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PAOLO MENCACCI. UNO SGUARDO ALLA RIVOLUZIONE ITALIANA (ventunesima parte)

Posted by on Mar 25, 2018

PAOLO MENCACCI. UNO SGUARDO ALLA RIVOLUZIONE ITALIANA (ventunesima parte)

 

CAPO VI.

MENE MURATTISTE.

A prova maggiore di quanto veniamo affermando, cioè che dall’estero fossero importati nel Reame di Napoli, come in ogni altro Stato italiano, gli eccitamenti sediziosi, affin di giustificare le gratuite affermazioni fatte dai plenipotenziari occidentali al Congresso di Parigi, circa lo stato di agitazione delle Due Sicilie, rechiamo un documento nel suo originale idioma, che, come altri di simil conio, dopo volgarizzati, erano diffusi nel Regno dove peraltro non trovavano né adesione, né ascolto.

Proclama di Murat ai popoli delle Due Sicilie

«Aux peuples des Deux Siciles.

Le Roi Joachim (Murat) vous avait promis une Constitution digne du siècle et de vous mêmes, et il avait appelé à la préparer tous ceux qui avaient profondément médité sur les intérêts de leur patrie. Mais le jour qui voit naitre une idée, n’est pas celui qui la voit réaliser. Les Profètes précèdent le Messie. Le cours naturel des choses est de réserver aux générations qui succèdent l’exécution des desseins formés par les précédentes générations. Aujourd’hui les évènements sont assez changés pour que ce projet solennel soit traduit en acte. Le fils tiendra la promesse paternelle. Un parlement national élu par le suffrage universel, jettera les bases de cette constitution digne du siècle et de vous mêmes. Vous aurez la liberté véritable, non une liberté licencieuse et hypocrite, mais une liberté aussi étendue que celle dont jouit aucun autre État.

Soldats nationaux! Les destinées de la patrie sont dans vos mains. Votre exécration pour le monstre odieux, qui se tient renfermé à Caserte, n’est plus un mystère. Chassez-le donc de son repaire que lui et toute sa race parjure aillent chercher un coin de terre qui les supportent. Que tardez vous? Craindriez-vous les Puissances européennes? Mais il en est venu à ce point, ce tyran sans vergogne, que pas une d’elles, si absolue qu’elle soit, n’a osé prendre ouvertement sa défense, tandis que celles qui font profession de civilisation Vont ouvertement et hautement attaqué.

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La France et l’Angleterre n-ont-elles pas déclaré qu’elles laisseraient aux peuples des Deux Siciles le soin de régler leurs affaires comme ils l’entenderaient. Celui qui aurait la folle témérité d’intervenir, aurait à faire non seulement avec ces deux Puissances, mais encore avec le Piémont et le reste de l’Italie. Le tyran n’a d’autre appui que ses brigands de la Suisse renégats de leur propre patrie, et reniés aussi par elle. Ces hordures, ramassées dans les cloaques de l’autre côte desAlpes ont été pavés d prix d’or, et cet or a été enlevé d vous et à vos familles. Mais c’était peu pour le tyran d’appauvrir le plus riche pavs de la terre, il devait encore en des honorer les fils, parce que en gouvernant avec la hache, et en faisant appel à ses Suisses bourreaux (qui n’ont d’autres lois que leurs caprices, qui reçoivent doublé solde, et qui sont placés dans les postes les plus importants) il vous dégradait et vous méprisait, au point de ne plus vous laisser dans sa pensée, d’autre position sociale, que celle de valets de ses Séides.

Soldats! Au nom de Dieu, qu’une telle ignominie ait un terme! Ne laissez pas échapper l’occasion présente. Si vous la perdiez, vous le déploreriez avec des larmes et du sang. Songez à ce que vous avez de plus cher; au nom des mères privées de leurs fils, au nom des orphelins à qui les prisons, les tortures et l’exil ont arraché leurs pères; au nom de vos terres arrosées du sang de cents mille martyrs; au nom du votre honneur, oh! qu’une fois, soldats, vous mettiez fin à une tyrannie insensée et honteuse sur la quelle pèse l’anathème du monde! Rachetez votre pays qui vous décernera le noble titre de Pères de la patrie (Epistolario di Murat, pag. 749).

Quale ributtante ammasso di calunnie e di menzogne! Quale schifoso getto di onestà e di pudore! Non facciamo commenti su questo mostruoso proclama, solo diciamo che fa ampia testimonianza dei tempi corrotti e perversi in che viviamo. Il cumulo di fatti che stiamo raccogliendo lo confuta in ogni sua parte.

Intanto, poiché i popoli delle Due Sicilie erano italiani e non francesi, questo documento veniva tradotto con poche varianti nel nostro idioma e sparso per il Reame. Mentre poi il francese Murat si rivolgeva così ai napoletani in generale, spargeva foglietti clandestini più direttamente rivolti all’esercito. Ne abbiamo uno sotto gli occhi, del tenore seguente:

– 331 –

Proclama di Murat all’esercito

«Egli è ornai tempo, o militi napolitani, di mostrare la vostra valentia, il vostro onore nazionale, il vostro cuore veramente italiano a difesa della vostra patria, che, da sì lungo tempo, giace oppressa sotto il tirannico giogo dello straniero e del Borbone. È necessario, che manifestiate alla fine i vostri sentimenti, che un panico timore tiene vilmente chiusi nei vostri petti; che deponghiate la diffidenza e coraggiosamente diate mano all’opera gloriosa. La patria, sì la patria vostra, militi nazionali, da questo crudele tiranno così manomessa, le vostre famiglie schiacciate, l’onore vilipeso, l’interesse proprio vostro venduto, i vostri diritti calpestati, tutto insomma domanda la vostra sollecita opera, la vostra mano. Voi, dando finora ascolto alle lusinghiere false promesse del Borbone, non avete mancato di esporre i vostri petti alla difesa di lui, ed assodarlo sul trono da lui iniquamente occupato. E quale è stato il frutto che dai vostri travagli, da vostri tanti sacrifici per lui, con tanta generosità fatti, dal vostro zelo avete ritirato? Voi il sapete. Egli, siccome spergiuro, discendente da un sangue spergiuro, non ha dubitato di mettersi sotto i piedi, ad esempio dei suoi avi, giuramenti solenni, ribadire le catene della patria, e venderla vilmente allo straniero. Appena assodata a prezzo del vostro sangue la sua corona, si è riso delle promesse a voi fatte; vi riguarda come un branco, un pecorame di mascalzoni; e la sua milizia favorita, che gode di tutti gli onori e di tutti i frutti, sono gli Svizzeri.

«Gli Svizzeri, presidiano i punti più importanti del Regno, non essendo voi creduti di alcuna fiducia; gli Svizzeri ritirano un. soldo più del doppio del vostro; la milizia svizzera viene aumentata di giorno in giorno, accrescendosi sempre più i pesi sulle spremute ed esauste sostanze dello Stato. E voi? Voi riguardati come gente di nessuna fiducia, siete da lui e dagli stessi Svizzeri nella medesima vostra patria vilipesi. E voi, o militi nazionali, permettete un’ ingiuria sì grave, un’ onta sì forte al vostro onore? L’onore delle vostre spade vi permette di soffrire più a lungo un tale obbrobrio? Che bisogno ha il Regno di una milizia straniera, di una venduta canaglia! Sprone al vostro onore militare sia la condotta della milizia piemontese, ammirata e magnificata da tutta Europa.

«Quella, associandosi alla milizia delle grandi Potenze nella campagna di Crimea, ha dimostrato col fatto, che il valore delle armi italiane non è inferiore allo straniero; ed ha operato, che il Piemonte nel Congresso di Parigi insieme colle grandi Potenze,

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con eguale diritto sedesse vincitore a giudicare sulle sorti dell’Europa (1). E voi, militi nazionali, non siete cittadini anche voi? Dovrà dirsi che il valore, la gloria, l’onore militare e cittadino, sia un privilegio de’ soli soldati piemontesi in Italia, e da cui voi siete esclusi. No, la vostra gloria sarà doppia, se animosi saprete sposare la causa della patria comune, l’Italia, la quale causa è causa vostra, se quelle armi, che cingete al fianco e che ciecamente avete finora adoperate a danno della patria e a difesa del tiranno, voi le rivolgerete a cacciarlo via, a difendere non più lui, che ne ha perduto ogni diritto, ma la povera vostra patria da lui tenuta in ceppi, da lui smunta, da lui venduta, da lui ridotta ad essere da tutti dileggiata. La vostra gloria sarà doppia di quella della milizia piemontese, perché se quella milizia ha dato grandi prove di valore, le ha date sotto l’influenza e la direzione di un Re tutto italiano, che non cerca che spingerla a grandi imprese; voi al contrario opererete grandi cose, non già secondati da questo Borbone, ma contrariati da lui. La vostra gloria sarà doppia, perché diretta non a liberare un altro popolo, ma la patria vostra e le vostre famiglie. Voi darete a conoscere a tutto il mondo quale è la nobile missione del vero soldato, cioè difendere la patria, non un tiranno che la vuole coll’opera vostra oppressa. Voi smentirete (e ne avete pur troppo bisogno) la taccia finora portata al vostro onore, di essere riguardati come vili sgherri di un despota crudele ed oppressore. Darete a vedere, che voi siete cittadini prima di essere militari, e che perciò il primo vostro dovere è verso la patria, verso i vostri congiunti e le vostre famiglie.

«Deh! non vogliate più a lungo protrarre la grande opera, o figli della patria; tutti concordi, date principio e compimento; animate voi stessi, i compagni e gli altri commilitoni; comunicate a tutti i vostri camerati questi nobili sentimenti: – fuori per sempre il Borbone e tutti i Borboni, con cui non vi può essere alcuna transazione. – Stufi siamo delle loro promesse, nota pur troppo e è la loro fede, noti purtroppo ci sono i loro spergiuri. – Qualunque sia la promessa, che dal Borbone vi venga fatta (poiché in faccia alle imponenti circostanze niente più facile, che ne sarà fatta da lui qualcuna, onde le incaute menti potranno restare accalappiate) noi non ne possiamo mai essere sicuri.

(1) Quest’ultima frase rivela il disegno bonapartesco della divisione dell’Italia in tre grandi zone, con Gasa Savoia al Nord,Murat al Sud, e Girolamo Napoleone, (con una oasi pel Papa) al Centro

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Fra noi da una parte, e la sua svergognata famiglia dall’altra, non vi può essere più alcuna sicura convenzione.’ Fuori dunque l’infame Borbone e tutti i Borboni! Tutto il popolo è con voi, perché popolo e milizia debbono essere la stessa cosa. E qui dovreste, o militi nazionali, ben accorgervi della frode del despota, a voi vietando di affratellarvi e di comunicare col popolo, perché teme che, comunicando col popolo, voi conoscerete la verità che egli cerca nascondere. Né vi fate a credere che, animandovi a cacciar via il tiranno, si cerca il disordine, l’anarchia, una repubblica. Ben conosciamo, che la forma repubblicana è la ruina dello Stato. Noi non vogliamo, che la dinastia murattiana, la quale ci ha dato prove non dubbie del suo buon volere; sospetta non ci è la sua buona fede; sicure ci sono le sue promesse, perché garantite dal passato, dalla Francia e dal Piemonte, e sposando voi la causa murattiana, sposerete la causa vostra. Ciascuno, secondo lo zelo che mostrerà, sarà largamente premiato da quella famiglia; le vostre cariche bene assodate. Sotto Murat non vi saranno più Svizzeri, né altre milizie straniere, siccome vi attesta il governo dell’immortale Gioacchino. Appena salito su questo trono Murat, una lega più intima sarà stretta col Piemonte ed appoggiata dalla Francia. Nessuna Potenza straniera potrà opporsi a’vostri sforzi, senza tirarsi sopra la guerra della Francia, che non vuole che alcuna Potenza s’immischi negli affari di altri Stati. Il Piemonte, sì il Piemonte, che non può stringersi in alleanza col Borbone, vi invita, vi sprona, vi sollecita all’opera grandiosa, amorevolmente porgendovi la destra.

«O militi nazionali, che altro aspettate? La patria, quella cara patria che da lungo tempo langue sotto gli artigli dell’inumano tiranno, ricorre a voi, da voi aspetta la sua redenzione; a voi è serbata la gloria di ritirarla dal vituperio, in cui la sprofondava il despota. Uniamoci tutti alacremente, popolo e milizia, per la patria comune, e coll’opera e colla voce esclamiamo: – Fuori tutti i Borboni! Viva Italia, Viva Murat!»

