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Per una storia non scritta: Il 1799 nel Vallo di Diano

Posted by on Ago 23, 2020

Per una storia non scritta: Il 1799 nel Vallo di Diano

Una fonte archivistica per il 1799: l’archivio privato Carrano

Paolo Carrano

L’archivio Carrano, la cui formazione è strettamente legata alle vicende della famiglia, assai felici in alcune occasioni, meno fortunate in altre, conserva documenti pergamenacei e cartacei di grande importanza non solo per la storia del Vallo di Diano. Come molti altri archivi pubblici e privati della Campania e dell’Italia in genere, ha risentito del trascorrere dei secoli, subendo danni soprattutto a causa degli eventi bellici che colpirono il Vallo di Diano; in particolare nel 1860 e nel biennio 1944-45. L’Unità d’Italia determinò gravi sconvolgimenti oltre che per la famiglia, divisa tra legittimisti borbonici ed innovatori risorgimentali (persino garibaldini!), anche per l’archivio che, per motivi di prudenza, venne interamente occultato in luoghi non adatti alla conservazione, nel timore che, venendo scoperto, potesse riaccendere vecchi rancori mai sopiti tra i componenti della famiglia filo Borbonici e quelli fedeli ai Savoia. L’occultamento causò danni dovuti all’umidità dei luoghi ed alle infestazioni.

L’evento sicuramente più distruttivo è quello legato al secondo conflitto mondiale: il bisnonno Luca Carrrano, all’epoca in età avanzata, preoccupato per la sorte dei figli in Napoli, soprattutto dei due ufficiali dell’esercito mobilitati per gli eventi bellici, non si avvide che uno dei proprii massari, credendo che “le carte” custodite in antichi cassoni nuziali non avessero alcun valore, prelevava i documenti per attizzare il fuoco[2]. Finita la guerra, dell’archivio si persero le tracce: la morte del bisnonno Luca, l’unico a conoscere il luogo dove erano nascosti i documenti, ne determinò l’oblio. Molti anni più tardi mio padre, Luigi Carrano, trovandosi a trascorrere per motivi familiari lunghi periodi di tempo in inverno a Teggiano, ritrovò per caso le casse che custodivano le carte. Incominciò a studiarle, avendo intuito che contenevano notizie storiche della famiglia e, contemporaneamente, ne avviò il restauro.

Il restauro procede ancor oggi, poco alla volta e tutto con fondi privati[3].

La famiglia Carrano è presente nel Vallo di Diano sin dall’alto medioevo con una fitta schiera di uomini d’arme, di legge, abati, medici, sindaci, governatori feudali, eletti, notai; tutti esponenti di quella facoltosa classe sociale che oggi verrebbe definita “borghese” ed un tempo era individuata nell’aristocrazia di provincia, che ruotava attorno alle famiglie della nobiltà magnatizia dell’epoca feudale. Fu molto vicina ai Sanseverino, condividendone gli splendori e l’oblio, ricevendo da tale casato privilegi eccezionali. La prima notizia di un Carrano risale al 3 maggio 1305 e riguarda Guglielmo Carrano, proprietario di una terra nella località Castagneta. Successivamente, il 28 luglio 1339, è documentato Nicola Carrano, proprietario di una terra in località Sassano; allo stesso Nicola Carrano fa riferimento con molta probabilità un altro documento dell’8 gennaio 1354, dove si legge che Nicola, figlio del dominus Guglielmo, nobile di Diano, vende una terra in località Pozzo[4]. Nella stessa epoca è documentato Angelillo, primo eletto di Teggiano di cui si ha memoria. La prima notizia di un notaio Carrano risale al 1434[5], ma lunga è la serie dei notai, determinando per i documenti medievali la prevalenza di atti notarili.

L’archivio Carrano possiede un fondo pergamenaceo di oltre cento documenti, per lo più riferiti a vicende familiari ma non solo, databili dal XIII al XVIII secolo; rispetto alla tipologia, prevalenti sono quelli di natura notarile (vendite, permute, donazioni, testamenti), ma vi sono anche privilegi, concessioni feudali, rescritti, bolle vescovili e papali. Diversi documenti notarili dei secc XV – XVIII devono la loro stesura a notai di famiglia come Nicola, Scipione, Domenico Antonio, Giacomo; quest’ultimo fu il notaio che stipulò la pace successiva alla ‘congiura dei baroni’ tra il principe di Salerno, Antonello Sanseverino, ed il re di Napoli Ferdinando I d’Aragona, al termine dell’assedio della città di Diano del 1497[6]. Per tale onorevole incarico Giacomo si guadagnò il titolo di “patrizio dianese e cavaliere ereditario”.

