Paul Valéry a Roma di Alfredo Saccoccio
E’ aprile del 1924, quando Paul Valery, nel salottino, parla con il padrone di casa della sua formazione artistica. Del nesso fra le sue cognizioni di matematica e i versi. Parla un po’ francese e un po’ italiano. Il suo italiano è fluido e ricco di vocaboli, anche per il fatto che, quando egli parla francese, si mangia metà delle parole e si dura fatica a tenergli dietro. Parla con un tono dimesso e semplice, che dà grande autorità alle sue parole. Ora insiste sul valore dei trapassi in poesia : “Bei versi tutti i poeti non hanno; ma è il collegamento fra i tratti d’ispirazione il più arduo compito del poeta. Trovare l’armonia, la misura, il modo affinché tutto fili e proceda senza scosse e ineguaglianze, come una vettura su un terreno spianato. Di queste leggi di mestiere, io mi son fatto lo scopo massimo. Io sono un versificatore, non un poeta…”.
“E allora come spiegate che i popoli primitivi abbiano avuto la poesia e non la prosa ? ” gli chiede uno dei presenti.
“Ma quella poesia là è soltanto linguaccio”, risponde Valéry.
“O piuttosto”, obietta un altro, “essa era artificio e si è trasmessa attraverso le epoche proprio perché era artificio”.
Con d’Annunzio
A proposito della poesia intesa come musica, il Valéry dice : “Nella musica ci sono gli strumenti. Lo strumento dà il suono : una cosa cioè che è già di per sè una condizione eccezionale; una cosa che suggerisce di per sè il fatto arte. La poesia invece si fa arte servendopsi dei suoni e dei rumori comuni con i quali si denominano le ose usuali nella vita degli individui”.
Valéry si volge a Giuseppe Prezzolini chiedendo della sua vita e del suo lavoro : “Oh, io scrivo delle cose usuali” , risponde l’interpellato. £Non appartengo ai suoni, io ; ma soltanto ai rumori e che restan rumori. Domandi a Cecchi, piuttosto; lui è un’altra cosa”.
Era reduce, il Valéry, da una visita a d’Annunzio. Ed era ancora vibrante delle varie impressioni di questa visita, soprattutto della rapidità vertiginosa con cui l’automobile del Comandante lo aveva trasportato da Brescia a Gardone. Una corsa pazzesca. “Mi sentivo portar via le palle degli occhi e giuravo dentro di me che era finita, che non avrei mai più riveduto il suolo di Francia. Mi ritrovai, ancora stordito, in una cella dalle pareti di legno, sulle quali si alternavano motti latini e cilizii francescani. Da un lato, la fiamma nel camino; dall’altra una goccia d’acqua che cadeva con ritmo lento in una vasca. In quel mistico raccoglimento ebbi agio di rimettermi, se non di meditare, come forse era nell’intenzione del mio illustre ospite”.
Descrive con molto brio il Vittoriale: le sale, il sacrario, l’ara dei sacrifici,,, il ponticello che anch’egli passò pagando il soldino,, le poltrone per tre misteriosi traditori, la sobrietà dei pasti ::: “C’est un drole de type”. Ma che uomo meraviglioso di vita, di entusiasmo, di passione, di disciplina. Mi ha detto che crede di incominciare a saper scrivere soltanto ora”. E ce lo fa vedere, attraverso le sue parole. piccolo, piccolo, magro, con la testa completamente calva e sbarbata, pallida, che sembvra una palla di biliardo.
Due o tre sere dopo, si era insieme in trattoria. Il Valéry era stanco. Aveva tenuto, quel pomeriggio, una conferenza su Baudelaire. Tuttavia non tralasciava di interessare i commensali con aneddoti, notizie e osservazioni sempre di prima mano. Ha incontrato tanta gente importante e ha pensato su tante cose che ci diverte un mondo raccogliere anche un briciolo dei suoi ricordi.
RICORDI DI DEGAS
Vien fatto di parlare di Degas. Egli lo ha conosciuto intimamente. Ma, santo Dio, che caratteraccio ! Gli amici riuscivano appena a sopportarlo, in considerazionr della sua grande arte. E faceva parte del suo brutto carattere la sporcizia della persona che non era, a quanto pare, facilmente trascurabile.
Il ben noto disegnatore inglese Bearsdley era invece di un’eleganza estrema. Già malato, quando il Valéry lo conobbe, girava per Londra con una sorella magnifica, vestita splendidamente e la conduceva nei luoghi più scandalosi della capitale.