Cosi questo Principe straniero, appoggiato dalla potenza di stranieri parenti, insultava una veneranda monarchia e un Sovrano italiano, e gridava: fuori i Borboni per mettersi Egli al posto loro! (1)

(1) Luciano Murat, pretendente al trono delle due Sicilie per decreto d’un invasore straniero, Napoleone I, dopo quaranta anni passati in silenzio, levava la oscura sua voce per insultare da lunge la più augusta dinastia, e il più illustre reame! – Diciamo una parola di codesto strano pretendente.

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Aggiungere commenti a codesto spudorato proclama sarebbe arrecare offesa, non che all’onestà, al buon senso del lettore.

Diciamo piuttosto qualche cosa di più circa i disegni di Napoleone III per la ricostituzione d’Italia, da noi soltanto accennati.

Disegni di Napoleone III per la ricostruzione dell’Italia

– Napoleone III, scrive Clément Coste nella sua recente opera – Rome et le second Empire – sperava conciliare gl’interessi dei cattolici e degli italiani, non lasciando sussistere in Italia che tre poteri sovrani:

Gioacchino Murat, suo padre, tratto dal nulla dalla rivoluzione francese del passato secolo, e da oscuro seminarista divenuto audacissimo soldato, fu uno dei più famosi generali del Bonaparte, che lo ricolmò di ricchezze e di onori fino a dargli in moglie la propria sorella Carolina, e fino a crearlo Granduca di Berg (1806). e Re di Napoli (1803), dopo spogliatine i Borboni. Gioacchino Murat restò fedele a Napoleone primo, finché a Napoleone primo restò fedele la fortuna, poi con essa gli voltò le spalle. Ad un tempo ingrato, fellone e spergiuro, Murat più volta patteggiò coi nemici del suo signore» fino al punto di divenirne alleato.

Nel 1812 trattava già con gli alleati, quando venne a sorprenderlo la Campagna disastrosa di Russia Non seppe resistere alla voce di Napoleone, e marciò con lui. Vinto questo dal braccio vindice di Dio, più che dagli eserciti russi, Murat abbandonò l’esercito.

La campagna del 1813 lo colse patteggiante con Austria e Inghilterra, mentre cercava di consummare la sua defezione. Ciò non ostante, chiamato da Napoleone, lo seguì di nuovo sui campi di battaglia.

Dopo la perdita della battaglia di Lipsia, corse a Napoli, e PII Gennaio 1814 sottoscriveva un trattato con l’Austria, impegnandosi a fornire un esercito di 30,000 uomini agli alleati contro Napoleone suo congiunto, suo principe e suo benefattore, per tenersi in capo la corona. Allora con finte promesse deludendo Beauharnais, viceré d’Italia per Napoleone, si forni di viveri e di munizioni nei depositi dell’alta Italia, che furongli aperti come ad alleato, e marciò alle spalle dell’esercito franco-italiano, costringendo il Viceré a ripiegarsi sull’Adige, movimento che sconcertò tutti i disegni di Napoleone, Saputi poi i successi di costui nella Sciampagna, Murat mandò a Beauharnais proposte d’amicizia e di devozione: ma era il momento In cui Napoleone 1 sottoscriveva la sua addicazione a Fontaineblau, nell’istessa sala dove pochi anni prima aveva forzato Papa Pio VII ad addicare.

Al Congresso di Vienna, riclamando i Borboni pel loro trono delle due Sicilie, Murat si alleò coi frammassoni Carbonari, e saputo della fuga di Bonaparte dall’Elba ve il suo momentaneo ritorno sul trono, spergiuro un’altra volta, tradì gli alleati del Nord e marciò contro l’Austria, Vinto, fuggì lasciando la moglie sua Carolina in mano degli Inglesi. Rigettato dal tradito cognato, dopo la infelice battaglia di Waterloo, avendo tentato uno sbarco nel regno di Napoli per riconquistarlo, fa preso dal popolo, che lo condusse prigione nel castello di Pizzo in Calabria, dove condannato da una commissione militare, ai 13 di ottobre del 1815, fini miseramente fucilato.

E il figlio di costui osava ora di gittare il fango sul Re di Napoli, chiamandolo spergiuro e discendente di spergiuri!…. Tutto si può osare in questi scellerati tempi.

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un regno dell’alta Italia, con Vittorio Emanuele;il regno delle Due Sicilie, col figlio di Gioacchino Murat, e finalmente gli Stati della Chiesa, diminuiti delle Romagne.

Il murattismo contava a Napoli pochi aderenti, ma gli sforzi del Governo francese miravano da gran tempo a moltiplicarne il numero. Gli opuscoli, le lettere del pretendente e l’operosità di alcuni agenti devoti mantenevano una certa agitazione più artificiale che seria. Il principe Murat era stato eletto grande Oriente della frammassoneria francese, dietro dimanda dei massoni di Napoli, e il discorso ch’egli pronunziò quando prese possesso della sua carica conteneva un punto significante, nel quale indicava tutti i vantaggi che poteva ritrarre la massoneria dal ristabilimento dell’Impero. Dobbiamo aggiungere, ad elogio del principe Murat, che decaduto da quella dignità in seguito dei suoi voti al Senato in favore della Santa Sede, (Un frammassone favorevole alla S. Sede!?) fu surrogato dal principe Napoleone, il cui giacobinismo si era apertamente manifestato in ogni incontro.

Nelle numerose conversazioni che ebbero luogo fra l’Imperatore e il Sig. di Cavour, più d’una volta si trattò del regno murattista. Il ministro piemontese non osava urtare di fronte le combinazioni del suo potente interlocutore, ma si riserbava di attraversarne la esecuzione con l’appoggio dell’Inghilterra e con lo stesso principio del – non intervento – che avrebbe fatto proclamare dal Governo francese. «Tutto è preparato» avrebbe detto il Conte di Cavour in uno di codesti colloquii a solo a solo, come egli stesso ebbe a riferirlo. «Incominciamo colle Romagne: al primo motto d’ordine, Bologna insorgerà.» – «Né; avrebbe risposto l’Imperatore, qui non siamo preparati contro gli Stati del Papa: bisogna piuttosto incominciare da Napoli. Voi avevate per quel paese il duca di Genova; morto, non potete surrogarlo col vostro Carignano. Ma io ho Murat; con lui tutto sarà facile» (1).

Vittorio Emanuele e il suo ministro avevano su Roma e su Napoli mire che in quell’epoca la diplomazia imperiale non sospettava. Il signor di Cavour supplicò, minacciò, intrigò e lusingò a guisa dell’uomo che domanda alla vanità, alla stanchezza e alla paura, ciò che la giustizia e il buon diritto non avrebbero potuto concedergli. La logica di questo straordinario piemontese è assolutamente falsa, ma ravvolge nelle sottili e fraudolenti sue spire la meditabonda immaginazione di Napoleone III, che già soggiogato e trascinato da Lord Clarendon, finì per assicurare il signor di

(1) Le Sociétes secrètes et la Società, t. Ili, p. 125.

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Cavour della sua cooperazione in una vicina lotta contro l’Austria. c Tranquillizzatevi, gli disse egli nel lasciarlo, ho il presentimento «che la pace attuale non durerà a lungo. (1)» II Piemonte manovrerà in guisa da abbreviare gl’indugi ed affrettare la realizzazione delle speranze che sono state incoraggiate a Parigi e a Londra. La stampa rivoluzionaria accorre in suo aiuto; II Parlamento inglese esalta la politica del gabinetto sardo, e le Camere di Torino votano significanti felicitazioni agli abili plenipotenziari di Vittorio Emanuele. – Fin qui il Coste. (2).

Un nostro appunto.

Noi, nel dividere le sue idee, crediamo fare una qualche riserva circa il disegno di Napoleone sugli Stati della Chiesa. Conveniamo che, durante il pontificato di Pio IX, e forse anche per non offendere troppo bruscamente il mondo cattolico, volesse Napoleone riserbato al Papa un brano qualunque dei suoi Stati,salvo il dividerla a suo tempo nelle tre grandi zone da noi altre volte accennate, con i sabaudi al Nord, Murat al mezzoggiorno, e il famoso cugino Girolamo Napoleone, al centro. Se Napoleone ave consentisseto di gettare all’Inghilterra l’ambita offa della Sicilia, forse il Cerbero britannico avrebbe taciuto e il disegno bonapartesco sarebbesi realizzato; ma l’Inghilterra non fu appagata; con l’Inghilterra eravi l’unitarismo mazziniano, e come questo volle fu fatto. . ‘

Ferdinando II risponda co’ fatti.

Le replicate insidie non fecero deviare di un passo il Governo di Re Ferdinando]dai suoi magnanimi provvedimenti pel benessere del popolo; e il fiero tiranno, designato dal Murat all’odio dell’esercito e del popolo, continuava l’opera benefica di civiltà vera e di vero progresso nel suo Regno. Difatti una legge dei 16 marzo dello stesso anno 1857 stabiliva nei porti del Reame, sulle più estese proporzioni, un entrepot, dogana di deposito e di esportazione: la quale misura, di alta commerciale importanza, era per arrecare un notevolissimo vantaggio al commercio marittimo, del quale erano principalmente chiamate a fruire Inghilterra e Francia. Inoltre un reale decreto, dato a Gaeta il 26 marzo 1858, aboliva nella Sicilia la soprattassa del 6 per cento sulle case, imposta nel 1853 per l’urgente bisogno di riordinare l’amministrazione economica dell’Isola, e riparare il forte squilibrio delle finanze cagionato dalla rivoluzione del 1848, e dappoi sistemato con le sagge economie introdotte dal Re. In un’epoca nella quale nei vari Stati di Europa, retti a liberalismo,

(1) Cavour a Castelli. Bianchi, VII, 622.

(2) Rome et le II Empire, Etudes et souvenirs, 18481858, par CUment Cotte. Paria – E. Dentu, Libraire éditeur, 1879.

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non si parla di altro che di accrescere le imposte e di contrarre nuovi debiti, è pur cosa sorprendente, e può dirsi esempio unico, almeno in Europa, che il Governo Borbonico di Napoli abolisse le prime, e non avesse bisogno di ricorrere ai secondi; mentre progredivano mirabilmente le opere pubbliche in tutto il Reame. Innumerevoli linee telegrafiche erano già stabilite, ed altre tutto dì si stabilivano, e per quasi 400 miglia, nella sola Sicilia, la corrente elettrica recava telegrammi dall’una all’altra città. Al cominciare del 1857 l’Isola si trovava di avere 1305 miglia di strade rotabili, e si lavorava su di altre 247, mentre erano approvati i disegni per altre 239 miglia.

Nel corso dell’istesso anno, d’ordine del Re Ferdinando II, si consacravano 300 mila ducati per soli ponti e strade in Sicilia; e per l’anno 1858 si stabiliva il fondo di un milione di ducati pel medesimo scopo. Si aprivano nuovi sbocchi ai prodotti del suolo; si assicuravano facili approdi ai navigli; si accordavano 18 nuovi fari sulle coste sicule e delle isole adiacenti; ed altri se né ordinavano, colla spesa di 170 mila ducati. (1) Cose tutte delle quali avremo a dire in seguito più diffusamente.

(1) Giornale Officiale di Sicilia, 6 Aprile 1858. n. 71.

 

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CAPO VII.

TESTIMONIANZE NON SOSPETTE CIRCA IL GOVERNO NAPOLITANO.