Inutile sottolineare come il fondo pergamenaceo dell’archivio Carrano costituisca una fonte preziosa per lo studio di quello che fu in età feudale “lo Stato di Diano”, comprendente la città di Diano con i suoi cinque casali: Sassano, San Giacomo, San Rufo, San Pietro e Sant’Arsenio, tutti per un motivo o un altro presenti negli atti dell’archivio.

Un discorso a parte meritano due frammenti membranacei di un codice greco, risalente al X-XI secolo, facenti parte dei minea, canti basiliani in onore di sant’Agatone l’etiope, unici documenti esistenti nel Vallo che attestano la presenza basiliana in Teggiano. La famiglia possiede tra l’altro un antichissimo ius patronatum sulla diaconia basiliana e l’annesso ospedale per lebbrosi di San Nicola dei Greci o dei Carrano, contiguo Palazzo Carrano al Largo Sant’Angelo.

Sempre con riferimento al fondo pergamenaceo, notevole interesse riveste il documento riguardante la capitolazione della città di Diano, ma non del castello, del 13 maggio 1431, probabilmente connesso all’attività di milite di Masello Carrano (lo stesso che venne inviato dalla città presso i Sanseverino per chiedere la riconferma degli antichi privilegi concessi a Diano). Così come interessantissimo è il privilegio nobiliare di commensale, familiare, cavaliere aurato, cavaliere “in perpetuum con cingolo militare” concesso ad un mio antenato da Carlo V d’Asburgo, con sottoscrizione autografa dell’imperatore[7].

Passando al fondo cartaceo, di notevole interesse sono un vasto corpus di carte sparse che vanno dal 1311 alla fine del 1500, e quattro manoscritti cinquecenteschi recentemente restaurati e raccolti in un volume. Si tratta dei modelli di atti notarili[8] (una sorta di prontuario per i notai della mia famiglia) e della raccolta di prammatiche del Regno di Napoli[9].

Un’altra fonte preziosa per la conoscenza della vita quotidiana della città di Diano in età feudale è rappresentata dalla serie dei Parlamenti dell’Università di Diano della fine del Cinquecento (4 dicembre 1582 – 1 ottobre 1596) e della seconda metà del Seicento (23 marzo 1652 – 25 agosto 1698). Nei verbali del Parlamento cittadino sono documentate le cariche in seno all’amministrazione, la formazione del catasto, l’esazione delle tasse, l’annona, i rapporti tra le classi (feudatari, clero, nobili, borghesi, massari, artigiani e pastori), le feste, i culti, le carestie, le pestilenze, insomma tutta la vita sociale della città nel Cinquecento e nel Seicento. L’indagine sulla vita quotidiana dei secoli scorsi può essere ampliata con la consultazione di un altro manoscritto dell’archivio, quello contenente gli Statuti e Capitoli che regolavano il governo della città. Sempre a Diano, ma questa volta anche ai casali che gli facevano corona, fa riferimento un fascicolo riguardante il funzionamento della corte baronale[10].

In ultimo ma non ultimi, tutta una serie di carteggi riguardanti il possesso dello jus patronatum della badia di San Nicola dei Greci o dei Carrano, nelle quali oltre a molte notizie sui luoghi pii e sulle chiese della città, sul loro funzionamento, sul numero degli ecclesiastici, si rinviene la prima notizia di un feudo nobile posseduto dalla mia famiglia nel XV secolo.

Per una più accurata descrizione dei materiali presenti nel nostro archivio è d’obbligo riferirsi alla scheda ad esso dedicata da Arturo Didier, in Diano città antica e nobile[11].

Qui mi limito ad elencare soltanto alcuni dei documenti offerti in mostra (per non privare i visitatori del piacere di scoprire la storia attraverso la lettura degli stessi), strettamente legati agli uffici militari e giudiziari di Francesco, Giambattista e Cono ed a quelli ecclesiastici ricoperti dai fratelli Luca, Luigi e Pasquale Carrano.

