Patrizia Stefanelli, una ricercatrice di vasto e solido respiro di Alfredo Saccoccio

Patrizia Stefanelli ha pubblicato recentemente “Lòcche lòcche”, edito per il Centro Storico Culturale “Gaeta”, di cui ricorre, quest’anno, il mezzo secolo di vita. Con questo titolo, che significa “lentamente”, “piano piano”, “lemme lemme”, la poetessa, formiana di nascita, ma gaetana di crescita, ci immette nel suo itinerario poetico,ampio e completo, che abbraccia 24 testi in vernacolo gaetano , ricostruiti con fedeltà e acribia.
L’autrice, che si avvale della dotta prefazione di Erasmo Vaudo, Presidente del Centro Storico Culturale “Gaeta”, attinge agli studi del compianto Nicola Magliocca , che ha santificato le radici gaetane rivalutando i proverbi e i motti popolari, consegnando queste manifestazioni di saggezza popolare alla storia, esse che, a volte, sono delle locuzioni intraducibili alla lettera, per le molteplici radici linguistiche, che vanno dal greco e dal latino al francese, allo spagnolo, all’arabo. La Stefanelli ha il grosso merito di seguire il linguaggio dei nostri padri; un linguaggio che va velocemente ed inesorabilmente impoverendosi e scomparendo, sotto i colpi di scure dell’istruzione, della televisione e della livellante cultura di massa, che ha già travolto tante naturali risorse e continua a distruggerle.
Le poesie di questa raccolta, nel dialetto del Borgo di Gaeta, sono state “scritte nelle forme metriche italiane: canzone a selva (o leopardiana), sonetti, terza rima, filastrocche, polimetri e quanto Ars et Inventio hanno concesso”. Il metodo critico usato da Patrizia Stefanelli, sorretta da una lunga preparazione parenetica e culturale, raggiunge una sintesi esegetica altamente qualificata, rivelando la mano di una esperta cesellatrice, nelle cui composizioni si coglie un timbro, un ritmo, un modulo compositivo di indubbia autenticità, in cui affiora qualche riferimento memoriale, come in “La néve de Ypres (Natale 1914)”: ‘Nu dumore de néve: ‘nu butte. / Denanze a le buche nemiche / tutte cose s’avéje ‘quitate”. La città belga , nella guerra 1914-18, fu il centro di aspri combattimenti e quasi interamente distrutta. I Tedeschi vi usarono, per la prima volta, i gas asfissianti, una specie dei quali fu detta appunto iprite. In questo componimento l’autrice rivela la sua umanità, la sua “pietas”, che ci commuove e che lascia tracce dentro di noi. E questa non è virtù di poco conto.
L’opera è corredata da rare cartoline (una presenta la caratteristica, pittoresca, industriosa Via Indipendenza , un’altra, la processione per mare alla chiesa di Porto Salvo, fatta da pescatori, con un corteo di barche fino a Punta Stendardo, un’altra ancora il castello angioino ed aragonese, visto dal mare, una quarta rappresenta un panorama della spiaggia di Elena, che fu, per un trentennio, comune, al posto di Gaeta) ; da due cartoline postali, in una delle quali è riprodotta la chiesa di San Francesco e lo stabilimento balneare e in cui è citato il barone Carlo Poerio , congiunto omonimo del deputato alla Camera subalpina e poi a quella italiana, dalla VII alla X legislatura, e nell’altra la fanteria in Piazza Municipio; da due stampe originali, disegni a penna e ad inchiostro di Ray Evans, del 1974.
Patrizia Stefanelli, per certi aspetti, può essere considerata una poetessa atipica, nel senso che è difficile ascriverla a nessuna corrente letteraria, inquadrarla nel panorama della letteratura di questo secolo, assegnarle dei contorni definiti, associarla, “sic et simpliciter”, a questa o a quella corrente letteraria e ideologica, anche se , dal punto di vista stilistico-formale, la sua poesia ha una specificità,.una tipicità , una riconoscibilità indubbia.
Quello della Stefanelli, laureatasi in DAMS, cum laude , all’Università di Roma Tre, con la tesi dal titolo “Storia del teatro e tradizioni del Sud Pontino”, è un interessante e poderoso lavoro, giunto alla sua conclusione, grazie ad amore e fermezza di intenti dell’autrice, oltre alle sue ampie visioni culturali e a una minuta conoscenza della materia, di alta valenza etnografica. La poetessa aurunca, con questo gigantesco impegno, ha condotto una lotta contro il tempo, che, nel suo implacabile procedere, copre e distrugge gli usi, i costumi, la genuina e sanguigna parlata dei padri. Nell’opera ,la Stefanelli è riuscita a trasfondere la vitalità del dialetto gaetano, assurto allo sviluppo di una completa e precisa fonetica, di tutte le categorie morfologiche, di strutture sintattiche e di una notevole dovizia lessicale. Ella espone la materia, non sempre docile ad una trattazione lineare e completa, con indubbia competenza, con immagini convincenti, attingendo alle esperienze fatte negli anni fertili della sua fanciullezza, immersa nella realtà quotidiana, vissuta con la gente che usava costantemente il vernacolo, ricco di sfumature e di forza icastica.
In ultima analisi, possiamo dire che la Stefanelli, personalità poliedrica, ha ricercato, con un lavoro di scavo e di ricognizione, una lunga fatica, le tracce sepolte dalla polvere inesorabile del tempo, o ancora vive sulle labbra degli ultimi campioni di una civiltà che scompare di giorno in giorno.
La studiosa è tornata tra i vecchi contadini, tra i rugosi pescatori, tra i bottegai e gli ortolani, nei quali ancora vive quella che, un giorno, fu la comune espressione della stragrande maggioranza degli abitanti di Gaeta.
Una nota di merito va anche all’editore minturnese Armando Caramanica, che ha curato la pubblicazione dell’opera con un taglio ed una sontuosa veste tipografica , degna di figurare nelle migliori biblioteche pubbliche e private del basso Lazio.
veramente lo ha gia ordinato alla casa editrice
Ringrazio Alta Terra di Lavoro per aver pubblicato la generosa recensione di Alfredo Saccoccio, insigne storico, scrittore e giornalista. Ringrazio altresì la Lettrice Caterina Ossi. Se volesse leggere il volume non ha che da chiedermelo.
Ora aspetto il suo libro, dall’editore che e’ di Minturno…. troppo ghiotto per chi come me ha frequentato la zona e la ricorda come un concentrato di storia e bellezza… caterina ossi