Non si creda esser solo stile di apologista benevolo il dire del buon andamento governativo degli Stati napolitani in generale, e della Sicilia in particolare, in quest’epoca. Nella stessa Camera di Torino spesso accadde si facessero onorevoli menzioni retrospettive della savia amministrazione dei Borboni, e della superiorità dei loro ordinamenti governativi, a fronte di quelli assai inferiori introdottivi colla invasione sarda. (Tornata dei 4, 15, 26, 29 e 30 aprile 1861.) Si parlò e spesso della savia economia delle finanze, onde il tesoro fioriva, avvegnaché grandiose spese si facessero (tornata dei 3 dell’istesso mese); degli eccessi anarchici del nuovo governo, che fanno rimpiangere quello antico dei Borboni (tornate 2 aprile e 20 maggio); che proteggevano le manifatture allora fiorenti ed ora decadute (tornate 13 maggio e 27 giugno); che ben reggevano gl’Istituti di beneficenza e ne facevano ammirare la retta gestione nella Sicilia (tornate 14 e 15 aprile); che provvedevano alla mitezza dei prezzi dei generi alimentari pel minuto popolo (tornata 22 novembre); che osservavano scrupolosamente la legge sull’organico degli impiegati, violata dal Piemonte (tornata del 4 aprile 1861); ed a fronte delle costui dissipazioni finanziarie, facevano saggie economie sul trattamento degli stessi impiegati, (tornata 28 giugno 1864); che istituivano un bacino di carenaggio a Palermo, e le tanto utili Compagnie di armi, che tennero la Sicilia immune da reati (tornata 4 aprile); che con munificenza promossero Ufficiali militari, benché tra questi vi fossero pecche, e li mantennero nei gradi, benché loro accordati da Governi illegittimi (tornate 18 detto e 19 giugno); che rispettarono la libertà dei municipi (tornate 29 aprile e 12 luglio); che colla legge soppressiva della feudalità diedero argomento della civiltà napolitana (tornata 7 maggio 1861);

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Testimonianza del deputato Cordova

Testimonianze circa il codice napolitano.

del deputato Crispi.

che provvidero il Reame di splendidi stabilimenti, opifici, armerie e arsenali (tornate 20 maggio 3 e 27 luglio ); che usarono

sempre sommi riguardi per la gloria dei corpi scientifici (tornata 19 giugno); che accordarono grazie e mitigazioni di pene, anche verso i più sfidati loro nemici, mentre il governo piemontese non usa clemenza (tornata 20 maggio 1861 e 15 decembre 1862); che nel 1833 il governo dei Borboni fu benigno nelle imposte fondiarie in Sicilia, liberandone i poderi minori di 4 tomoli, oggi vieppiù aggravati dai Piemontesi, e rese ai Siciliani quella giustizia che la Commissione e il Ministero di Torino ora negano (deputato Cordova tornata 27 febb. 1864); che la Sicilia sta assai peggio sotto il governo della libertà importatovi dai piemontesi, che sotto i Borboni, il cui governo nei soli anni 1858 e 1859 spese cinque milioni pei lavori pubblici in Sicilia; e al contrario in tre anni il governo di Torino, dopo averla aggravata d’imposte, non vi ha speso che soli due milioni (deputato Crispi, tornata 17 marzo 1864).

Testimonianza del deputato Brofferio.

del deputato Ara.

Il Codice del Regno delle Due Sicilie, per unanime giudizio degli stessi avversari politici di quel governo, è costantemente applaudito ed encomiato, e se ne dichiara la incontrastabile superiorità su tutte le altre legislazioni in Europa, e soprattutto sul Codice sardo «nel quale si è cercato trasfondere, ma con poco studio, quanto di meglio era nel primo, arrecando una totale confusione nell’amministrazione della giustizia» (tornate della Camerali Torino, 15 e 28 marzo, 30 aprile, 17 giugno, 4, 13, e 22, decembre 1861, e 16 giugno 1862). E soprattutto i pregi del Codice penale napolitano, cotanto favorevole alla libertà, sono lodati non solo dai deputati delle provincie meridionali, ma da quei medesimi del Piemonte, tra i quali il Brofferio (tornata 3 decembre 1861). E il deputato Ara, nella tornata della Camera del 16 maggio 1864, proponeva «che si estenda a tutta l’Italia il codice napolitano, che è uno dei migliori di Europa.»

Testimonianza dei deputati Siciliani.

Nella tornata poi del 7 giugno 1864 i deputati siciliani protestarono: «che in Sicilia non si fece nessuna opera pubblica importante dal 1860 a questo dì! Cioè a dire da che al governo tirannico dei Borboni si è sostituito quello liberale di Torino. E aggiungevano: «la Sicilia è abbandonata dal governo italiano; se le strade comuni sono pessime, le strade ferrate non esistono!» – E nella tornata dell’11 dello stesso mese si confessa «che la legge del 1817 sul contenzioso amministrativo è

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del Sandonato

assai migliore delle altre promulgate dai piemontesi.» Dippiù, nella tornata dei 4 Luglio 1864, deplorandosi la ruina delle finanze dello Stato per colpa del Governo, si fa un sensato confronto tra i bilanci del nuovo regno d’Italia coi bilanci degli antichi Governi antecedenti nella Penisola, e soprattutto del Borbonico; e si dimostra, che «questi senza aumentare ogni anno il disavanzo, come rugosamente fa oggi il governo di Torino,» promuovevano i miglioramenti con zelo, Intorno al che il deputato napolitano Sandonato nella stessa tornata rammenta, ad onore della dinastia Borbonica, che «la fondazione della lodatissima colonia industriale di S. Leucio presso Caserta, di fama europea, è dovuta al Re Ferdinando IV di Borbone, nello scorcio del passato secolo, da lui dotata di uno Statuto, che si avvicinava a repubblica; ogni individuo doveva lavorare in istupende manifatture di seta e velluto, che avevano acquistata molta celebrità; e una parte del frutto del lavoro era riserbata per gl’infermi, per la istruzione pubblica ecc. – Ora il governo di Torino l’ha distrutta, come ha distrutti tanti altri utili Stabilimenti creati sotto i Borboni, e vi ha sostituiti gli eccidi governativi della legge Pica ecc.»

Altra del Crispi

Altro omaggio al governo Borbonico è la fondazione della Stamperia reale (vedi A. P. pag. 1176).

Il deputato siciliano Crispi è costretto a deplorare i tanti abusi della nuova magistratura dei piemontesi, che è finanche accusata offlcialmente d’imperizia e d’immoralità, (tornata 10 decem. 1861. – Vedi anche opuscolo Durelli pag. 113. – e la Cronaca di Sicilia, pag. 365).

del Mirabello

del Conforti

del Pica

Il deputato napolitano Mirabello, nella tornata del 30 Aprile 1861 n. 98, encomia anch’esso l’antica magistratura napolitana, e parlando nella camera di Torino sul nuovo organico giudiziario diceva: «la magistratura napolitana, tranne pochissime eccezioni, è una magistratura, la quale per moralità e capacità non è inferiore ad alcuna delle magistrature di Europa… La legge organica giudiziaria, pubblicata ora nelle provincie meridionali, mentre stabilisce le stesse autorità, non fa che immutare i nomi, rispettando le identiche attribuzioni che aveano precedentemente.» Anche il deputato Pica sul proposito osserva: «Sta nella mia mente, che nelle provincie meridionali nuove leggi per ora non debbano introdursi, ma invece quelle che vi stanno debbano essere saldamente eseguite,» Paramenti il deputato Conforti fa gli elogi dell’antica legislazione penale napolitana,

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del Castagnola

e dice, che «nello stesso Codice penale sardo si sono introdotti molti miglioramenti che sono stati tolti dal Codice napolitano, il quale era stato opera di sommi giureconsulti. Né questo deve far meraviglia; dappoiché Napoli è la patria di Vico, di Pagano e di Filangeri…. L’antico Codice criminale del Piemonte conteneva 150 casi di pena capitale, e soltanto ultimamente (nel tempo de’ pieni poteri) egli è stato riveduto, e tale pena è stata ridotta per soli 20 casi.

Un fatto che rivela nella stessa tornata il deputato Castagnola, nell’atto che torna ad elogio del Governo de’ Borboni, mostra a quanta degradazione è caduto l’italiano. Facendo egli la relazione delle petizioni, osserva su quelle del calabrese Antonio Presterà di Monteleone, di essere stato destituito sotto il governo Borbonico, non come martire politico, giusta la solita frase, ma come contabile fraudolento di quelle prigioni circondariali, che, con discapito del vitto de’ detenuti, percepiva dolosamente un assegno mensile: della quale colpa sorpreso e convinto da quel Sottintendente, venne non solo privato d’impiego, ma sottoposto a giudizio criminale, il cui esito fu di conservarsi gli atti in archivio. Ora il deputato Castagnola fa osservare: «In seguito, per quanto il contabile ricorresse, ciò non ostante il Borbone non ha mai creduto riammetterlo in impiego, risultando da documenti di es» sere pur troppo immeritevole di fiducia. Se non che quest’uomo, che era stato processato pel suddetto motivo dal governo Borbonico, che non aveva voluto riammetterlo, venne invece reintegrato nella carica dal governo nostro.… D’altra parte ben si osservò, che sui giornali si levano alte grida per la corruzione, che ora esiste nelle provincie napolitane…» Tutto effetto di quell’ordine morale, che il Governo di Piemonte, come ha proclamato il suo Re Vittorio Emmanuele II, venne ad instaurare nel resto d’Italia!

del Ricciardi e di nuovo di Crispi

Il deputato Ricciardi onora la magnanimità di Carlo III Borbone che, dovendo recarsi a pugnare contro l’Austria, ne libera i partigiani trattenuti in carcere, e concede ampia amnistia a tutti gli altri. E qui il deputato Crispi, nella tornata del 10 dicembre, aggiunge:

«l’unico vantaggio ottenuto dalla Sicilia con l’aver cambiato governo è quello di vedere le sue carceri riempite di disgraziati.»

del Bixio

Il deputato Bixio, alludendo all’indole della rivoluzione siciliana, diceva:

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«la Sicilia sarebbe rimasta pacifica sotto i Borboni, se la rivoluzione non fosse stata ivi portata dalle altre provincie d’Italia e dal Piemonte.» (Lo confermava pubblicamente Garibaldi a Londra siccome a tutti è noto.)

del Raffaele

Il deputato Giovanni Raffaele, ai 16 luglio 1864, rivela anch’egli le arti abbominevoli, colle quali eransi calunniati i Borboni inventando le torture; rivelazioni delle quali vuoi essere considerata ogni parola, quando nel proseguimento del lavoro avremo a porle sotto gli occhi del lettore (1).

Ma sulla vera natura della rivoluzione siciliana, e per conoscere con quali sforzi le consorterie faziose abbiano procurato di corrompere le masse popolari, dal 1825 in poi, senza alcun torto dalla parte della Dinastia napolitano sono da leggere le importanti rivelazioni fatte, rii ottobre 1866, dal sindaco di Palermo. Marchese Rudinì, primario cospiratore, rivelazioni che recheremo a suo luogo. Ma v’è di meglio a lode de’ Borboni.

Le Isole di Linosa e Lampedusa. Testimonianza del Ministro Giovagnola.

Le due isole di Linosa e Lampedusa, poste a 120 miglia oltre là Sicilia, e più vicine all’Affrica che al Continente italiano, forniscono nuovo argomento di encomio pel Governo del Re Ferdinando II, e di discussione nella Camera dei deputati del neoregno d’Italia. Infatti, nella tornata dei 14 giugno 1867, quando la Capitale italiana aveva compito la sua prima tappa a Firenze, il ministro dei lavori pubblici signor Giovagnola si faceva a dire: – «Queste due Isole, presso che deserte, incapaci di ogni ordinaria coltura, furono non pertanto oggetto delle cure del passato Governo borbonico, il quale, per motivi politici, che certo non sono da biasimare, credette opportuno di prenderne possesso per impedire che altri il facesse; e, per mantenerle, provvide lodevolmente a stabilirvi una specie di colonia agricola. Per fondare codesta colonia fu costretto a portarvi gente povera e sfaccendata, ed a pensare al mantenimento di essa; dappoiché queste Isole sono aride e improduttive, e una di esse non ha neppure acqua, poiché bisogna giornalmente portarla a quelle popolazioni da altri siti, che distano di molto (2).»

Dell’Ayala.

Il Deputato Ayala avverte, che tre Ministeri si occuparono

(1) Vedi Tona. 1. Memorie dell’Armonia per servire alla storia de’ nostri tempi,pag. 125128. Vedi le rivelazioni dei deputati Nicotera e Ricciardi sui progetti di cospirazione per detronizzare il Re Ferdinando II, e come Questi vincitore il 15 maggio 1848 se ne vendicasse colla clemenza, pag. 22. 56. 220. A. P. – Lettera dell’ex prefetto Cacace, pag. 56 A. P. Rivelazione di Tofano pag. 490.

(2) Atti uff. della cam. de’ dep N. 184. pag 715, tornata 14 giugno 1867.

«3 –

(durante il presente Regno italico fino a quell’anno 1867) delle dette due Isole, senza far nulla, e racconta, che un ottuagenario, Menelao Calcagno, è Sindaco di Lampedusa; ma non ne ha girato neppure il perimetro, perché vive a Girgenti. Cqnchiude dicendo, che di Lampedusa e di Linosa si sa pochissimo, né figurano nel dizionario dei Comuni italiani, e finisce con dire: «Signori, abbiamo» fatto da sei anni l’Italia, ma l’Italia è poco studiata.»

