Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

Piccoli borghi in Terra di Lavoro: Ventosa di Giuseppe Mazzella

Posted by on Dic 20, 2024

Piccoli borghi in Terra di Lavoro: Ventosa di Giuseppe Mazzella

Già il nome rinvia non solo al vento che qui soffia impetuoso, ma all’inarrestabile trascorrere dei secoli. Ventosa, infatti, piccolo borgo, frazione del Comune di Santi Cosma e Damiano, in provincia di Latina, posto sulle colline che dominano la valle segnata dal Garigliano che divide oggi il Lazio dalla Campania, non è solo “paese fatto di sassi e di vento, di ulivi e di strame”, ma paese antico dalla storia avvincente, benché poco nota, che merita di essere ricordata.

Le colline calcaree su cui si distribuisce l’abitato, un gruppo di case oggi in gran parte disabitate, ha tratto da se stessa la materia prima con cui edificarsi.

La pietra bianca avorio scurita dal tempo, impreziosita da venature gialle e rosse, tenute su dalla calce prodotta in loco, con le tradizionali calecare, risplende nella magnifica e orgogliosa torre medievale che è posta all’ingresso del paese; bianche le case strette le une alle altre, alcune delle quali portano ancora il segno dei bombardamenti della seconda guerra mondiale; bianca la facciata della nuova chiesa, eretta nel dopoguerra dalle rovine di quella antica dedicata a San Martino; bianchi i selciati dei vichi benché anneriti e corrosi dal tempo che innervano il monte in una fitta ragnatela.

Ventosa è anche paese di strammari, i lavoratori di strame, l’erba ruvida e tenace (Ampelodesma tenax), con cui per secoli sono state fabbricate ceste, basti e utensili per l’agricoltura. Quasi ogni casa ancora oggi conserva davanti l’ ingresso, segno dell’antico mestiere, una grossa pietra utilizzata dalla famiglia per lavorarlo. Fino a qualche decennio fa, infatti, la lavorazione dell’erba dalle foglie lunghe e fibrose era un’attività praticata da tantissime persone, soprattutto donne, e costituiva un introito suppletivo ai magri prodotti della terra.

Oggi, specialmente se si visita il borgo nelle ore pomeridiane, un lucore diffuso lo avvolge in un’atmosfera irreale e piena di silenzio che ne fa quasi un luogo fuori dal tempo.

Ad accentuare il fascino del luogo vaste cavità sotterranee, tra cui la Fossa di zì Chiara, la Puzzola, Glio Lao (lago), Gli puzzi della terra rossa, che in gran parte non sono state ancora del tutto esplorate e che, in passato, sono state utilizzate come buche di raccolta per animali morti.

Gli stessi toponimi, Monterugno, S. Maria glio Monte, Montreagno, Ceschito, Cianelle e Campeteglio, rinviano ad una frequentazione assidua dei luoghi sin dai tempi più antichi.

Il borgo, infatti, era già abitato in epoca preistorica, e fu tra le stazioni dei camminamenti in epoca romana. Il centro assunse però una certa importanza solo con la nascita di un piccolo eremo benedettino, cellae, fondato dallo stesso San Benedetto, che vi sostò mentre era in viaggio verso quello che diventerà poi Monte Cassino.

Ventosa, grazie alla sua posizione, diverrà dall’830 un importante presidio bizantino dipendente da Gaeta, città ricca e con sede vescovile, per diventare poi, assieme a tutta la vasta area che arriva fino al Garigliano e oltre, parte di quella che fu chiamata “Terra di San Benedetto”. Su queste colline avevano trovato rifugio nei secoli molte famiglie della pianura, per sfuggire alla malaria e alle invasioni barbariche. Saranno, infine, i Longobardi, dopo anni di guerre e di guasti, a stabilirvisi permanentemente e a praticare e a diffondere l’agricoltura.

Dell’importanza del piccolo borgo e dei suoi abitanti si rileva anche, tra l’altro, dalle carte di una controversia tra il vescovo di Gaeta, Giovanni, e il papa Gregorio IV, agli inizi del IX secolo, per la cui risoluzione fu richiesta la presenza di un giudice originario di Ventosa, tale Siceramit, dal probabile nome bizantino Attorno all’anno mille, accanto all’originario piccolo centro monastico, fu eretta una chiesa dedicata a San Giovanni Battista. Ventosa, infatti, si trovava sulla tratta per Cassino, alternativa e più breve, alla via con relativo pagamento di pedaggio Formia-Ausonia.