Uno dei documenti provenienti dal nostro archivio è la lettera spedita il 19 aprile 1799 per ordine del cardinale Ruffo, vicario generale dei Re, a Giovan Battista Carrano, contenente l’ordine alle truppe dell’Armata Cristiana che trovandosi a passare per Diano non avessero in alcun modo a molestare la città in onore dei fratelli Carrano. Un altro documento messo a disposizione è il giuramento prestato il 5 febbraio 1799, alla presenza del notaio Paolo Matera, da alcuni fedelissimi aristocratici dianesi, che promettevano solennemente di mettere in pericolo le loro vite, i loro beni, le loro famiglie ed infine di spargere il sangue dei nemici del Trono, per amore della reale persona di Ferdinando IV. Documento eccezionale, che testimonia l’asprezza della lotta politica ed armata, e che si contrappone ad un altro documento, sempre stipulato dal notaio Paolo Matera, contenente la dichiarazione di fedeltà alla Repubblica, fatta dai giacobini di San Rufo il 16 febbraio 1799.

Importante è anche un altra lettera del Cardinale Ruffo, inviata questa volta al governatore della città di Diano il 7 maggio 1799, con la quale si avvertiva che, essendo Diano già “normalizzata”, il passaggio delle truppe regie non sarebbe avvenuto. Il cardinale infatti passò alle spalle del Vallo per giungere poi a Napoli.

In mostra vi è il proclama di Ferdinando IV datato 12 settembre 1799 con disposizioni sull’ordine pubblico, una relazione del giudice regio don Francesco Maria Carrano del 7 marzo 1800, le disposizioni per la formazione delle masse armate del 1° dicembre 1800. Quest’ultimo documento, di facile lettura, testimonia come l’emergenza non venisse considerata conclusa dal governo borbonico, che anzi si preparava a fronteggiare, sempre con il sistema delle truppe irregolari, la nuova minaccia napoleonica. Ancora si potrà vedere esposto il regio decreto di nomina di Giambattista Carrano a luogotenente, giudice, governatore del feudo di Capaccio, sequestrato al principe d’Angri dichiarato reo di Stato. Concludendo, la speranza è di aver contribuito, con l’apertura dell’archivio familiare e con queste poche pagine (pur senza essere “professionisti” della ricerca storica e possedendo una soggettiva e personale visualizzazione degli avvenimenti), ad una serena disamina di ciò che accade durante un periodo breve ma drammatico, denso di avvenimenti anche in una provincia lontana dalla Capitale.

 Il patrimonio archivistico di Teggiano e le fonti per la storia del 1799

Arturo Didier

Non a caso il più cospicuo, ma anche il più interessante, gruppo di documenti di questa mostra proviene dall’archivio Carrano di Teggiano, uno dei più importanti archivi privati della provincia di Salerno[12]. Da allora non pochi studi sulla storia medievale e moderna del Vallo di Diano hanno fatto riferimento ai documenti conservati in suddetto archivio, la cui consultazione è assicurata dalla sensibilità e dall’amabilità dell’illustre famiglia che, con una fitta serie di notai, giudici ed alti prelati, ha accompagnato lo sviluppo storico di Teggiano.

Ma il patrimonio archivistico di Teggiano annovera anche altri fondi, più settoriali ma non meno importanti, che vanno presi in considerazione, a cominciare dall’archivio diocesano nel quale trova posto, perfettamente custodita ed inventariata, una vasta documentazione riguardante la storia socio-religiosa del Vallo di Diano e delle zone limitrofe[13].

Ci sono poi gli archivi parrocchiali, quello di S. Maria Maggiore (la cattedrale), che è il più consistente, e quello di S. Andrea che conserva tra l’altro un registro di battesimo che si apre con un atto del 16 ottobre 1557.