Crispi elogia il Re di Napoli

Il Deputato siciliano Crispi da importanti notizie sulla storia delle dette Isole, ed è costretto tributare encomi al Re di Napoli, u Napoli contro del quale aveva cospirato. Ecco le sue parole: «Quelle Isole fino al 1843 appartennero ad una famiglia maltese, che non seppe mai né coltivarle né colonizzarle. Siccome Lampedusa sta tra Affrica e Sicilia, e può essere utile ai nostri commerci, a Ferdinando Borbone venne in mente di colonizzarle,» e quindi cercò di attirarvi gli abitanti della vicina Sicilia. Ma la popolazione non potea facilmente raccogliersi in un luogo, dove mancavano case, alberi, acqua, tutto. – Linosa e Lampedusa hanno due porti di grandissima importanza, ed a’ tempi, in cui Francia non voleva che Inghilterra rimanesse a Malta, il primo pensiero di Pitt fu di prendersi Lampedusa e Linosa, onde farne stazione di navi inglesi nel Mediterraneo. Né solo il gabinetto Britannico ebbe codesto pensiero. Pria che scoppiasse la rivoluzione francese, Caterina di Russia, che pretendeva anche essa al dominio del Mediterraneo, negoziò per avere il possesso di Lampedusa, dove voleva costruire una specie di Ordine di Malta, che sarebbe stato vigile sentinella per la potenza della Russia ne’ mari che stanno tra l’Occidente e l’Oriente. Il Re di Napoli, che, con tutti i suoi difetti aveva pure qualche cosa di buono, credette necessario di colonizzare Lampedusa. Quindi per attirarvi una popolazione, siccome i ricchi non vanno ad impiantarsi in una Isola così lontana, e dove non si può avere dall’Affrica tutto quello che é necessario alla vita civile, cercò chiamarvi famiglie di contadini, pagando tutto ciò che era necessario a’ bisogni della nuova popolazione» (Atti uff. N. 184 pag. 816).

Dichiarazione del deputato Amari

A compimento delle informazioni storiche sulle due Isole anzidette parla il Deputato siciliano Amari, che fu un tempo segretario d’una Commissione incaricata di studiare come Linosa e Lampedusa potessero conservarsi all’Italia. Egli così si esprime: «Non fu un tentativo solamente che si fece per toglierle alla Sicilia, ma arrivò ad impadronirsene un maltese, e diventarono così una specie di proprietà, su cui il Governo inglese, come protettore dei cittadini maltesi, non dubitò presentare delle pretensioni.

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Dunque non è cosa da prendersi per ischerzo. – Allora il Governo del Re di Napoli, vedendo il pericolo, cercò tutti i modi per far sì che quella terra restasse terra italiana, e l’ottenne. Ma se per un momento si ritira la mano del Governo, emigrano tutti gli abitanti che vivono in quelle Isole, ed esse ritorneranno in quello stato, in cui erano pria che la colonizzazione si fosse tentata; in uno stato che è incredibile, in uno stato che non dirò di natura, ma fuori di natura; stato di barbarie primitiva…. A questo stato riparò in certo modo il Governo napolitano col fondare quella colonia. Si volle pur farla in seguito colonia penitenziaria, ma siccome colui che ha l’onore di parlarvi, era il segretario, ed ho gran difficoltà ad ammettere colonie penitenziarie, proposi, che rimanesse colonia civile, e tale fu fatta; ma colonia civile che per molti anni ha di bisogno dello aiuto del Governo per esistere.» Fin qui l’Amari.

Dallo insieme della quale discussione risulta; 1. Che il Re delle due Sicilie era gelosissimo della integrità dell’Italia; 2. Che vegliava attentamente, perché né Inglesi né Francesi s’impossessassero di alcuna parte del territorio italiano; 3. Che nominava Commissioni e spendeva danari per conservare all’Italia anche i suoi scogli.

Eppure i fabbri unificatori del nuovo Regno d’Italia, per annettersi gli Stati di codesto Re, hanno incominciato dal cedere le più interessanti provincie e la chiave di entrata d’Italia alla Francia. – Quel Re di Napoli, che essi hanno tanto calunniato e contro del quale si vantano di aver sempre cospirato (1), se fece tanto per conservare all’Italia due sterili Isole, che non avrebbe egli fatto per impedire che Nizza e Savoia fossero divenute francesi!…

(1) Il deputato Crispi nella tornata del 13 Aprile 1861 diceva: «Signori, io cospirai per 16 anni, e ricordo che fin dal 1845 in certe riunioni, alle quali prendeva anche parte il nostro Barone Poerio, ci riunivamo uomini di diversa fede politica. In quelle riunioni eranvi monarchici, repubblicani, federalisti, unitarii, ma tutti nemici dei governi che esistevano in Italia, tutti patriotti che lavoravano uniti e compatti per rovesciare e distruggere questi governi. Nel 1849 due volte percorsi la Sicilia travestito, e nei comitati trovai la stessa differenza negli individui che li componevano. E bene, signori, noi siamo giunti a metterci d’accordo sopra un programma comune, e gli effetti di questa concordia li avete nella rivoluzione che si è fatta nell’Italia meridionale. (Vedi supplemento al giornale di Napoli 29 aprile 1856. pag. 3).

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CAPO VIII.

DUE MEMORANDUM

Dopo le arrecate testimonianze, non sospette davvero di parzialità verso il Governo di Napoli, e verso il tiranno Re Ferdinando II, non esitiamo un istante a recare due documenti, italiano l’uno francese l’altro, intitolati Memorandum che, a nome del popolo napolitano, che non ne sapeva nulla, vennero diretti alla diplomazia europea, e sui quali i Governi di Francia e d’Inghilterra non dubitarono di fondare il loro disegno di attacco contro il regno di Napoli. Sia per il primo il seguente:

Memorandum del popolo Napolitano

«È più di mezzo secolo che in questa bellissima contrada d’Italia la nazione sostiene una lotta coi Borboni, talché ad ogni lustro crescono le vittime da un lato e cresce dall’altro il sospetto e l’ira. Ma le enormità cui si è abbandonato il Governo napolitano dal 1849 in qua, benché solo in parte conosciute, gli han mosso contro lo sdegno di tutto il mondo civile.

«La quistione napolitana, prima di esser ravvisata nel senso politico e sociale, merita di esser valutata sotto l’aspetto morale. Ferdinando II non vuole esser principe, ma padrone degli uomini e delle cose che sono nel territorio a lui soggetto, e quindi padrone delle menti, delle volontà, delle coscienze, della vita, degli affetti, delle proprietà e di tutto. Suo unico intento è di far prevalere in tutti gli animi il suo pensiero e la sua volontà; e per operare questa violenta ed incessante usurpazione delle anime altrui, gli è indispensabile un perenne lavoro malefico di corruzione e di distruzione: questo è il suo governo. Gli uomini che il Governo di Napoli ha fatto condannare agli ergastoli, ai ferri, all’esilio, ed alla miseria, sono per animo e per ingegno degni di stima e di rispetto, ed i nomi di parecchi di essi sono onorati in Europa.

«Questo solo fatto avrebbe dovuto bastare per dimostrare l’iniquità di questo Governo; ma sventuratamente ciò non è stato sufficiente, né mai si sono conosciute appieno le misere condizioni degli abiti, delle Due Sicilie: di che ne ha profittato la malafede per confoadere le cose e proclamare giudizi ingiusti contro il paese. Quando il medesimo, stretto da’ ceppi d’un governo dispotico, aiutato da baionette mercenarie e dal protettorato dell’Austria, gemeva impotente a rigettare la tirannia che l’opprimeva, veniva accusato e vilipeso come degno delle catene che sopportava. Quando poi ha tentato di spezzarle e mettersi a paro dei paesi civili, si

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è gridato alla demagogia, e, nel nome dell’ordine e della religione, si è fatto plauso ai biechi disegni ed alle nefande opere della doppia inquisizione birro-clericale.

«Se si guardi all’antico lavorìo degli agenti della Corte borbonica contro il paese, se si pensa che la probità non può esistere in Napoli se non a condizione di elevarsi ad eroismo, e che la malvagità è qui fondamento ad ogni più alta fortuna, è ben da meravigliare come il Governo, ricco di tanta potenza materiale, di armati, di oro, di soldi, di croci, trovi ancora tanti ostacoli nella pertinace virtù e nella costante annegazione di tanti napolitani

«Eppure non tacciono ancora le accuse contro i napolitani, e mentre essi non hanno che una sola voce: Vogliamo un principe ed un governo morale, corrono il pericolo d’esser giudicati ribelli, fanatici, demagoghi! Dopo una lunga storia di enormezze, che si riassunse nell’ultimo dramma del 1848; dopo un secondo spergiuro, si ode ancora porre in discussione la qualità del Governo di Napoli. Ed il re di Napoli tenta di difendersi, e con turpi pagine, pagate a carissimo prezzo, nega al di fuori i fatti più manifesti, vendicandosi delle accuse con raddoppiato furore, e schernendo in tal guisa il giudizio dell’Europa. I difensori di Ferdinando II non cessano mai di celebrare la sua pietà religiosa, studiandosi di cuoprire col manto della religione le sue opere nefande. Chiamati cotesti difensori al fondo della quistione politica, credono di salvarlo rovesciandone con la calunnia tutto il peso sul popolo. I giornali clericali, pei quali il bastone del padrone assoluto è il simbolo d’ogni civiltà, gridano a piena gola che grande maggioranza dei napolitani ama l’assolutismo, adora la mano che l’incatena, l’artiglio che la sgozza. Altri difensori poi, al certo meno stolti, ma egualmente fraudolenti, accusano il paese di aspirazioni eccessive, di aver voluto e di voler la Repubblica, e di aver perciò perduto il beneficio della Costituzione del 1848.

«Cotesta opposizione estrema nelle accuse le distrugge a vicenda. Senza che, esse concorrono insieme a far conchiudere che, se per innanzi uno Statuto costituzionale era desiderato per fine di onesta libertà politica, oramai dall’universale criterio del paese lo Statuto è riguardato come rimedio unico, sì ad infrenare l’anarchia pazza del dispotismo, e sì a prevenire i trasmodamenti demagogici, che soltanto i servitori dell’antico Governo potrebbero affettare; è riguardato come garanzia unica pel riposato vivere civile e per l’esercizio de’ diritti più santi della persona, della famiglia e dell’umana coscienza. Se si lasci da canto il risguardo della necessità, della moralità e della convenienza politica, per arrestarsi alla quistione di mera giustizia, i documenti stessi del Governo napolitano, i fatti storici e gli orribili giudizi mostreranno ad evidenza se i napolitani, nelle vicende dell’ultimo periodo del 1848, possano essere meritamente tacciati di amare il dispotismo o la Repubblica, e se invece non abbia il Governo condannato, perseguitato, oppresso, ogni più moderato cittadino, sostenitore delle conseguite franchigie costituzionali.

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«I. Tra il finire del 1847 e il cominciare del 1848 tutta Sicilia e alcune provincie del Continente eransi levate in armi per conseguire uno Statuto costituzionale, a cui ambivano da lustri, pel quale avevano versato tanto sangue, ed a cui volgevano pure le condizioni generali della Penisola.

«Una dimostrazione imponentissima, il mattino del 27 gennaio, fé’ manifesto quel pubblico voto. Il Re promise e poi concedette il tanto desiderato Statuto, Egli uscì dalla reggia in mezzo al pò, polo, il dì 29 gennaio. Gli atti, e le voci di entusiasmo e gratitudine dei napolitani pel loro Sovrano furono tali, che i più scettici affermarono non esser possibile che l’animo del Re non si fosse commosso in quella memorabile giornata e non si fosse innamorato de’ suoi popoli. Ma il Re invece, sbalordito a tanta unanimità e forza di opinione, si recò a visitare i quartieri plebei del Mercato e Santa Lucia, che dovevano esser la fucina della reazione, e riprovò tosto l’uso dei colori italiani. L’ indugio al giuramento dello Statuto, lo studiato appartamento delle milizie regolari dalle nazionali, l’abbandono del popolo a sé stesso, gl’incessanti ostacoli a qualsiasi divisamento per la guerra in Lombardia, gli occulti convegni di antichi poliziotti e agenti dell’antico Governo, i subbugli fomentati dai medesimi, i sospetti e i buccinamenti di preteso comunismo dell’avere e degli affetti intimi, e le superstizioni religiose eccitate nel volgo dei quartieri bassi della città, e cento e cento altri fatti della camarilla, suscitarono la più profonda diffidenza nel Reame. 1 popoli si credettero in pericolo: la stampa esprimeva sensi disperati, o amaramente sardonici: la gioventù esasperata, con vie strane, credeva poter trascinare il Governo a quella guerra coll’Austria che non si voleva, e la Guardia Nazionale, non mai stanca, doveva solo attendere all’ordine.

