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Pino Aprile, la musica del Regno ha creato il Jazz

Posted by on Gen 5, 2019

Pino Aprile, la musica del Regno ha creato il Jazz

La musica nasce dal dolore e talvolta tocca pure il cuore di chi lo provoca.
Pensate agli schiavi neri dei campi di cotone in Louisiana: dal loro patire sorsero gli spirituals; e da quelli, quasi tutto il resto. Sul quale, però, c’è qualcosa che ci riguarda. «Gli Stati Uniti dopo aver acquistato la Louisiana dalla Francia (nel 1803; nel 1812 divenne il diciottesimo Stato dell’Unione; N.d.A.) offrirono la terra gratis ai coloni. E molti si mossero dall’Italia. Ancora oggi, la più antica salsamenteria siciliana d’America è a New Orleans» racconta Renzo Arbore, che sulla città e la sua musica ha girato un sorprendente film-documento di un’ora e mezzo, per la regia di Riccardo Di Blasi. Fra il 1850 e il 1870, a New Orleans c’erano più cittadini nati in Italia, che in qualsiasi altra città degli Stati Uniti: con l’abolizione della schiavitù in America e l’estrema miseria a cui, dopo l’Unità d’Italia, fu ridotto il nostro Sud, arrivarono tanti meridionali, specie siciliani; presero il posto dei neri, nei campi di cotone: il rango di schiavo volontario era divenuto preferibile a quello di libero cittadino meridionale d’Italia. Quei contadini introdussero ed estesero coltivazioni specializzate, come le fragole, generarono ricchezza. Non fu l’unico campo in cui si fecero valere.
«C’era una nave che faceva la spola fra Sicilia e New Orleans» narra Arbore «e quale che fosse, di volta in volta, il suo nome, la chiamavano Nave-Palermo: dall’isola portava agrumi ed emigranti; dall’America, cotone. Su quel bastimento salirono pure tanti musicisti; molti di Salaparuta.»
Erano bandisti, avevano da raccontare, con la propria, la fuga e la disperazione di un popolo che non si era mai mosso dalla sua isola, e fu ridotto in condizioni tali, dopo il 1860, che un siciliano su tre se ne andò. A New Orleans incontrarono altri musicanti, nati lì da genitori italiani. La città era feroce con i nostri connazionali: «Gli individui più abietti, più pigri, più depravati, più violenti e più indegni che esistano al mondo. Peggiori dei negri, più indesiderabili dei polacchi» secondo il sindaco. La più seria crisi diplomatica di sempre, fra Stati Uniti e Italia, durata anni, con il ritiro del nostro ambasciatore, si ebbe allora, per il linciaggio di undici connazionali, avvenuto in carcere, a opera di migliaia di “onesti” e impuniti cittadini, delusi per l’assoluzione degl’italiani accusati dell’uccisione dello sceriffo (amico e forse qualcosa più, di mafiosi siciliani tesi alla conquista del controllo delle operazioni di carico e scarico nel porto).
E quei nostri musicanti, quasi tutti siciliani, considerati come i neri, come i neri suonavano e i neri sfidavano, nella mitica Congo Square. E fu così che, improvvisando, improvvisando, inventarono il jazz. «Avevano nomi… pensa, c’era pure un Riina» mi dice Arbore «e Leon Rappolo, Salvatore Sbarbaro, Frank Signorelli, Tony Massaro, Louis Prima (quello di Bonasera, segnorina, bonasera…), Peter Rugolo. Si facevano chiamare, magari, e bada che non vado in ordine cronologico, Eddie Lang o Tony Scott, al secolo Antonio Sciacca, o Jack “Papa” Laine, ovvero George Vitale. Il primo al mondo a usare la chitarra per il jazz fu Salvatore Massaro, di origine molisana; con lui capitò, chissà come, uno di Bergamo, Joe Venuti: fu il primo violinista jazz. Ho avuto il piacere di suonare con lui. Erano tanti, una settantina e anche più, in band diverse. Ma il più famoso fu Nick La Rocca, trombettista e cornettista geniale, dal difficile carattere, leader della Original Dixieland Jass (solo in seguito divenne Jazz, per impedire, pare, con ass, “culo”, sconci giochi di parole) Band. Il primo disco jazz della storia è suo: facciata A Livery Stable Blues, facciata B Dixieland Jass Band; è suo Tiger Rag, un classico. Gli Stati Uniti hanno sottaciuto l’apporto italiano alla nascita del jazz, per far risaltare di più il proprio. E qualcuno si stupisce, quando sente dire che il jazz italiano è ancora oggi il primo o il secondo del mondo. Per forza, sono stati loro a inventarlo, con i neri di Congo Square, a New Orleans!»