Ed infine c’è l’archivio comunale che, nonostante le dispersioni verificatesi in varie epoche, contiene ancora una gran mole di documenti che andrebbero restaurati e inventariati, a cominciare dal voluminoso manoscritto che accoglie il Catasto onciario del 1754 di Diano (Teggiano dal 1862). Da quest’ultimo archivio proviene il Registro dei Parlamenti di Diano (1797-1801), esposto in mostra alle pagine in cui sono trascritti i resoconti di due assemblee cittadine, rispettivamente del 5 e del 10 aprile 1799[14]. La prima assemblea è convocata in seduta straordinaria da due comandanti sanfedisti, luogotenenti di Gerardo Curcio detto Sciarpa, giunti da Polla al comando di una banda armata per proclamare il ritorno ai Borbone e per chiedere minacciosamente aiuti (uomini e denaro) in favore della causa monarchica. La seconda, a cinque giorni di distanza, attesta che, fallito il moto rivoluzionario, a Diano è stata ripristinata la tradizionale amministrazione, capeggiata da Antonio Carrano, realista, il quale ha riunito il parlamento per procedere all’elezione dell’Ufficiale di Giustizia, ordinata, si badi, dal Comandante generale delle forze sanfediste, Rocco Studuti, che affianca Gerardo Curcio nell’opera di “normalizzazione” dei centri del Vallo di Diano.

Non meno importanti sono i resoconti delle altre sedute parlamentari che si trovano sullo stesso Registro e che permettono di far luce sui problemi che assillarono la comunità dianese prima e dopo la rivoluzione del 1799, il più importante dei quali è certamente quello della ripartizione dei terreni demaniali in parti eguali tra i cittadini, ripartizione che rappresenta il motivo ricorrente in questi verbali delle assemblee civiche.

Ma questo Registro riserva una sorpresa finale: al termine dell’ultimo verbale, girando pagina si trova, quasi come se fosse un’appendice, la copia di un documento del 17 maggio 1811, che è l’ordinanza con cui veniva stabilita, dal regio ripartitore Paolo Giampaolo, la divisione del demanio di Diano: atto ufficiale fondamentale, col quale si sanciva, per i beni fondiari ma anche per l’economia locale, il passaggio dall’ancien régime ai tempi moderni[15].

Va ricordato, inoltre,  che questo manoscritto dell’archivio comunale è collegato ai due preziosi manoscritti dell’archivio Carrano che contengono i verbali del Parlamento di Diano.

Il patrimonio documentario di Teggiano non finisce qui: dulcis in fundo, nella biblioteca del Seminario sono conservate ben 662 pergamene (secc. XII-XVIII) alle quali vanno aggiunte le 135 pergamene (secc. XIII-XIX) dell’archivio Carrano. Si tratta, come si vede, di un fondo pergamenaceo notevole, che peraltro è in corso di pubblicazione[16].

Montesano nel 1799: un esperimento di didattica alternativa

Teresa Rotella

“…Agnese Barbella, Cristina Russo e Maria Spinelli si erano riunite in cucina, dalla casa padronale dopo  un po’ vi giunse correndo Don Nicola Cestari scalzo e con la testa insanguinata, lo seguivano molti compaesani, fra cui Gaetano Abbatemarco che lo afferrò per il braccio, Valeriano Vignati ed Andrea Montemurro detto il “Quarantino”, i tre guardiani della grancia di Cadossa che dopo averlo percosso, e ferito ripetutamente, mentre ancora parlava gli recisero la gola e poi iniziarono a festeggiare, dileggiando e facendo scempio del cadavere. Alla fine dello scempio indicibile Domenico Larocca gli recise la testa e la conficcò su un palo che portò successivamente in piazza al posto dell’albero della libertà…”[17]

La vivezza del racconto della morte di Nicola Cestari, che le carte giudiziarie ci trasmettono, rende l’episodio tragico ma emblematico, pregno di significato se letto nel contesto generale della rivoluzione napoletana, alla luce delle contraddizioni umane e culturali del nostro meridione.