«Intanto la camarilla lavorava nelle, tenebre, attendendo i tempi opportuni. Leipzenter, da ministro d’Austria, era divenuto capo di cospiratori, e fu obbligato il nuovo ministero a dolersene e ad accomiatarlo dal Reame. Egli disponeva di grosse somme di danaro per comprar gente che fomentasse l’anarchia: e non potendo giuocare nell’opinione pubblica con la parola Repubblica, fece spacciare, da spregiato uomo, (Dardano) uno sciocco proclama per la Costituzione del 1820. Pure di questo rise il popolo, e attese solo all’effettuazione della novella Costituzione, chiedendo guarentigia, sol perché non la vedeva attuare. Indi il popolo medesimo, che dall’impresa di Lombardia sentiva dipendere insieme le sorti d’Italia e della libertà conseguita, faceva istanza perché si spedissero milizie contro l’Austria. Dopo molto barcheggiare, convenne pur mostrare di aderire, e nei giorni 25 e 27 Aprile, mossero due divisioni per terra e per mare.

«Intanto Roma non era meno avversa alla guerra, e le nostre milizie erano tenute a bada. Finalmente si conobbero con certezza le vere istruzioni segrete date dal Governo ad alcuni Capi di corpi, e specialmente a quelli di mare. Pure la finzione non poteva esser tratta a lungo, e bisognava richiamar le milizie.

«In occasione della formola del giuramento dei deputati, si provocò un dissidio.

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Uomini della casa del Re e funzionari di polizia, in apparenza abbandonati dal Governo, siccome è notorio e risulta anche da processi, eccitarono la gioventù più calda e inesperta, e parecchi Calabresi che eransi aggregati alla Guardia Nazionale, a pensare di difendersi; mentre uffiziali superiori de’ reggimenti svizzeri assicuravano essi e i deputati, che le loro milizie non si sarebbero battute contro il popolo. Così questi giovani entusiasti, aiutati dai loro nemici, formarono in fretta alcune barricate a Toledo, e resistettero parecchie ore alla mitraglia e agli assalti delle milizie regolari. (Provocate dai faziosi).

«Né concerto vi era a ciò, né munizioni distribuite, né ordini dati; tal che uno scrittore militare, parzialissimo del Governo, si doleva d’una maggioranza di deputati moderati che si lasciarono stordire e dominare dalle grida di taluni forsennati e dalle guardie nazionali che si ritirarono timidamente (doveva dire inconsapevolmente) alle loro dimore, invece di opporre una falange serrata a quella debole minorità di uomini scatenati e maligni» (1).

«Quel macello orribile ed impreveduto parve a tutti la vendetta e la cancellazione del chiesto Statuto.

«Il. E tal fu. Pure le condizioni d’Europa non erano assicuranti pel Governo, né quelle in particolare della Sicilia; ed inoltre avendo il Re richiesto gl’Intendenti ed altri funzionari se le provincie minacciassero moti d’insurrezione, ebbe in risposta che si sarebbero rimase pacifiche sol che fossero assicurate del mantenimento della Costituzione: il che risulta dagli atti del processo del 15 maggio. Conveniva quindi simulare a seconda degli avvenimenti generali.

«Nel giorno 16, Napoli, fumante per gl’incendi, sembrava un campo abbandonato dal vinto.

«Il Re, in mezzo a’ mucchi di cadaveri, circondato da soldati e seguito dalle orde del Mercato, si recava a ringraziare la Vergine del Carmine per l’ottenuto trionfo. Ma, per usare le frasi dello stesso citato isterico militare: le sue erano parole di pace e fedeltà alla giurata Costituzione, esortando anche ed imponendo fedeltà alla Costituzione, in udire qualche voce plebea che levavasi a contraddirla. E le grida di tutti i soldati erano echeggianti al Sovrano, difesa col proprio sangue della real persona, e della legge costituzionale del 10 febbraio: i due termini sacri del loro giuramento.»

«Il Re aveva pure fatto segnalare per telegrafo alle provincie, che la calma era ristabilita, dopo una tale collisione fra le due milizie, e che sarebbe assegnato altro giorno per l’apertura delle Camere.

(1) Avvenimenti di Napoli del 15 maggio 1848, per Gennaro Marulli, capitano del 2° reggimento Granatieri della Guardia Reale.

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«Poscia fece pure, per mezzo degli Intendenti e degli stessi deputati, assicurare le provincie del mantenimento dello Statuto, con che molti battaglioni di Guardia Nazionale, messi in marcia sopra la metropoli, si tornarono a casa.

«Pochi deputati, involatisi alla catastrofe orrenda del 15 maggio, ai 2 di giugno convocarono la riunione dei Parlamento in Cosenza pel dì 15 del mese medesimo. Essi bandirono vari proclami a’ Municipi delle Calabrie per insorgere a solo fine di guarentirsi il regime costituzionale. Non mai si trova atto o parola alcuna in quella insurrezione che accennasse a Repubblica; e se l’insurrezione è per sé stessa un fatto biasimevole, il torto era del Governo che la rendeva necessaria a’ popoli, i quali null’altro volevano se non l’osservanza di franchigie lor concedute, e che si vedevano rapire con mene segrete e a colpi di cannone (1),

«Medesima, titubanza e sospizione della perdita dello Statuto eccitò le altre provincie del Regno a provedere a’ modi di sostenerlo. Ai 27 giugno di quell’anno, la Deputazione municipale di Bari esortava i Comuni tutti della provincia a creare deputazioni «per non far turbare l’ordine pubblico, e sgominare i nostri «diritti politici guarentiti dalle leggi anteriori agli avvenimenti «del 15 maggio prossimo scorso.»

«Ai 2 luglio seguente convenivano nella città di Bari i deputati de’ Municipi suddetti, e manifestavano che, secondo un memorandum pubblicato dalle deputazioni delle 5 provincie confederate in Potenza ai 25 giugno, era generale volontà di reclamare l’osservanza del programma del 3 aprile e del conseguente decreto del 5 del mese medesimo. Onde fu risoluto aderirsi al detto memorandum, e si creò all’uopo un Comitato di cinque individui per la durata di un mese.

«Né la insurrezione calabra fu altrimenti doma, se non con la stessa parola magica della Costituzione. Il generale Busacca, con proclama del 10 giugno, diceva ai Cosentini: «Il Sovrano le cui «principali viste sono dirette al mantenimento della Costituzione, da lui volontariamente proclamata e solennemente giurata… gli aveva dato disposizioni dirette al saldo mantenimento dello Statuto costituzionale del 10 febbraio.» Ed il corpo municipale ed i notabili di Cosenza, a di 18 del medesimo luglio, pregarono quel Generale di assicurare il Re che in sostegno della Costituzione giurata, della legalità e dell’ordine avrebbero pugnato insieme alte milizie regie.

«Con altro proclama il generale Lanza diceva: «Coll’usar riguardo anche agli stessi traviati, rimetterassi l’ordine in sostegno di quella Costituzione, che il Re, i militari ed il popolo tutto, hanno dinanzi a Dio giurata, e così saremo felici.»

(1) Preghiamo il lettore di aver presenti le cose già dette in Confessioni de’. Deputati nella Camera Subalpina da noi recate a pa Altre molte avremo a recarne a edificazione di chi ci legge.

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«Il Generale Nunziànte era più persuadente col suo proclama ai cittadini delle tre Calabrie, della data 7 giugno. Assicurava egli di venire per la conservazione dello Statuto costituzionale dal Re conceduto il 29 gennaio, giurato il 10 febbraio, e con immensa gioia e gratitudine accolto dalla nazione. Statuto che ora e sempre intende nella sua piena integrità sostenere e conservare… possa la Provvidenza far rientrare in sé stessi tutti i traviati (i diffidenti), se ancor ve ne sono, ove non sia stato sufficiente a farlo il magnanimo procedere del Sovrano, che per le illegalità commesse e tentate (non la Republica) ritrar potea quanto avea concesso, nel momento in cui per la forza delle armi il buon ordine erasi ristabilito, ed invece con inaudita lealtà la giurata Costituzione riconfermava, stimando ingiusto punire tutto un popolo del delitto di pochi, che, pentiti e rimessi sul retto sentiero, sperar possono perdono dalla inesauribile sua clemenza… I soldati, credetelo, bramano mostrar«si a voi veri fratelli e uniti alla maggioranza, che è per certo de’ buoni e leali, mantenere il giuramento dato al Re ed alla«Costituzione ecc. ecc.

«Ma i Calabresi risposero: Fra noi lo Statuto costituzionale 5 per conservarsi non ha d’uopo della punta delle baionette o della bocca dei cannoni… Inutile però non è che ella ed il mondo tutto sappia aver noi imbrandite, le armi a sostegno delle nostre libertà costituzionali violentemente attaccate… Ne petti calabresi non tacque, non tace, non tacerà mai il sentimento di attaccamento alle franchigie costituzionali, all’ordine pubblico… Ritorni la colonna mobile alle stanze d’onde mosse per qui: si assicuri il mantenimento della legge costituzionale del 10 febbraio sulle basi dichiarate col programma del ministro Troia: si richiami alle sue alte funzioni quella Camera de’ deputati» ecc, ecc.

«Il generale Nunziànte si studiò con nuovi proclami di dissipare la diffidenza, e fece appello alla stessa Guardia Nazionale delle provincie, perché secondo la istituzione e gl’interessi della medesima, avesse prestato il suo concorso per rimettere l’ordine sostenendo la Monarchia e lo Statuto costituzionale.

«Le milizie nazionali ubbidirono, e nel seguente anno prestarono anche al Generale Statella importanti servigi. Ma guari non andò che, come era avvenuto in Napoli ed avvenne nelle provincie, furono esse disciolte e poscia perseguitate come demagogiche. Lo stesso Generale Nunziànte, il cui zelo non contentò le esigente eccessive del Governo, divenne in seguito segno alle persecuzioni di Orazio Mazza, allora Intendente di Calabria Citra, quindi elevato a Direttore di polizia. (Ne aveva ben d? onde il Mazza; lo vedremo.)

«Il ministero del 16 maggio era composto di uomini docili, i quali si proposero di conciliare l’antico col nuovo, è la potestà regia con le franchigie costituzionali. Non fu atto di compiacimento al trono, di devozione al Re a chi non si fosse arreso. 

 

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Abolì tosto il programma del ministero Troia, e si prestò al vero scopo di quella catastrofe il richiamo delle milizie, spedite fuori. Molto numero di persone emigrò o si nascose: parecchi funzionar! pubblici stimati troppo ardenti furono rimossi: nelle provincie vennero destinati Intendenti e altri funzionar! di opinione assai temperata, e Bozzelli osò pure spedire emissari pel Regno e scrivere istruzioni agl’Intendenti per ottenere deputati ligi al Re. Era questo lo stadio di transizione: se fino al 15 maggio ogni cosa aveva avuto l’impronta dell’azione del popolo, allora tutto discendeva dall’autorità del trono. Il Re non poteva avere ministri più arrendevoli, e con popoli disarmati, intimiditi e percossi egli poteva esercitare la sua potenza con que’ limiti almeno che il pudore e la publica coscienza gli avrebbero imposti. Ma egli aveva premeditato di cancellare pure la voce Costituzione, anzi di spegnerne anche la memoria nella mente de’ cittadini, e farla maledire come una meteora sanguinosa, apportatrice di stragi e di ruine (quale fu sempre per ogni dove).

«Il Parlamento fu aperto nel pubblico terrore al dì 1 luglio 1848: al dì 5 settembre fu prorogato pel novembre seguente, e poscia nuovamente prorogato pel 1 febbraio 1849. Riapertosi in questo giorno, per decreto del 12 marzo da Gaeta, fu sciolto; (ed era tempo, essendo stata proclamata la repubblica di Mazzini in Roma) riservandosi ad altro decreto di stabilire l’occorrente per la convocazione de’ collegi elettorali.

«Nessun indirizzo della Camera, con esempio inaudito, volle mai essere accettato dal Re. La Camera diede prova di coraggio civile, essendo che i deputati, sia in Parlamento, sia fuori, erano di continuo minacciati nella vita da’ seguaci di Monzù Arena e di altri nefandi cagnotti compri nella plebe del Mercato: (a questo risposero per noi i deputati a Torino (1), ed è noto come il deputato Mazziotti una sera, nell’andare a casa, fu assalito da birri e gravemente ferito. Il medesimo era stato fatto al canonico Pellicano, direttore del Ministero dell’ecclesiastico, in atto di uscire dalla chiesa del Gesù Nuovo (2); ed il deputato Vincenzo d’Errico

(1) Il lettore rammenterà come si esprimessero i deputati Nicotera e Ricciardi in pubblico Parlamento a Torino.