Di Anatole France fece, il Valéry, una sorta di critica sintetica. “egli affronta sempre cose facili a dirsi, oppure imita situazioni già espresse. Per lettori correnti questo poco conta, perché essi cercano nella lettura soltanto un’impressione piacevole e vivace. Ma non è così per i pochi del mestiere. A questi preme di riconoscere e apprezzare il valore di chi ha tentato di esprimere qualcosa di più raro, e difficile, e non ancor detto”.
Di un amico suo, personalità politica insigne :” E’ un uomo tanto semplice e intelligente; ma ha un difetto comune a molti uomini politici : quello di non poter dimenticare sè stesso. E’ cosa che ho osservato tante volte. Gli uomini politici si chiudono in quella posa di autorità e di commedia che è loro richiesta, o almeno credono sia loro richiesta,,,. dalla loro aqutorità. E’ più forte di loro ; è come per i professori che non possono trattenersi da sciorinare a un dato punto una citazione erudita…”
La valuta oro
Nel maggio del 1933 il Valéry era di nuovo in Italia, in uno dei più illustri salotti romani.
Ancora una discussione , interessantissima, sulla poesia, sulla prosa, sul roimanzo. “Le roman c’est l’inlation de la vie; la poésie c’est le reve… ”. La prosa narrativa è la circolazione cartacea, la poesia pè la valuta oro”.
L’interesse della prosa narrativa è soltanto un interesse di vita e di circostanze, secondo il Valéry. “Ecco : il baronev partì alle npve e quarantacinque…Io dico invece : il barone partì alle nove e un quarto, oppure era la baronessa che partì…Si può prendere un romanzo e cambiare tutti i particolaroi, senza che il romanzo cambi la sua essenza. “On ne peut rien changer à la poésie” (Non si può cambiare niente alla poesia , n. d. r.). La forma espressiva di una poesia, il poeta stesso non la conosce prima che sia conchiusa a furia di correzioni e di spostamenti : la forma soltanto crea ciò che si trattava di dire. La poesia, come la musica, è l’essenza suprema della forma. Il romanzo obbedisce a delle necessità di divulgazione, a un interesse per gli avvenimenti”.
Interviene una signorina : Ma Matilde di “Rouge et noir”, per esempio, è così e non può essere che così”.
“Ah ah”, esclama Valéry: “Ma quanta parte della vostra vita mettete nell’interesse per quegli avvenimenti? Forse, signorina,, state scrivendo un romanzo?…”.
“Noi”, dice la madre, “lo vive, perché è fidanzata”.
Riprendendo il filo della discussione : “Quand j’étais poète…”. Vedendo gli ascoltatori sorridere, conferma : “Oui, lorque j’étais, parce que je suis en repos maintenant”. Ma si interrompe per gustare uno squisito lambrusco proveniente dalle terre della padrona di casa. “Capisco perché è così buono; “c’est vous-meme qui le faites avec vos pieds”.
Paul cita un verso di Pierre Corneille : “Sembra impossibile possa essere di Corneille : del resto i teologi, per condannare i peccati, debbono averli ben conosciuti, perché non ci può essere fantasia per i peccati della lussuria”.
DANTE LIBERTINO
Ai diverte a pensare come saranno bruciati e macerati nell’inferno i lussuriosi ; e dall’inferno il trapasso a Dante viene naturale. Lo diverte anche il pensiero che Dante sia stato un po’, o molto, libertino. “Conoscoiamo nove donne di lui”, qualcuno dice. “Oh, il y aura des marges, il y aura dei marges…”.
Valéry si lancia contro certa scienza medica e freudiana. “Molto spesso questa scienza è un pretesto per dire impunemente delle porcherie, per occuparsi di porcherie. Si può osare tutto con il beneficio della scienza, sia nella teoria che nei rimedi, in specie nei paesi nordici e puritani. Se uno scienziato dimostrasse che la carne umana guarisce certe malattie, per esempio il cancro, troverebbe gente che mangia carne umana. Si creerebbero istituti per mangiare carne umana. Già siamo arrivati a togliere certi organi a un individuo, a beneficio di un altro che può sborsare del denaro. Alla maggior parte degli scienziati manca la penetrazione artistica, psicologica e morale”.
Un’altra volta il Valéry lesse, ad alta voce, il suo poema “Ebauche d’un serpent” ed aiutò gli amici, che gliene avevano fatto richiesta, a trasportare certi passi in italiano. Alla fine, però, chiudendo il libro e uscendo dalla stanza, fece con le mani un gesto come a scacciare dalla testa un pensiero troppo faticoso e importuno : “Ah, c’est difficile; meme en français : surtout en français”.
Alfredo Saccoccio