Il lavoro svolto per le celebrazioni del Bicentenario con i ragazzi della scuola media “Abate Giuseppe Cestari” ha inteso ricostruire un avvenimento che ha segnato la vita di antiche famiglie montesanesi, generando odi, rancori ed inimicizie, sopite solo dallo scorrere dei secoli. Sull’episodio di crudeltà fratricida è calato un velo di silenzio pietoso, che ha finito per coprire di oblio la stessa memoria dei fatti. La ricerca ha permesso di ritrovare documenti minimi, ma di grande valore storico. Gli atti d’archivio non sono stati considerati solo fredde cronache di fatti storicamente avvenuti, ma piuttosto come testimonianza inconfutabile di un malessere sociale, che generava  ribellione al malgoverno e cercava le occasioni per punire soverchierie padronali. La tragicità e la grandiosità dei fatti non potevano essere presentate ai giovani se non sotto forma di un’attività didattica stimolante, come quella del “laboratorio del cantastorie”. Qui il fatto veniva smembrato in diversi episodi, affidati all’interpretazione ed alla rappresentazione di vari gruppi di ragazzi che, stimolati a riconoscersi nella “storia”, hanno ripercorso anche emotivamente l’iter dell’avvenimento: cause, eventi e conseguenze. Il successo ottenuto fa riflettere su questo: i giovani hanno saputo rivivere con maturità e responsabilità storica un fatto che giustifica, ancora oggi, atteggiamenti di riserbo, chiusura e diffidenza del cittadino montesanese.

Questa la cronaca tramandata dai documenti: dieci giorni dopo l’innalzamento dell’albero della libertà repubblicana, a Montesano  un  gruppo di facinorosi, in esecuzione di un disegno criminoso minuziosamente studiato, uccide Nicola Cestari, capo della municipalità, ed in segno di estremo oltraggio, dopo avergli reciso la testa, mangia un pezzo delle sue guance dopo averle arrostite! Nicola Cestari, persona facoltosa ed avveduta, aveva larghe aderenze a Napoli, dove aveva studiato[18] e certamente aveva fatto un uso spregiudicato del suo potere: tutti i partecipanti all’omicidio, soprattutto gli Abatemarco, avevano vecchi motivi di rancore e risentimento nei suoi confronti. Ad esempio vi erano state polemiche durante le elezioni del 1798, che avevano fatto prevalere il “popolo basso” e che Cestari aveva fatto annullare e ripetere. Inoltre, in occasione delle leve forzate decise da Ferdinando IV per potenziare le truppe alla vigilia della guerra contro la Francia, Gioacchino Abatemarco aveva protestato perché, pur avendo un figlio sotto le armi, il Cestari ne aveva fatto partire un altro. Infine, in una vertenza sorta per questioni agrarie tra contadini montesanesi e certosini padulesi, il capo della municipalità si era schierato dalla parte dei monaci. Sia ben chiaro: tutto questo non può servire a giustificare un eccidio, soprattutto con modalità così feroci, ma serve a comprendere il clima, la dimensione mentale .

Certo  le vicende del 1799 a Montesano sono esemplare testimonianza delle faide familiari, che costituiscono il filo rosso della storia delle comunità locali meridionali, soprattutto di quelle più isolate dalle grandi vie di comunicazione.

La ricerca realizzata con gli alunni della scuola, oltre a costituire un esempio di didattica della storia, ha cercato anche di fare uscire dall’ombra gli abitanti di Montesano di due secoli fa: poveri contadini e pastori, per eredità feudale costretti a divenire il braccio armato dei potenti locali.

Repubblicani e sanfedisti a Sala nel 1799: la ricchezza delle fonti ecclesiastiche

Giuseppe Colitti

Se a Montesano nel 1799 la lotta tra fazioni, o meglio tra famiglie, giunse alla drammatica aberrazione del cannibalismo, Sala, allora sede vescovile e feudo di Diano, registrò, a quanto pare, il maggior numero di saccheggi e di morti ( 16 quelli rilevabili dai registri parrocchiali, non tutti, purtroppo, conservati) e l’incendio della biblioteca di uno studioso di diritto, un riformista di scuola genovesiana, il sacerdote Diego Gatta che, oltre alla raccolta pubblicata dei Dispacci reali, ha lasciato ampia traccia di sé nel Registro delle pubbliche conclusioni della parrocchia ricettizia di S. Stefano, di cui era partecipante. Se l’uccisione del nipote Michele è sicuramente dovuta alla dichiarata fede repubblicana, più cauta appare la posizione di Diego che, pur difendendo un istituto corporativo di tipo feudale come la chiesa ricettizia, aveva preso una posizione riformistica anticuriale contro la manomorta, e di denuncia del mancato rispetto del catasto onciario: non condivideva gli eccessi repubblicani di altri preti come Nicola Bosco, che inveisce contro il sovrano, ma era quasi certamente malvisto in ambito ecclesiastico, dove la chiesa ricettizia rappresenta un ostacolo per il pieno controllo sull’accesso al sacerdozio.