(2) Il Can. Paolo Pellicano vive e vi gode in Reggio Calabria, sua patria, una ricca Abbazia Concistoriale, che si ebbe nel 1849 dal Re tiranno Ferdinando II con l’annuenza del Sommo Pontefice Pio IX. Ma chi era, e chi è il Can. Pellicano? Eccolo in breve – Nel 1847, Presidente del Governo provvisorio nella insurrezione di Reggio. Fuorbandito con taglia di mille ducati sul capo – condannato a morte dal Tribunale, ma commutata dal Re la pena, tradotto agli ergastoli. Nel 1848 per la Costituzione, amnistiato, scelto membro del Consiglio di pubblica istruzione in Napoli, e direttore del Ministero del Culto. Ritiratosi nel 1850 in patria, si vede nel 1860 Presidente, di quel Circolo popolare e della Commissione pe’ Casi del Brigantaggio, decorato dell’Ordine Mauriziano, direttore di spirito nel Liceo e Convitto Nazionale ecc. ecc. – Queste notizie sono estratte da un foglietto pubblicato con la stampa dallo stesso canonico.

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era inseguito da un gendarme nel punto in cui si recava al Parlamento ed a pochi passi di distanza da quello. Lo stesso giorno 5 settembre 1848, in cui fu prorogata la Camera, avvenne la famosa dimostrazione, candida, spontanea, de’ pescatori di S. Lucia. Il principe di Salerno è morto povero e fallito per le somme estortegli (da chi) onde organarla. Migliaia di coccarde borboniche furon lavorate nel suo palazzo; varie abitazioni erano state segnalate per stragi, sacco e fuoco, e i Corpi delle Guardie reali dovevano in ultimo, con le antiche bandiere, occupare Toledo e proclamare l’abolizione dello Statuto. Era una ridicola scimiotteria del gran voto nazionale espresso con la dimostrazione del 27 gennaio. Il Monzù Arena doveva cooperare con le sue orde dalla parte superiore della città. Infatti, preti, servitori di palazzo in livrea e poliziotti, dopo mezzodì, con una bandiera avente le armi borboniche e l’effigie della Vergine, tutta in oro, salirono alla testa de’ Luciani, per avanti la reggia, acclamando al Re e minacciando a’ liberali, e giunti appena alla piazza S. Ferdinando, assalirono con pugnali le botteghe e i gentiluomini, e obbligavano a gridare: Viva il Re, abbasso la Costituzione! Ma una mano di popolani forti e audaci, calati dal quartiere Montecalvario con bandiera tricolore, e gridando: Viva il Re costituzionale! pose in fuga quelle ciurme vilissime, ed ebbe l’onore di essere combattuta da drappelli di cavalleria e di fanteria e da’ birri che traevano loro addosso co’ moschetti. Il loro quartiere fu messo in istato di assedio. Ora codesti bravi cittadini che salvarono la metropoli da una scena del 1799,.gemono ne’ bagni, condannati come autori di disordini e come repubblicani!

«Nel 29 gennaio 1849 grandissimo numero di popolani fecero una tranquilla e taciturna passeggiata in via Toledo, in commemorazione dello Statuto, promesso l’anno avanti in quel dì. Molti de’ principali di loro, che vennero conosciuti e segnati, popolano ora le galere, anch’essi come repubblicani!

«III. La nazione pazientemente teneva lo sguardo fiso agli avvenimenti d’Italia e di Europa, per attendere la definizione dei propri destini, e così pure il Re per gittar via ogni velo e far le vendette.

«In pochi mesi tutto era risoluto a seconda de’ suoi desideri: a’ 23 marzo, Carlo Alberto era battuto a Novara, e gli Ungheresi dai Russi; a’ 26 aprile, Palermo e altre valli dell’Isola erano sottomesse; a’ 4 luglio, il colonnello Niel consegnava al Papa le chiavi di Roma; a’ 26 del mese stesso, il granduca Leopoldo rientrava ‘in Toscana. Sì, tutto era consumato! Il carro che Bozzelli annunziava essere in sul pendio, deplorabilmente minò. Erano già manomesse le tipografie dei giornali; percossi pubblicamente e mandati in prigione tipografi e scrittori; soppressi dalle gran Corti Criminali i giornali, tranne i governativi e i militari, come il Tempo, l’Araldo e l’Ordine, poscia anch’essi proibiti; posta a sacco la sala del Parlamento, e disfatto a furia di plebe anche il “solecchio, già costruito all’ingresso del palagio; tolta la bandiera coi colori italiani e rimessa l’antica; tolto anche al Giornale Ufficiale

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il titolo di costituzionale, e fatti ripubblicare i trattati del Congresso di Vienna del 1815; ricomposti scandalosamente in una volta i decurionati tutti dei Comuni; sostituiti da persone ignobilissime tutti i sindaci, gli eletti e i capi urbani; ritirato, tra altri uffiziali, l’eccellente e reputato generale di marina De Cosa, perdio nella spedizione navale a Venezia, di mal animo avea eseguito le simulate ingiunzioni sovrane; destituiti quasi tutti gli intendenti, e moltissimi altri funzionar? amministrativi e dell’ordine giudiziario; decorati e sollevati a cariche importanti uomini abbietti, sol perché avevano cospirato fin dallo stesso gennaio 1848 contro lo Statuto; aboliti gli uffici stessi, gli ordinamenti e i decreti emessi nel precedente anno; soggetti a revisione anche provvedimenti per casi singoli e privati, ecc.

«Ma non bastava: il nostro Luigi XI vuoi essere pregato, vuoi essere come sforzato a tornare al dispotismo ed a punire il grande avvenimento del 1848. In Sicilia non vi ha Comune che non venga obbligato ad esprimere la sua sommissione al Re, in forma tale di devozione ed attaccamento al trono, che sembra una beffa!. (Tanto veramente si fece dagli invasori subalpini). I proclami della potestà militare nell’Isola mostravano la persuasione, che la rivoluzione era stata opera di illusi, sedótti e trascinati (1)! ‘Il giornale II Tempo, da quella unanimità d’indirizzi alla Corona, dalla gioia per la ripristinata dominazione, fa argomentare che la rivolta in Sicilia, tramata attesterò, eseguita da bande di stranieri, non era stata che uno sciagurato concorso dato alle più tristi passioni, concorso che la grande maggioranza del paese deplorava che la Sicilia non voleva libertà, e le disfatte sarebbero anche una lezione, che ella potrebbe all’uopo consultare se mai novelle avidità politiche cercassero di gettarla di bel nuovo nell’arena delle rivoluzioni (2).

«Un volume messo a stampa da publico funzionario (3), premiato con croci e danaro, dimostrava i benefizi di Ferdinando II alla Sicilia, e la ingratitudine de’ Siciliani.

«Qui in Napoli si facevano pubblicare catechismi politici con teorie da far fremere. I giornali ed altre scritture governative non cessavano dal ripetere che il popolo non aveva mai voluto la Costituzione, la quale era stata opera di pochi faziosi, stimolati dall’ambizione. Il popolo, leggevasi nel Tempo, ama la sua patria, e questa in un governo monarchico si personifica nel Sovrano. Quando una festa popolare convoca il popolo sulla piazza pubblica, il grido di Viva il Re manifesta la sua gioia, perché il Re per esso è la nazione, il paese (4).

«Il paese ama la monarchia, dalla quale aspetta sicurezza e gloria, ma al tempo stesso comprende che il solo governo deve

(1) Giornale ufficiale del 5 maggio 1849.

(2) Giornale il Tempo del 16 e 19 maggio 1849.

(3) Florindo De Giorgio, segretario capo del primo Ripartimento del ministero degli affari interni.

(4) Giornale il Tempo, 6, 7 maggio 1849.

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dirigere lo Stato, ecc (1). Questa rivoluzione è ora maledetta da tutti così da quelli che ha trascinati in funesti e colpevoli errori, come da quelli che l’hanno respinta fino dal primo giorno ecc. ecc… Grazie al principe che ci ha salvati…..

Quanti amano il nostro bel paese si stringono al governo per aiutarlo, ecc. (2)… Due bandiere erano spiegate, e la transazione era impossibile fra i due partiti, l’uno forte del consentimento unanime delle grandi maggioranze delle popolazioni, che si stringevano intorno ai governi; l’altro, se povero di numero, arditissimo ed operoso … Che l’opera della ricomposizione so

ciale si compia adunque ora con quella stessa energia con che fu represso il disordine. I popoli per una dolorosa esperienza (purtroppo) han provato fin dove li conducono certe sconsigliate utopie, ecc., ecc.» (3).

«Nella succitata descrizione del fatto del 15 maggio 1848, l’autore aveva già attribuita la concessione dello Statuto a pochi demagoghi, e il desiderio della indipendenza ad una sfrenatezza di giovinastri,

Così gli atti, i fatti e gli uomini stessi di Ferdinando II vengono a smentire l’accusa data a’ popoli del Reame, che cioè al 1848 si fosse simulato lo spirito costituzionale per rovesciare il trono e fondar la Repubblica!

«Vero è dall’altro canto, che quando gli organi di Ferdinando II parlano di maggioranza del popolo, non si deve intendere di altri che di una parte de’ cenciosi abitatori della spiaggia di Santa Lucia e del Quartiere Mercato. Gli evviva di queste turbe miserabili furono incettati a grosse somme dal principe di Salerno, per mezzo di vari cagnotti della vecchia polizia, i quali si sono fatti opulenti. In detti rioni facevansi luminarie pel Re: ivi movevano le acclamazioni e le dimostrazioni pericolose, che obbligarono più volte la Piazza di Napoli a far uscire corpi militari dai quartieri per evitar sangue e saccheggio.

«Il mezzo delle petizioni fu adoperato con minacce e violenze tali, che anche sotto la pressione del terrore, la stampa se ne protestò, e fu aperta una lunga polemica col succitato giornale del Governo, il Tempo,

«Queste petizioni dovevano servire come riserva diplomatica, poiché dentro, il Governo voleva sostenere il principio di non spettare a’ sudditi di muover parola sulla natura del governo e su diritti del trono. Ne’ primi tempi i servitori e difensori del Re avevano celebrato la sua generosità e lealtà nel dare lo Statuto, attribuendo ai disordini del popolo se non veniva mantenuto. Ma quando tale spiegazione non poteva avere neppure l’apparenza di fondamento, perché i disordini erano cessati, allora fu usato altro linguaggio: si volle mostrare che la monarchia napolitana

(1) Id., 12 maggio 1848.

(2) Id., 20 giugno 1849.

(3) Id., 9 loglio 1849.

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era nella sua origine pura ed assoluta, e perciò il Re non potuto mai scemare i diritti del trono e della dinastia, che aveva per prudenza ceduto solo all’impero delle circostanze: aveva dovuto fingere.

«Era questa una porta aperta alla più feroce reazione contro ogni fatto, contro ogni sentimento, contro ogni sospetto di favore o semplice compiacimento per lo Statuto: il velo impenetrabile,che col medesimo aveva detto il Governo di voler gettare sul passato, venne squarciato: le amnistie furono anch’esse avute per estorte dalla circostanza: il birro, indossata la toga del magistrato»trovò colpe nelle aspirazioni ed in frasi stampate anche col permesso della polizia prima del 1848, e tenne per prove convincente le deposizioni più impudenti di poliziotti salariati. Di qui pure la risoluzione di stabilire un avvenire nel passato; di soffocare ogni senso che ricordasse le franchigie ottenute, di farle anzi odiare,di distruggere il germe di libertà cogli uomini stessi che il recassero in seno. Di qui la demoralizzazione e la corruzione nella plebe di tutte le classi; la protezione allo spionaggio, alla ignoranza ed all’egoismo; la divisione delle spoglie delle vittime, tra quelli che inauguravano il governo dell’assoluto padrone; la destinazione di preti venderecci e nefandi alle cattedre vescovili; l’organamento di un generale spionaggio; la diffidenza in ogni uomo, in ogni funzionario, in ogni corporazione, e quindi il sistema di controllazione, e specialmente nell’esercito, degli inferiori verso i superiori; l’ipocrisia che indora tante brutture e mostruosità; la ruina della pubblica amministrazione e l’aumento del debito pubblico e dei dazi; il terrore co’ prevenuti politici; il bastone cogli animi indipendenti; le sevizie coi condannati per voluti reati di Stato; i tentativi per distruggere le vite più importanti tra quelli chiusi a Montefusco,a Montesarchio e negli altri bagni ed ergastoli del Reame. Di qui un odio profondo agli uomini chiari per dottrina e per probità, una persecuzione incessante contro chi avesse sperato mostrato simpatia per le gesta degli alleati, contro chi proponesse atti o imprese di progresso civile, o volesse insegnare e pubblicare opere senza aver sostenuto le difficilissime pruove della superstizione, del sanfedismo e delle arbitrarie e goffe autorità birro-clericali. Di qui, finalmente, il divisamento di ridurre il paese a un’orda di stupidi e di affamati (Il presente stato d’Italia risponde dolorosissimamente a questa asserzione). I quali non abbiano più un’idea propria o un pane che non venga per dono del divino assoluto loro padrone!