Molti dei terreni dei vicini paesi come Suio e Santi Cosmo e Damiano – questo il nome originario – passarono attraverso donazioni dal conte di Suio e dei suoi eredi nel 1084 in proprietà al monastero di Montecassino che potè così “confortare” l’eremo di Ventosa con un terreno da coltivare da servire alla sopravvivenza degli stessi monaci. Presenza che è attestata fino alla fine del trecento, quando il centro fu abbandonato e l’intero possedimento passò nella mani della curia romana.

Anche il Cinquecento riserva per Ventosa una bella sorpresa: l’amore del poeta Elisio Calenzio (1430-1503) della vicina Fratte, oggi Ausonia, il cui sepolcro si trova nell’antica chiesa di S. Maria del Piano, che compose per la bella ventosara Aurimpia, forse uno pseudonimo, in puro stile pontiniano versi come questi : «…Vorrei essere tuo e Ventosa protegga il nostro amore, o fanciulla diventata Diana agli occhi miei».

Tra la fine del XIV e e la prima metà del XV Ventosa ebbe finalmente un monastero ben organizzato che prese il nome di Monasterium Sancti Martini. A quel periodo risale un dipinto su legno, un trittico, rappresentante una Madonna con il bambino tra San Benedetto e S. Germano, che dal popolo fu subito definita “del Riposo”, alla quale ancora oggi ogni 8 settembre è dedicata la festività maggiore del paese.

La chiesa era orientata, come quella attuale, ad Est, e aveva a destra un chiostro con al centro un pozzo, secondo la tradizione benedettina, chiuso da un lato da un massiccio campanile quadrato. Dopo un periodo di fioritura, fu successivamente abbandonato e cadde in rovina. Chiesa e cellae, infatti, erano in

un penoso degrado, come risulta da una nota della visita pastorale del 1722 del vescovo di Gaeta, Carlo Pignatelli.

Il colpo di grazia a tutto l’insieme fu dato nella Pasqua del 1799 dall’azione punitiva delle truppe francesi contro la popolazione fedele al Re borbonico, sostenute e comandate dall’itrano Michele Pezza, detto Fra’ Diavolo. I francesi non solo devastarono chiesa e monastero, ma ne rubarono tutte le suppellettili.

Gli abitanti di Castelforte, di San Cosmo e Damiano e Ventosa, infatti, armati di bastoni, forconi, o di semplici pietre, erano riusciti in un primo tempo a disperdere le truppe francesi. Ma fu una vittoria momentanea, perché i transalpini tornati con ben 1500 soldati, l’ebbero vinta e la popolazione fu costretta a trovare scampo sui monti e nei paesi vicini. Ma anche questa fu una vittoria momentanea, perché le truppe napoletane, riuscirono in seguito ad allontanare quelle truppe che avevano arrecato a Ventosa solo danni, trucidando senza pietà uomini, donne e bambini.

In seguito, per premiare la fedeltà dei ventusari, il re borbonico, tornato sul trono, autorizzò nell’ottobre del 1814 il vescovo di Gaeta a creare finalmente una parrocchia, intitolata a S. Martino, la cui sopravvivenza sarebbe stata garantita dalle rendite di alcuni terreni.

Molto interessante anche la storia della torre, eretta in stile romanico con base quadrata, risalente al Medioevo, tra il XII e il XIII secolo (fig. 1). Alta 24 metri, eretta in pietra calcarea, era anche una torre cisterna, convogliando l’acqua piovana attraverso una feritoia al primo piano, dove una botola ne permetteva il prelievo.

Torre di avvistamento, in linea con quelle di Castelforte e Suio, che avevano lo scopo di controllare la zona Nord, cioè dal lato di Coreno, Cardito e Aurito, così come quelle di Traetto (oggi Minturno) e le altre costiere avevano la funzione di controllare gli arrivi dal mare.

