italia».

«Vi era un’altra lettera del Conte di Cavour, in cui diceva che o era preparato a mandare milizie inglesi alla Spezia. Ora, quanto a questo, dico sul mio onore che io non ho il minimo ricordo di tale conversazione; ma siccome non ho ricordo, così non posso nemmeno negarlo; posso solamente dire, che se avessi avuto tale stravagante idea, non mai avrebbe potuto essere seriamente nudrita dal Conte di Cavour. Ora, richiamando alla mente l’entusiasmo del Conte di Cavour per il suo paese nelle discussioni del Congresso, insieme col suo ardente desiderio di rendere visibile la sua attività a Parigi affine di sostenere lo spirito dei suoi amici a Torino, io (sebbene forse sia la persona per molte ragioni degna di compatimento) posso da una parte ammettere i suoi imaginarii rapporti di private conversazioni, contenute in lettere dirette ai suoi amici e colleghi; ma evidentemente non erano quelle tenute degne di pubblicarsi da me, Segretario di Stato per gli affari esteri, senza communicarle ai miei colleghi in questo paese. I dettami del senso commune avrebbero ciò mostrato, conoscendo che l’Imperatore in quel tempo non aveva il più leggero pensiero di far guerra all’Austria; quando egli non poteva nemmeno chiedere all’Austria di ritirare le sue milizie dalle Legazioni, finché non avesse egli ritirato la sue da Roma. Io dico in vista di tali circostanze, che, anche nella più indiretta maniera, io avrei raccomandato al Piemonte (paese al quale desideriamo cordialmente ogni bene) di non commettere l’atto suicida di dichiarare guerra all’Austria, la quale aveva 120 o 150 mila uomini sotto il Maresciallo Radetski, e poteva fare certo assegnamento sull’appoggio di Parma, Modena e Napoli; oltre, di che io, senza l’ombra di autorità per questo, avrei avuto la presunzione di guarentire l’appoggio dell’Inghilterra in una guerra così proposta dal Piemonte con l’Austria, la quale avrebbe potuto involgerci in una guerra con mezzo Europa; ciò sembra a me essere un’assurdità così palpabile, che io spero, che le VV. SS. vedranno che porta con sé la propria confutazione, anche senza che io faccia appello a quella estrema discrezione, che il Conte di Cavour, alquanto paradossasticamente, scriveva ai suoi corrispondenti, che io possedeva. (Udite) A. P.»

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Commento al discorso di Clarendon

Non bisogna lasciare questo discorso senza un breve commento. Dopo un inutile esordio, il nobile Lord comincia col dare una mentita alla cara memoria del degno suo amico il Conte di Cavour: dichiara infatti di trovarsi posto in una doppia difficoltà, primieramente quella di sceverare ciò che è vero da ciò che è inesatto (ossia falso) nelle lettere del Conte; secondariamente il dispiacere che prova di contraddire il defunto.

In quelle lettere era detto che il Clarendon impegnò il Piemonte ad accattar briga e a dichiarare guerra contro l’Austria, col dare assicurazione al Cavour che «in tale ordine di politica il Piemonte avrebbe il materiale appoggio dell’Inghilterra». Forse il Cavour non diceva bugia. Difatto Milord si affretta di dichiarare, che vi è molto di vero nelle lettere; poi narra che fin dalla prima riunione del Congresso, il Conte di Cavour costantemente insistette presso i Plenipotenziarii inglesi e francesi circa la necessità di metter fuori la questione italiana. Il nobile Lord dice di aver fatto osservare al Cavour, che il Congresso, adunato per trattare della pace colla Russia, vi si sarebbe opposto, che l’introdurvi un altro soggetto sarebbe stata cosa estranea e del tutto impossibile, e che gli altri Plenipotenziarii avrebbero potuto protestare contro la introduzione di soggetti estranei. Ciò peraltro non impedì punto che, sottoscritto il trattato, i Plenipotenziarii di Francia e d’Inghilterra mettessero sul tappeto una discussione circa gli affari italiani, ed afferma che la narrazione del Conte di Cavour di ciò che egli disse relativamente ai Governi napolitano e pontificio è vera; e che non ha né rincrescimento né voglia di ritrattare ciò che egli diceva, perché sentiva come ogni altro Inglese (secondo lui) il più profondo interessamento per i malgovernati Italiani, e un ardentissimo desiderio di veder alleviato quel sistema di oppressione e tirannia, che prevaleva da una estremità all’altra dell’Italia.

Per verità pare incredibile, che in pieno secolo decimonono tutti i Sovrani d’Italia, ad eccezione già s’intende del Piemonte, si fossero messi d’accordo nel tiranneggiare i proprii, popoli per procacciarsi il bel gusto di far parlare gli alleati franco-anglosardi, e di vederne portate ai quattro venti le pietose e disinteressatissime querimonie. Il fatto intanto si fu, che si riuscì a trarre il Plenipotenziario austriaco nel campo dei furbi alleati; il quale, senza esitare, convenne col francese, che gli Stati pontificii fossero evacuati dalle milizie francesi ed austriache, ed inoltre, ciò che il più dei Plenipotenziarii non misero in questione,

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il buon effetto che poteva sorgere da misure di clemenza prese da parte del Governo di Napoli; che, non essendo rappresentato al Congresso, non poteva dire se quelle misure di clemenza potessero o no ragionevolmente essere applicate, ed anche se non fossero già state forse troppo largamente applicate, come presto vedremo.

