Parmenide, fondatore del pensiero occidentale
Uno smilzo quaderno basterebbe a contenere l’opera di Parmenide: un “Poema”,
di cui non restano che frammenti, un centinaio di versi che ci sono stati trasmessi principalmente dai filosofi Sextus Empiricus e Simplicius. E tuttavia, la potenza della parola di Parmenide “riduce a niente le pretese di biblioteche intere di opere filosofiche”. E’ il filosofo tedesco Martin Heidegger che lo dice in “Introduzione alla metafisica”.
Scritto nel V secolo a: C., questo testo stupendo ma complesso non ha cessato da allora di intrigare e di appassionare i filosofi e i filologhi, che lo considerano un fondatore. Ne deriva tutta la storia del pensiero occidentale, ma innumerevoli difficoltà sorgono quando si vuole tradurlo dal greco senza deformarlo o tradirlo.
Chi era Parmenide? “Un uomo di bella e nobile prestanza”, dice Platone in uno dei suoi “Dialoghi”. Nato verso il 515-514 a. C., ad Elea, nella Magna Grecia (oggi Velia, in Italia del Sud), sappiamo che Parmenide ha senza dubbio conosciuto il filosofo Senòfane di Colofone , fondatore della scuola di Elea, che è stato l’amico del pitagorico Ameinias; e infine e soprattutto, che egli ha meditato il pensiero di Eraclito, il filosofo del divenire e della mobilità universali, al quale lo si oppone generalmente. Parmenide è classicamente percepito come il filosofo che afferma l’immobilità dell’essere.
La lista dei suoi traduttori è lunga. Dalla fine del XIX secolo, ci si riferisce generalmente all’edizione di Diels, il filologo tedesco che ha riunito gli scritti dei filosofi presocratici.
In Francia, Jean Beaufret, che fu l’amico di Heidegger, ha proposto, nel 1955, la sua traduzione del “Poema”. Essa è stata poi rieditata dal PUF, nella collezione “Quadrige”.
A sua volta, Marcel Conche, che già pubblicò una traduzione dei “Frammenti” di Eraclito ed un’altra dei “Frammenti” di Anassimandro (OUF, rispettivamente nel 1986 e 1991), fa apparire, ancora per le edizioni PUF, nella collezione “Epimèteo”, la sua traduzione ed il suo commento dell’opera del pensatore di Elea. E’ un lavoro immenso e considerevole che fa data nella storia della filosofia.
“Le cavalle che mi portano via mi hanno condotto tanto lontano quanto il mio desiderio possa andare, quando, portandomi, esse mi misero sulla via dai numerosi segni della divinità, via che, riguardo a tutto (quello che c’è), conduce a questa l’uomo mortale rendendolo saggio.” Chi parla in questoi termini? E che significa la visione poetica di Parmenide? Si tratta di un giovanotto che racconta la strordinaria avventura da lui vissuta. Eccolo dunque su un carro tirato da giumente. Esse lo portano a viva andatura fuori dei sentieri comuni, verso una destinazione misteriosa. Delle ragazze, le figlie del Sole, guidano le cavaqlle sulla strada, fino ad una porta chiusa, davanti alla quale si trova Diké, la dea della giustizia. Questa, affascinata dalle ragazze, che sanno essere persuasive, accetta di aprire la porta. Che c’è dall’altra parte? Un’altra dea, la Dea Verità. Ormai, ma per un corto momento, è la Dea Verità che va ad indirizzarsi al giovanotto. Ella è benevola; dalla sua bocca, che è la bocca stessa della verità, il giovanotto va ad essere istruito.
Due frasi estratte da questo discorso tenuto dalla dea devono essere particolarmente meditate ed interpretate. Esse radunano la concezione parmenidea dell’essere, della verità e del tempo. Queste due frasi sono generalmente tradotte così: “ L’essere è; il non essere non è” e “Poiché lo stesso è allo stesso tempo pensare ed essere”. Marcel Conche propone un’altra traduzione che gli permette di mettere in opera, dal suo punto di vista, quello che Heidegger chiama la differenza ontologica.
E’ evidentemente necessario chiedere al lettore di seguire, frammento dopo frammento , la traduzione, ma anche riflettere all’interpretazione globale del “Poema” che è data.
Che è l’essere di Parmenide? Secondo Marcel Conche, il più giusto significato di questa parola, in francese, forse “C’è”. Si comprebde meglio, così, che l’essere non è Dio, né una causa prima, né la ragione d’essere degli esistenti, cioè degli umani, del cielo, dei fiumi o ancora di un campo di grano. Questo “c’è” può essere capito metaforicamente come una sorta di fondo permanente o di sito stabile, non sottomessi al tempo, su cui si distaccano assolutamente tutto quello che c’è, ogni cosa che è al mondo, tutto quello che nasce e muore, in particolare ogni cosa umana, poiché tutto quello che è umano è sottomesso alla legge del tempo.
Così l’essere di Parmenide o quel fondo di ogni cosa, secondo Marcel Conche, è il mistero stesso. Poiché tutte le cose particolari hanno la loro spiegazione, il fatto stesso dell’essere, questo “C’è”, è, come dice il mistico tedesco, Angelus Silesius, “senza perché”.
Attaccarsi a penetrare il senso enigmatico dei versi di Parmenide è, in ternini filosofici, e poetici, sentire vivamente il mistero del “C’è” o della Presenza o ancora di questo adesso eterno che si nasconde dietro gli o ora fuggitivi.
Secondo Marcel Conche, leggere bene ed ascoltare bene la parola di Parmenide è essere capace di pensare la differenza tra il tempo e l’eternità, la differenza tra un ora eterno, che è quello dell’essere e che dura per l’eternità, e gli innumerevoli ora fuggitivi che si sgranano sulla linea del tempo.
Tale potrebbe essere la chiave del “Poema”, una chiave che riconcilia l’immobilità dell’essere, secondo Parmenide, con la fuggitività eraclitea del divenire, e, senza dubbio anche, una chiave che permette a Marcel Conche di affermare la sua visione filosofica.
Alfredo Saccoccio
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