La torre di Ventosa, come quella di Castelforte, molto probabilmente fu fatta erigere dai conti Dell’Aquila, nobili di origine normanna. Proprietà che passò, assieme alla torre, con quella di Castelforte nel 1491 ad Onorato II Caetani.

La storia della torre non finisce qui. Dopo un abbandono di secoli, nel 1920, il parroco don Minervino Perrino segnalava la necessità di necessari restauri, che furono fatti però solo nel 1930. A seguito di un spaventoso fulmine che vi si abbatté il 23 gennaio di quell’anno, che fece rovinare il lato Nord, furono necessari, infatti, lavori urgenti per la messa in sicurezza.

Un altro grave colpo vi fu arrecato l’11 novembre del 1943, quando Ventosa si trovò tra tedeschi occupanti Ventosa e le truppe alleate che con 17 cannonate –poi si dice che certi numeri portano sfortuna – buttavano giù il campanile della chiesa, arrecavano gravi danni alla torre, oltre a distruggere numerose abitazioni, specie quelle più esposte di Via Profugne, alcune delle quali mai più riedificate.

Bisognerà attendere il 1953 perché il Genio Civile di Latina provvedesse a sistemarla, ma riducendola di cinque metri per motivi di staticità. Il definitivo restauro fu, infine, fatto successivamente, con il ripristino della finestra originaria, che era stata chiusa, delle scale e del solaio di copertura, mentre veniva eliminato il pluviale e la raccolta d’acqua nella cisterna incorporata non più necessaria, e vi fu installato anche un parafulmine.

La torre medievale di Ventosa

Anche la storia dei parroci della parrocchia di San Martino illumina grandi vocazioni come quella di don Camillo Gaveglia, al quale si devono le prime registrazioni dei battesimandi, il ripristino della chiesa e il restauro della tavola quattrocentesca della Madonna e San Benedetto, che affidò al più grande pittore locale del tempo, Andrea Mattei (1744-1823). Allo stesso artista commissionò in seguito anche una tela in onore di San Martino, che è andata però distrutta assieme alla Chiesa durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale. Anche dell’antico e prezioso trittico si sono perse misteriosamente le tracce negli anni sessanta.

L’edificazione della nuova chiesa si deve al lavoro operoso di don Giacinto Minervino che, per motivi di economia, dovette però rinunciare alle tre navate originarie, e riedificarne una sola. Un grande affresco fu poi realizzato dietro il coro dal famoso pittore locale Aldo Falso, che lo dipinse gratuitamente.

La chiesa ospita oggi anche una tela del pittore Giorgio Quaroni che rappresenta San Martino.

Tra le presenze illustri di passaggio a Ventosa va ricordata anche la permanenza, ospite della famiglia Gagliardi, del futuro santo Gaspare Del Bufalo.

Ventosa fu anche terra di briganti. Dopo la sconfitta del 13 febbraio 1861 di Francesco II di Borbone, inutilmente asserragliato con le sue truppe nella fortezza di Gaeta assieme alla regina Maria Sofia, sorse un moto spontaneo, alimentato anche dallo stesso re, di diversi contadini che si ribellarono ai nuovi padroni Savoia. Ci fu in verità chi combatté e aiutò i briganti e chi vi si oppose: una guerra fratricida che lasciò sul terreno più di un morto.

Intanto i contadini cominciarono lentamente ad abbandonare il paese, diventato scomodo per la lontananza dai terreni da coltivare, trasferendosi nella pianura dove costruirono nuove masserie che in seguito, trasformate in civili abitazioni, daranno vita ai nuovi borghi come Cerri Aprano, Parchetto, Campanili, Volpara. Gli abitanti possidenti, che rientravano in paese solo in inverno, avevano le case più comode nella parte alta del paese, mentre i più poveri vivevano nelle parti basse e dirupate: abitazioni malandate, senza nessuna comodità, nelle quali entrava il vento e la pioggia e dove i bambini facevano fatica a raggiungere la pubertà. Chi restava in paese doveva continuare ad accontentarsi di una vita grama e stentata.