Questo passo già abbastanza grave, fatto dai Plenipotenziarii alleati nel sènso del Piemonte, non soddisfece il Cavour, il quale mostrava, ci assicura il nobile Lord, una grande irritazione, e costantemente diceva, che non sarebbesi potuto presentare al Parlamento di Torino, a meno che non potesse provare aver egli ottenuto qualche bene per l’Italia (già si intende l’Italia della rivoluzione, poiché la vera Italia di bene n’ aveva d’avanzo). Strana pretensione del Plenipotenziario sardo! Non ti par egli vedere il ladroncello di strada attentare ad ogni costo alla roba altrui,per timore delle busse che riceverebbe, se tornasse a casa colle mani vuote? Dunque perché il Parlamento rivoluzionario di Torino voleva ottenere qualche cosa per la rivoluzione, doveva turbarsi la pace degli altri Stati d’Italia che l’abborrivano?…

Il nobile Lord seguita a dire, che egli era solito di vedere il Conte di Cavour quasi ogni giorno durante il Congresso, il quale Conte di Cavour per verità frequentemente parlava delle cose d’Italia; anzi era l’unico soggetto ch’egli volesse discutere e sul quale voleva sempre ritornare. Né poteva essere altrimenti, dovendosi attuare il disegno dello spodestamene di tutti i Sovrani d’Italia e del Papa, ordito nelle logge della Framassoneria.

Egli aggiunge di non aver trovato ricordo di quelle ripetute assicurazioni, che egli avrebbe date al Conte di Cavour, poiché la invariabile prattica dei Plenipotenziarii inglesi era di aderire ai principii della legge internazionale (supponiamo volesse dire del diritto delle genti). Nel medesimo tempo però il nobile Lord non dissimulava al Conte di Cavour ciò che egli sapeva, ed ognuno sapeva egualmente, che scopo dell’Inghilterra era di affrancare l’Italia dalla occupazione straniera e di riformare i Governi di Roma e di Napoli, e che circa quest’oggetto l’appoggio morale dell’Inghilterra mai non sarebbe mancato. Del resto egli dice che l’unica frase che possa ricordare delle numerose conversazioni avute col Cavour, cioè «se voi siete in bisogno, noi verremo in vostro soccorso» si riferiva non a una guerra dichiarata dal Piemonte all’Austria, ma a una invasione del Piemonte da parte dell’Austria, in diverso caso sarebbe stato conveniente e giusto d’imporre al Piemonte di cessare

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dalle sue continue provocazioni contro l’Austria. Ma il contrario si voleva dagli alleati Plenipotenziarii di Occidente, i quali lasciavano appunto ogni libito al Piemonte di offendere l’Austria, pronti a difenderlo se l’Austria si fosse levata ad infliggergli il meritato castigo. Quindi, mentre il Piemonte faceva Note e pronunciava discorsi incendarii, che erano altrettante sanguinose dichiarazioni di guerra contro l’Austria, l’illustre Lord dichiara in pubblico Parlamento di aver detto al Conte di Cavour: «se voi mi chiedete la mia opinione, io vi dirò che se l’Austria invadesse il Piemonte, voi avreste una prattica prova dei sentimenti del Parlamento e del popolo brittannico». Il nobile Lord si affretta ad aggiungere per ogni buon fine, che questa fu una opinione personale, non una osciale opinione; ciò che peraltro permise al Conte di Cavour di affermare nelle accennate lettere, che «l’Inghilterra, libera da impegni e in virtù della conchiusa pace, vedrebbe con piacere sorgere una opportunità per una nuova guerra che sarebbe popolare; perché avrebbe per iscopo la liberazione dell’Italia.»

Il nobile Lord, conchiude avviluppando queste frasi, anche troppo incoraggianti pel Piemonte, in molte parole inutili, per provare che il Piemonte non poteva suicidarsi col dichiarare guerra all’Austria; né vi era alcun bisogno di ciò, essendosi stabilito tra i cospiratori franco-anglosardi di obbligare l’Austria a dichiarare essa la guerra, ed in tale caso il Piemonte avrebbe una prattica prova dei sentimenti dell’Inghilterra. Quanto ai sentimenti della Francia non era punto a dubitarne.

Gli effetti di tali inqualificabili atti di una Diplomazia di nuovo genere non potevano tardare a manifestarsi, e si manifestarono infatti disastrosissimi per la povera Italia, che per opera della Massoneria, da ridente giardino d’ Europa, dovea ben presto divenire una spaventevole selva di belve feroci, come è purtroppo divenuta.

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fonte

eleaml.org

 

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