«Un proponimento siffatto, eseguito da anni, con inflessibilità ed energia che possono esser alimentate solo dalla cieca sete di dispotismo., dalla collera e dalla vendetta, una storia di continue oppressioni, di spergiuri e di guerre civili tra i Borboni edi popoli delle Sicilie, rende troppo arduo il problema di un conciliazione e di una scambievole fiducia per l’avvenire. Il che dee dar a pensare ai grandi gabinetti, che hanno messo la mano a stabilire l’Europa sopra una pace solida e duratura, la quale a} certo non può sperarsi col tollerare l’ingiustizia e l’oppressione, e quindi

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col fomento continuo di turnazioni civili, è di rivoluzioni che possono mettere tutta Europa in pericolo. Lo stato attuale delle Sicilie è come la misura del grado di civiltà e di moralità degli stessi grandi gabinetti, che han preso a tutelare l’umanità e la giustizia sempre e dovunque. Essi non comporteranno ulteriormente che la mano dell’uomo sia più distruttiva e selvaggia, appunto dove Iddio ha profuso più largamente i suoi doni su gli uomini e su le cose!

‘ «Certo, questo infelice paese ha gran debito a Gladstone, che, con l’autorità della sua parola, ha rese credibili le querele dei [Napolitani; ma anche oggi da pochissimi è conosciuta appieno in tristizia del Governo di Napoli. Ogni Governo si emancipa in qualche straordinaria congiuntura dalla legge.; ma l’assidua conculcazione della legge e dei diritti di tutti costituisce il sistema ‘del Governo napolitano. Sono già nove anni che il Re, dopo la vittoria, vive nondimeno in uno stato dì guerra permanente contro ‘il paese; ed anzi questa guerra è divenuta di giorno in giorno più ferace. Son pochi dì che un giovane calabrese, uscito da Napoli nel 1846 per affari di commercio, dimandava al console napolitano in Genova il permesso di rientrare nel regno. Quel console rispose doverne scrivere al Governo: e dopo risposta’ affermativa gli Consegnò il passaporto. Giunto a Napoli insieme con la moglie”” ed un bambino, gli fu impedito di sbarcare, e fu costretto a rimanere per 28 giorni nel porto, trabalzato da una nave in un’altra; ed in ultimo gli fu imposto di andare a Tropea e di rimanere colà a domicilio forzoso, sotto la scorta di uri gendarme eh’ egli deve pagare. La sola colpa di questo giovane è di essere fratello di un emigrato politico (perché non dirne il nome?). Recentemente il Governo ha permesso al Procuratore generale Scura di ripatriare. Egli era in esilio da sette anni, perché, adempiendo ai doveri del suo ufficio, avea ordinato che s istruisse il processo per l’uccisione del deputato Carducci. Sotto altri pretesti era stato Sottoposto a giudizio: da due anni là Córte criminale dì Potenza lo avea dichiarato innocente. Padre di lunga famiglia, onesto magistrato, ma affatto alieno dalle fazioni politiche, avea incessantemente dimandato di rientrare nel Regno. Gli si concede ciò dopo sette anni, ma gli si assegna un domicilio forzoso in un angolo delle Calabrie. Molti celebreranno la clemenza del Re: chi non ha smarrito il senso della giustizia fremerà al cospetto di tali atti di clemenza. (Perché dunque gli stessi deputati di Torino la proclamavano?)

«Cotesti fatti, a chi li considera superficialmente, sembreranno di “poco momento; ma un solo di essi basterà per rivelare agli occhi di ogni pensatore tutta la turpitudine del Governo napolitano; poiché ciascuno di quei fatti dimostra che quel Governo, emancipandosi da tutte le leggi, ha per sola guida un arbitrio Sospettoso è feroce. Questo è il principio che informa tutti i suoi atti, a tutta l’amministrazione dello Stato; e quindi generali, incessanti sono le violenze de’ governanti e i dolori de’ governati. (Non è egli questo lo Stato dell’Italia presente?).

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«Però fummo consolati leggendo il manifesto, col quale il Governo francese annunziava la rottura delle relazioni diplomatiche col Governo di Napoli, perché ci parve ritratto in esso con verità, il carattere di questo Governo, ove si dice: ch’esso ha mutato i mezzi di rigore in sistema di amministrazione. Ed una sinistra impressione per contrario hanno qui prodotta le ultime parole, pronunziate da lord Clarendon nel Parlamento, con le quali afferma che l’influenza inglese non è stata vana, essendosi già ottenute alcune amnistie ed un trattato, mercé il quale i condannati politici potranno emigrare. Queste parole sono qui riuscite tanto più dolorose, in quanto per noi non può essere sospetta la buona fede di chi le profferiva. Esse dimostrerebbero che lord Clarendon ignora che qui è reo politico, e diventa prigioniero e condannato politico a libito del Governo, chiunque ha detta viva la Costituzione, nel tempo stesso in cui il Re diceva egli il primo: viva la Costituzione, è reo politico chiunque desideri soltanto sorti migliori pel suo paese, è reo politico ogni uomo che non sia disonesto. Ora non si comprende qual giustizia si renda a tali persone condannate agli ergastoli ed ai ferri, commutando la pena nella reclusione, o inviandoli a lavorare la terra nell’America.

«Diciamo il vero: la dinastia borbonica non si è mantenuta altrimenti se non troncando incessantemente il capo alla civiltà del paese, col dannare di quando in quando al patibolo, agli ergastoli, all’esilio gli ingegni più eletti e le anime più pure. Ora. che tali supplizi hanno spaventato l’Europa, si è trovato un altro modo che ha le apparenze più miti, ma che è pure più crudele.

«Le parole di lord Clarendon mostrano ancora, che chi le profferiva non sappia che a nulla giova alleggerire le sofferenze che sopportano i rei politici, senza mutare il sistema governativo» II Re di Napoli avrà da un pezzo in qua diminuita la pena ad un centinaio di persone; ma durante questo medesimo tempo più di, mille altri sono stati imprigionati come rei politici.

c Un’ amnistia generale non servirebbe ad altro che a fornirgli, il modo per rinchiudere nel carcere anche gli emigrati. Eppure, le parole profferite da Lord Clarendon nel Congresso di Parigi, ebbero un eco profonda in tutta Europa, e dimostravano che il Governo inglese conoscesse appieno la misera condizione del regno di Napoli, e quanto nobilmente comprendesse la vera missione di un popolo libero e potente.

«Quelle parole furono il principio della lotta tra le Potenze occidentali ed il Governo di Napoli. Non abbiamo noi il bisogno di ricordare, che se questa lotta si risolverà senza che sia mutato il sistema governativo di Napoli, la vittoria sarà di Ferdinando II; ne noi osiamo predire i danni che apporterà all’Europa il trionfo delle idee che ora si personificano in questo principe. Le Potenze occidentali non avranno che una sconfitta morale; ma in tempi in cui la forza dell’opinione publica è più potente di quella dei cannoni, una sconfitta morale è più amara e più pericolosa d’una disfatta campale».

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In sostanza, cambiate le parti questo memorandum potrebbe essere la espressione del vero, quando fosse non anonimo, come fu stampato, ma sottoscritto da quanti muoiono di fame nel nuovo regno d’Italia, o che, per non morir di fame, emigrano nel nuovo mondo.

A questo prezioso documento in italiano aggiungiamo il seguente in francese:

MEMORANDUM

du peuple napolitain envoyé aux cabinets de France et d’Angleterre (1857).

«La question napolitaine, depuis qu’elle a été traitée par les Plénipotentiaires assemblés à Paris pour résoudre la question d’Orient, a cesse d’être une question particulière pour devenir européenne; ce n’ a pas été la philanthropie, ni l’humanité qui ont déterminé la France, et l’Angleterre à s’arrêter sur la condition présente du royaume de Naples; mais une raison plus haute et plus sérieuse.

«Les hommes d’État de ces deux pays ont vu que la réaction obstinée du gouvernement napolitain pouvait exciter une secousse qui ressusciterait les doctrines et les grands évènements de 1848, auxquels les monarchies de l’Europe n’ont échappé qu’après de longs efforts. Ils ont voulu conserver la monarchie, mais enlever aussi aux peuples, par une administration sage et libérale, tous prétextes de soulèvement. C’est cette pensée feconde qui a guide là politique des cabinets de France et d’Angleterre. Aussi ces cabinets n’ont-ils pas abandonné et ne peuvent ils pas abandonner la question napolitaine: C’est ici qu’est le nœud de la pacification de la Péninsule entière; La question napolitaine résolue, en même temps serait résolue celle de l’occupation des petits États de l’Italie centrale, et la France et l’Angleterre auraient ainsi lié à leur politique comme à leurs intérêts cette belle et importante partie de l’Europe (dalla quale politica e dai quali interessi i Principi legittimi la volevano indipendente).

«C’est pour cela qu’étant appelées à mettre un terme à notre question diplomatique, la France et l’Angleterre doivent jeter un regard sur la situation intérieure et extérieure du Royaume, sur les conditions générales dans lesquelles nous nous trouvons ainsi, en connaissance de cause, ces puissances pourront pourvoir en même temps au salut de la monarchie et du peuple, concilier et mettre en harmonie ces deux intérêts, en apparence opposés. Nous appelons sur ces considérations l’attention des grands hommes d’État de France et d’Angleterre.

Question intérieur

«Après l’abandon de Naples par les Français, les Bourbons réintégrés respectèrent le nouvel ordre de choses, savoir le nouveau code

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et la nouvelle administration, introduits par les Français; ils s’attachèrent plutôt à les améliorer (il l’avait bien de quoi!) l’un et l’autre. Néanmoins le vice de notre gouvernement ne tarda pas à se révéler. D’excellentes lois furent établies, mais dans l’exécution le gouvernement favorisa une partie de ses sujets au détriment de l’autre, et l’on vit l’une toute puissante, tandis que l’autre était réduite à la servitude. De là les mécontentements, et ensuite la révolution de 1820 qui, si on veut bien la considérer, n’eut qu’un seul but: celui d’arracher des mains de certains hommes l’administration de l’État qui devenait si injuste et si réactionnaire, pour la remettre au peuple. On voulait une garantie pour le maintien de la justice et l’efficacité des lois; et cette garantie se trouve seulement dans le régime parlementaire, dans lequel le regard du peuple, fixé sur le gouvernement, l’oblige a faire régner les lois autrement qu’en paroles.