Renzo ha ricostruito l’epopea di quei nostri musicisti emigrati e ripercorso i luoghi della loro impresa, da studioso del tema (e praticante con la sua Orchestra Italiana) e da pellegrino identitario; in Italia non li conosce quasi nessuno, ma nel cimitero di New Orleans le tombe dei terroni che fecero il jazz sono onorate. «Lo stesso Louis Armstrong, nella sua biografia, scrive che uno dei modelli a cui si ispirò, per diventare il Grande Satchmo, fu Nick La Rocca» ricorda Arbore. Di quei disperati che (specie dopo il 1870) fuggivano da un Sud reso invivibile dalla violenza con cui fu trattato, l’Italia sembra non voglia sapere nemmeno i successi. Immaginate cosa farebbero i francesi (e ce n’erano che suonavano a Congo Square), se il jazz avesse avuto padri marsigliesi o bretoni.
Ma pure questo, nel generale moto di recupero della propria storia, viene riscoperto e rivalutato. A Salaparuta, da dove mossero molti di quei musicisti, ogni anno, organizzano una festa-concerto. «Il figlio di Nick La Rocca, 70 anni, trombettista, è degno di cotanto padre» assicura Arbore «e io vado a suonare con lui.» Renzo ama proporsi come uno scanzonato adolescente a vita, ma lo avete capito tutti che non è così, vero? La storia del suo paese e del Sud la conosce bene, ne cerca le eccellenze.
E si è fatto ambasciatore della musica che nacque da quei meridionali costretti a emigrare: dal primo jazz dei neri di Sicilia, alle melodie dei napoletani sradicati («Ma i due italiani più amati degli Stati Uniti erano pugliesi: Rodolfo Valentino, di Castellaneta, Taranto, e Fiorello La Guardia, di Foggia, primo sindaco italiano di New York, figlio del direttore della banda dell’Aeronautica, originario di Cerignola. Fu lui a finanziare la costruzione dell’ospedale di San Giovanni Rotondo, voluto da padre Pio. Con i soldi dei fedeli americani, dissero. Ma, allora, del frate con le stimmate, non sapevamo niente noi, a Foggia, figurati a New York. Poi venne fuori che l’ospedale avrebbe dovuto servire ai militari della nato e degli Stati Uniti, in caso di guerra con l’Unione Sovietica: il più importante aeroporto militare intercontinentale, Amendola, è a soli 10 chilometri da San Giovanni Rotondo.»).
C’è un dettaglio che sembra fatto apposta per collegare l’esperienza canora partenopea di quegli anni a quella, distantissima, dei siciliani di New Orleans. «Il jazz» spiega Renzo «nasce per evoluzione degli spirituals, dei gospel, ma la sua fonte primaria furono i calls, i richiami “di lavoro” cantati nei campi di cotone. Come quelli degli acquaioli, a Napoli, per dire, dei venditori d’acqua (’a fronn’e limone) e non solo. Le elaborazioni di quei richiami potevano portare, e lo fecero, a risultati impensabili. Il personalissimo stile di Sergio Bruni, per esempio, derivava da quelli.» In particolare, a partorire il genere e la tecnica era «la vierola,» spiega Citarella «che è la modulazione di chiusura dei richiami degli ambulanti. A fare i pignoli, trattasi della “espressione declinante del vibrato”».
Capito, sì? Gli acquaioli a Napoli e i neri in Louisiana.
Fra i valori persi dal nostro Paese con la diaspora dei meridionali, metteteci pure questo. Anche se la musica nasce con un passaporto, ma diventa apolide, di tutti. «Un pugliese, di nome Eugenio, emigrò a Nizza. Faceva un lavoro poverissimo: raccattava e legava fascine al mercato dei fiori. Ma era un grande suonatore di mandolino; e nel 1886 fondò un’orchestra di mandolini. Ancora oggi, a Nizza, c’è la più grande scuola per mandolinisti: ce ne sono circa 150.000, nel solo quadrilatero Nizza-Arles-Marsiglia-Bordeaux» narra Citarella, in partenza per un concerto, proprio lì.

Pino Aprile

estratto dal libro di Pino Aprile “Giù al Sud”

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