In quei difficili anni anche le scuole erano disadorne, fredde e umide, con quattro alunni per banco. Pochi maestri e maestre coraggiosi, sfidando spesso l’inclemenza del tempo, si arrampicavano su una impervia mulattiera per raggiungere il paese e assicurare a bambini malnutriti e sporchi, le nozioni essenziali. All’avvicendamento di questi veri pionieri dedica pagine bellissime, tra le altre, l’insegnante Erasmo Falso nel suo intenso libro Ventosa antico paese del Sud.

Finita la guerra, la popolazione cercò di riedificare quanto era possibile, e per un momento sembrò rinascere, tanto da raggiungere gli 800 abitanti. Fu però una breve stagione. L’agricoltura su quei terreni arsi e scomodi non poteva più garantire una vita dignitosa. E cominciò la diaspora verso paesi lontani, con il sogno comune per tutti gli emigranti di ogni tempo di ritornare benestanti per poter vivere gli ultimi anni nel paese natale.

Famiglie intere si trasferirono in Brasile, Argentina, Stati Uniti, Australia, Canada. Molti andarono in Francia, Belgio, Germania, Inghilterra. Altre si spostarono a Latina e a Roma, dove un impiego fisso assicurava maggiori garanzie economiche e una vita più comoda. Nel paese, sempre più abbandonato e

dissestato, rimasero solo le persone più anziane o chi si era impiegato nell’unica industria realizzata nelle vicinanze, la fabbrica di autoadesivi sorta nella piana di Grunuovo. Quelli che resistevano ostinatamente cercarono di far rivivere la lavorazione dello strame, che sembrava aver riguadagnato un mercato fiorente specie tra la prima e la seconda guerra mondiale, quando una società di Gaeta, la Gallinaro, commissionava agli strammari le solide sporte idonee atrasportare il carbon fossile.

Con il passare del tempo anche questo antico lavoro, che garantiva un utile prezioso e al quale collaborava tutta la famiglia, bambini compresi, cedette all’era della plastica. Per sopravvivere si trasformò da lavoro vero e proprio in attività artigianale, con la creazione di cappelli, tappeti, cestini, souvenir. Delle cinque poteche (botteghe) che vi erano prima della guerra, non ne restava più nessuna. Neanche il nascente turismo riuscì ad alimentare nuove speranze.

Della scomparsa lenta ma inesorabile di quella che è nota come la civiltà contadina, ne parlano nei loro libri in maniera accorata gli scrittori Alessandro Petrucelli che, pur nato a Cerri Aprano, ha le radici della sua famiglia nel borgo e Rodolfo Di Biasio (1937-2021), ventusaro doc, orgoglio e vanto del paese.

Sono tornato in agosto a Ventosa, e ho scoperto con tristezza che anche gli ultimi strammari come Adelma Rocco e Elisio Rocco, ormai avanti negli anni, avevano abbandonato l’attività. Anche Pasquale Casale, tra gli ultimi artigiani a tener viva la tradizione, ha dovuto abdicare per problemi di salute, senza però rinunciare a trasferire il testimone alla figlia Samuela, che ha aperto un negozio di artigianato nella vicina Sperlonga, in cui propone anche un profumo realizzato con lo stesso strame dal nome rievocativo di “Strammare”.

Oggi sulla piazza principale di Ventosa, intitolata a San Martino, c’è un piccolo chiosco all’ombra della torre, che ospita pochi avventori e tutti anziani. Ho chiesto ad uno di questi quanti fossero gli attuali abitanti di Ventosa: 102, è stata la pronta risposta. Un numero veramente irrisorio per un borgo che pure ha avuto la sua storia. Eppure basta una passeggiata nel dedalo dei vicoli per scoprire angoli suggestivi da quinte di teatro, che si presterebbero benissimo a set cinematografici, dove si ergono costruzioni modellate sulla natura originaria e impervia delle rocce, in cui inaspettati fanno la loro bella figura edifici imponenti benché abbandonati, come quello di Palazzo Di Rienzo, nel quale qualche anno fa si era sperato di creare un piccolo museo della stramma.

Un’altra occasione perduta. Oggi possiamo solo goderci un tuffo nel tempo, reso ancora più fascinoso proprio da quel silenzio al quale noi moderni non siamo più abituati.

L’augurio è che si faccia di tutto perché questo piccolo borgo non venga del tutto abbandonato.

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