E’ certo che le idee di uguaglianza e libertà erano arrivate da tempo anche a Sala come, con tutta probabilità, nel resto del Vallo di Diano: libri della cultura illuministica arrivarono anche qui, nonostante i divieti del re e gli ammonimenti dei vescovi, pel tramite dei pochi che si recavano a studiare presso l’università di Napoli. La spezieria del notaio Giovanni Cioffi era una sorta di circolo di repubblicani, dove il sacerdote Nicola Bosco, curato economo della parrocchia di S. Eustachio, leggeva proclami contro il re e in lode della Repubblica; il Cioffi ed altri fecero pubblica illuminazione con lanterne recanti le lettere L (Libertà) e E (Eguaglianza). Qualcuno, come il sacerdote  Michele Venere e Alessandro Petrini, aveva preso contatti coi Francesi al loro arrivo a Roma; e così il vicario generale Filippo Grammatico, che aveva ricevuto sin dal maggio 1798  Vincenzo Origo, di Sarno, futuro commissario repubblicano. Qualche altro, come Angelo Russo, si era recato più volte in Francia; Filadelfo Bove, che «andava di zazzera e barbetta alla giacobina», si diceva essere stato discepolo del LaubergAltri li seguirono, apponendosi la coccarda tricolore, imponendola ad altri, come agli stessi cappuccini, o difendendola a oltranza.

A Sala, come altrove, troviamo schierati sacerdoti dalla parte dei repubblicani accanto alla borghesia illuminata, e sacerdoti da quella dei sanfedisti. Lo stesso vicario generale della diocesi, che aveva la curia nel palazzo vescovile di Sala, Filippo Grammatico, era repubblicano, mentre il vescovo di Capaccio Torrusio era, col vescovo di Policastro Ludovici, plenipotenziario del cardinale Fabrizio Ruffo.

A Sala risultano, tra i beni sequestrati ai rei di stato, anche quelli di Francesco Caracciolo, dalla cui rendita fu in parte ricompensato il colonnello borbonico Alessandro Schipani.

Nella notte del 27 febbraio Michele di Donato, di Polla, inviato da Gerardo Curcio detto Sciarpa, svelse l’albero della libertà eretto pochi giorni prima, e tenne a Sala il campo con saccheggi e uccisioni per alcuni mesi, da marzo a ottobre: l’ultimo atto di violenza fu compiuto contro il sacerdote Mariano di Vita, accoltellato nel sonno, dopo essere stato derubato. Nicola Bosco restò a lungo nascosto, fino a quando non poté uscire con la protezione del vescovo Torrusio.

Il conflitto tra Stato e Chiesa, che passava anche attraverso la gestione delle chiese patrimoniali ricettizie come quella di S. Stefano a Sala, dovette lasciare un’impronta forte nei fatti del ’99. Di lì a pochi anni, col ritorno dei Francesi e l’eversione della feudalità, la situazione del paese, che dipendeva da Diano, mutò radicalmente; Sala divenne uno dei quattro capoluoghi di distretto della provincia di Principato Citra (poi, con qualche variazione, provincia di Salerno). E’ qui, molto probabilmente, la sua radice di centro della massoneria e dei relativi movimenti risorgimentali nel Vallo durante le vicende che porteranno all’unità d’Italia.

Dopo la distruzione dei moltissimi documenti di Stato per volere del re, e dopo le perdite subite dagli archivi durante la seconda guerra mondiale, acquistano grande importanza i documenti ancora reperibili in periferia, negli archivi parrocchiali e negli archivi delle famiglie private, per capire meglio lo sconvolgimento del ‘99 che investì tutto il Regno di Napoli, anche le aree più interne, dove una sia pure sparuta minoranza intellettuale cercava di scalzare il colosso feudale e di rinnovare dalle fondamenta lo Stato.

Si tratta di cercare di ricostruire i tasselli mancanti per venire a capo di una situazione che, con tutti i suoi limiti, resta alla base dei cambiamenti successivi.

fonte

https://www.sab-campania.beniculturali.it/wp-content/uploads/eventi/1999/Vallo%20di%20diano/padula.html

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