«Mais l’Europe inclinait alors vers la monarchie absolue, et la Sainte Alliance, voyant d’un mauvais œil la constitution napolitaine, la supprima par les armes étrangères. On n’ osa pas violer les lois, mais derrière le gouvernement apparent on établit un gouvernement occulte qui, dirigeant tout sous le con vert de l’administration ministérielle officielle, rendait inutiles les lois reconnues. Le pays se divisa en deux, et le parti vaincu se vit exclu de tous les emplois publics et enfin du bénéfice de la justice civile. Il sembla cependant qu’en 1830 nos affaires allaient s’améliorer: Ferdinand II réconcilia les deux partis, s’entoura et s’aida des conseils d’hommes que quelques années auparavant on avait persécutés. Avec les Muratistes il réforma l’armée, avec les Muratistes il réforma l’administration civile et judiciaire. Il n’ l’avait plus de partis; il n’ l’avait qu’un peuple qui bénissait le nom du Roi. Le Roi, dit on, nourrissait la pensée d’accorder une constitution libérale. Mais les secousses de la Romagne, de la Lombardie et ensuite du Piémont, le surprirent; la révolution de Pologne, éteinte dans le sang, étourdit les souverains, la crainte reprit le dessus et Naples suivit la triste politique réactionnaire. Les défiances se réveillèrent, et ensuite les conjurations, les jugements et les condamnations; le gouvernement devint ombrageux et reprit la vieille coutume de corrompre l’administration par le moyen des agents secrets qui en faussèrent l’équité et la pratique. Néanmoins les esprits restaient libres, et se portaient naturellement à considérer l’état de leur pays; ils reconnaissaient avec douleur qu’il l’existait des lois, mais qu’elles demeuraient lettre morte et que les Ministériels dominaient seuls: sorte de gouvernement arbitraire et inconstant dont on ne peut jamais prévoir ni prévenir les effets. Ainsi naquit dans les esprits le besoin impérieux d’avoir une garantie contre l’arbitraire de ce gouvernement de police, et on la trouva dans la constitution. On eut cette constitution; le 10 février 1848, le Roi la reconnut librement, la jura librement. Il l’eut des excès commis, mais ils appartenaient à une faction condamnée par les hommes les plus éclairés. Le 15 mai, éclate un complot; Tolède est barricadée, et une collision s’engage

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entre le gouvernement et le peuple. Le Gouvernement l’emporta, et le 17 mai, dans un décret émané spontanément de sa libre volonté, le Roi déclara vouloir conserver la constitution intacte, et considérer ces regrettables événements comme l’œuvre d’une faible minorité turbulente. Les journaux, organes du gouvernement parlèrent dans le même sens. Cependant la révolte recommença dans les Calabres; le gouvernement vainquit les rebelles et pacifia ces provinces en proclamant qu’il conserverai la constitution. Puis il se préparait à reconquérir, comme c’était son droit, l’ile de Sicile, et dans toutes les proclamations des généraux ne cessait de faire retentir la promesse d’un gouvernement libre. Toutefois les chambres réunies à Naples étaient suspendues et ajournées jusqu’en février 1849, et au mois de mare on assurait par la bouche du Ministre qu’il serait fait de nouvelles élections et que les nouveaux députés donneraient à la question politique la solution attendue. Les arrestations commencèrent, et les hommes les plus distingués parmi les députés furent saisis. On ordonna leur procès, et l’on fit peser sur eux tous des charges terribles. Le pays regardait consterné, mais sans bouger. Et voilà que le gouvernement, sans qu’aucun autre prétexte, sans qu’aucune autre révolte lui en fournit l’occasion, casse le statut librement accordé, et fait condamner aux fers ou à l’exil les hommes les plus remarquables du Royaume. Il parait cependant impossible d’expliquer que le gouvernement n’ait d’abord pas osé, le 15 mai, détruire l’ordre constitutionnel, et qu’il l’ait fait ensuite sans aucune raison nouvelle, par le moyen d’une réaction lente et dissimulée. De fait, le statut ne fut jamais abrogé, et on voit subsister la monstrueuse contradiction de deux gouvernements, dont l’un, écrit et juré, n’est pas mis en pratique, et dont l’autre, non écrit, mais secrètement consenti et juré par une minorité, es| exécuté d’une manière impitoyable. Les lois se sont tues, et la police secrète a eu seule et continue d’avoir pleine puissance. C’est ainsi que s’est répandue dans les esprits la terreur d’un gouvernement dont l’œil et la main se cachent dans l’ombre, et qui pèse sur toute la nation avec une police vigilante et cruelle. Maintenant le gouvernement est livré à des administrateurs qui veulent maintenir l’état actuel des choses; et tandis qu’on prêche la paix à l’étranger, on effraie le Roi par le récit de conjurations incessantes et avec de nouvelles arrestations. (Non esistevano forse le congiure incessantiì)

«Nous avons de bonnes lois, mais elles sont lettre morte, et dans toutes les branches de l’administration civile et judiciaire, c’est l’arbitraire qui gouverne.

Question intérieur

Déjà la situation du Royaume des Deux Siciles avait plusieurs fois attirer l’attention de la France et de l’Angleterre, mais la guerre d’Orient avant éclaté, toute question partielle se tut, et les deux grands peuples concentrèrent toutes leurs forces en Crimée. Ils avaient parfaitement compris que dans la victoire sur la Russie sé trouvait la solution de toutes les questions européennes. En effet, le congrès rassemblé à Paris eut deux grandes pensées,

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la première de saurer la Turquie de la Russie, l’autre de faire cesser dans l’Europe l’état réactionnaire pour la conduire à un progrès libre et modéré. Napoléon III a dit que la paix est le progrès; et nous, nous voulons cette liberté qui est une amélioration, et non le désordre révolutionnaire. La question napolitaine a occupé les Plénipotentiaires, et ils se sont principalement arrêtés à considérer l’état du Royaume de Naples. On sait que, voulant respecter la liberté de la monarchie napolitaine, la France et l’Angleterre avaient entremis leurs bons offices pour persuader au gouvernement de Naples de se départir du. système de réaction et de se réconcilier avec le peuple par le moyen d’une sage administration et d’une large amnistie. Le Gouvernement napolitain eut recours à des subterfuges (?!) et à des refus qui ne furent pas acceptés, et les Ambassadeurs de France et d’Angleterre abandonnèrent Naples. Le Gouvernement essaya de la conciliation, et adopta trois moyens pour contenter la France et l’Angleterre: le traité avec la République Argentine pour la déportation des condamnés politiques, une amnistie et l’envoi de commissaires inspecteurs de la justice. En même temps, pour montrer quel cas il faisait des bons offices de la France et de l’Angleterre, il releva l’échafaud politique, ce que jamais antérieurement il n’ avait osé faire, et condamna à mort Milano et Bentivegna. Et cela, lorsqu’il promettait de l’humanité et des concessions. Il dit que ses sujets sont contenta, et pourtant on les arrête pêlemêle, aussi nombreux qu’ils se trouvent dans le,s salles de billard et dans les cafés, et on les jette en prison, (perché non citare i fatti?), et on donne a la Police de la Préfecture de Naples de nouveaux pouvoirs pour opérer des visites domiciliaires et des arrestations.

«C’est ci le lieu d’examiner une a une les trois concessions sus énoncées.

«1°. Le traité avec la République Argentine est manifestement injuste, parce que, selon les lois pénales, les condamnés à mort peuvent seuls avoir leur peine commuée en celle de la déportation. Or donc, pourquoi, par une violation manifeste de notre code penal, des condamnés aux fers et de simples accusés doivent ils être soumis à une peine qui équivaut a celle de la mort? La France et l’Angleterre, il est vrai, ont leurs condamnés à la déportation, mais sur les plages où on les dépose, les déportés français et anglais continuent à jouir du bénéfice des lois libérales de leur pays. A quelles lois seraient soumis les déportés napolitains? Cela est un mystère; la seule chose qui soit bien claire, c’est qu’ils seraient abandonnés à leur propre infortune.

«2°. La mesquine amnistie du 2 mars a seulement réduit la peine des condamnés politiques qui se trouvent dans les prisons et les maisons de réclusion. Mais de ceux qui sont condamnés aux fers et aux travaux forcés à perpétuité, on ne dit mot. Il reste, en outre, un nombre infini r exilés, dont il n’est fait aucune mention. Et puis nous savons que le bénéfice de 1’amnistie a été restreint, par les,soins de la police, aux seuls individus nominativement

 

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désignés sur une liste. Cette amnistie est encore une machine, et notre gouvernement n’a pas voulu qu’elle fut générale!

«3°. Les commissaires qui doivent parcourir les provinces pour vérifier l’exécution des lois sont des sujets contents du régime; hommes du gouvernement, (avrebbe dovuto scegliere rivoluzionarii!) ils ne peuvent que porter un jugement conforme à ce que le gouvernement leur a déjà prescrit de dire et d’écrire. Le Gouvernement ainsi prend ses précautions pour que ces hommes lui préparent un panégyrique, et pour prévenir l’opinion des politiques de l’Europe.

«Faisons toutefois observer a la Fronce et à l’Angleterre que la question napolitaine n’est pas tranchée, et qu’ elle est de nature à devenir le premier et nouvel anneau dJ une grande complication en Europe. Et si l’histoire du passé est une lumière pour l’avenir, nous en tirerons argument pour confirmer ce que nous avançons. En effet, vers la fin de 1847, et dans les premiers jours de 1848, le Gouvernement de Naples s’obstinait seul contre les réformes, dans la voie desquelles étaient entrés le Pape d’abord, aux applaudissements universels, puis la Toscane et le Piémont. Les députés de la gauche dans le Parlement français attaquaient le gouvernement, parce qu’il n’ entremettait pas ses bons offices pour faire cesser à Naples la mésintelligence entre le souverain et le peuple. En France il avait ainsi germé dans la plupart. des esprits un mécontentement qui, éclatant le 22 février, renversa le trône de Louis Philippe. Maintenant les questions politiques européennes ne marchent plus isolément; elles s’enchament au contraire par des anneaux invisibles. Il est certain qu’en France les “esprits e sont pas calmes; un soulèvement qui éclaterait à Naples, et qui ne serait pas prévenu à temps, ne pourrait-il pas avoir encore les mêmes effets en France et abattre la nouvelle monarchie? Que l’Empereur Louis Napoléon avec on génie prévoyant considéra ces causes et ces effets simultanés.

Question complexe

«Les Napolitains ne demandent pas des choses injustes ou chimériques; ils demandent qu’on leur rende la légalité et qu’on remette en vigueur ce Statut, qui n’a jamais été abrogé par aucune loi, ce qui montre que dans l’esprit et la conviction du Roi lui même, il est toujours la loi suprême de l’État. Nous aussi nous voulons faire partie de la grande famille européenne, marchant à la civilisation et au progrès, et ne pas rester séquestrés des autres peuples voisins par un gouvernement qui persécute le talent, et qui met toutes sortes d’entraves à l’industrie et au Commerce (lo stesso Cavour smentiva quest’asserzione). Tout État progresse, non par Faction simple et exclusive du gouvernement, mais par l’action de toutes les facultés de tous les individus. De même que le libre développement du talent ouvre de nouvelles voies à la. grandeur morale et civile l’un peuple, ainsi le libre développement de toutes ‘les activités fait

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progresser le commerce et l’industrie. Le gouvernement ne doit pas s’opposer à ce libre mouvement, mais il doit le guider, pour qu’il n’engendre pas le désordre et la confusion. Un gouvernement qui craint le talent et l’industrie est homicide du peuple qu’il représente et de lui même. Un gouvernement qui abandonne à elle même toute œuvre humaine, sans en prendre la direction, ouvre passage à l’anarchie et ensuite à la barbarie. De la combinaison de l’action gouvernementale avec la liberté nait le véritable et légitime progrès. Nous voulons que nos lois soient maintenues et exécutées, et l’unique remède est le gouvernement parlementaire, qui en détruisant l’arbitraire de la Police secrète, accorde l’empire aux lois seules et constitue en même temps le Roi et le peuple gardiens de leurs propres institutions.

«S’il est vrai, comme l’affirmait le Gouvernement napolitain dans son memorandum, que ses sujets soient satisfaits de l’administration actuelle, pourquoi, au lieu d’envoyer des commissaires inspecteurs, ne convoque-t-il pas un Parlement pour donner ainsi, par un vote libre de tous les citoyens, un solennel démenti aux rares libéraux qui forment un parti, une réponse publique et éclatante à la Franco et à l’Angleterre? Mais non: notre gouvernement craint une telle épreuve, parce qu’il sait que’ tous ses sajets n’exprimeraient que ce seul vœu: nous voulons la Constitution. Ce vœu ne serait pas subversif, parce qu’il est juste qu’un peuple qui pense et qui écrit, qu’un peuple aussi avance que les autres nations d’Europe dans la civilisation, désire prendre part. à l’élaboration et a l’exécution des lois qui le régissent. Il n’y a qu’une solution à la crise dans la quelle nous nous trouvons: que le gouvernement abandonne noblement la réaction et remette en vigueur le Statut de février. Considérons que si tout désir de liberté constitutionnelle s’était éteint dans les cœurs, la réaction qui dure depuis neuf ans, et qui ne parait pas vouloir finir, serait inexplicable et féroce. Un gouvernement qui est en paix avec son peuple fait do l’administration, et non pas de la réaction; or nous demandons quelle est la nature de l’administration napolitaine? Si elle est réactionnaire, le gouvernement se condamne lui-même, parce qu’il avoue que la généralité de ses sujets n’est pas contente de son système. Avec la restauration du Statut, la terrible situation dans laquelle sont placées Naples et les provinces cesserait aussitôt, et la monarchie des Bourbons trouverait de nouveaux appuis. Si la maison régnante est sage, qu’elle place ses racines et ses fondements dans l’amour universel de son peuple.»

Le cose da noi narrate, e quelle che narreremo rispondono più che non bisogni a documenti basati solo sul falso e sulla contraddizione. Ma l’accusa principale risguardando il fatto della abbandonata Costituzione, crediamo conveniente rispondervi subito con le belle parole dell’autorevole De Sivo, che rechiamo, testualmente.

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 fonte

eleaml.org

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