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Pino Aprile: meglio terroni che carnefici

Posted by on Gen 9, 2019

Pino Aprile: meglio terroni che carnefici

FRASCATI (Roma). Una quarantina di ulivi pugliesi di razza purissima e undicimila libri. Giuggioli e corbezzoli, uvaspina, lamponi, piante officinali, sorbe, amarene, salvia, menta, mentuccia e rosmarino. Un telefono in continua ebollizione meridionalista, visto che Pino Aprile, giornalista di storia e di rango, si sciroppa almeno 150 conferenze all’anno sulle malefatte dei piemontesi ai danni del Meridione e dei meridionali («ma perché poi ci chiamano “meridionali”? Che parola è? Noi siamo napoletani, pugliesi, calabresi, lucani, siciliani, irpini, sanniti e salentini. “Meridionali” è una non identità»).

È la cornice (appena fuori Frascati) e il quartier generale del Braveheart del Sud, l’uomo a cui decine di associazioni, movimenti e partitini vorrebbero affidare il riscatto civile, politico e economico del Sud Italia. Nel 2013 riuscirono a trascinarlo a Bari in una grande convention nella speranza di incoronarlo leader di un nuovo movimento unitario. Ma Pino Aprile fece il gran rifiuto. «Io sono uomo di informazione e quindi ho progettato un quotidiano del Sud che prima o poi farò. Ma non me la sento di tuffarmi nella politica attiva». Con gran sollievo dei due più solidi condottieri meridionalisti, il presidente della regione Puglia Michele Emiliano e il sindaco di Napoli Luigi De Magistris, a cui Aprile avrebbe forse potuto sfilare il vessillo del riscatto.

Aprile, e se glielo chiedessero di nuovo oggi?
«Direi sempre di no. E poi, se un giorno decidessi di impegnarmi in un intervento politico vorrebbe dire che la situazione è precipitata e il Paese è sull’orlo dell’abisso». La teoria dell’abisso italiano ha assunto di recente numerose forme (la catastrofe etnica, l’incompetenza al potere, il separatismo lombardo- veneto), ma non ancora quella della riscrittura completa del Risorgimento e della rivendicazione meridionalista. Anche se in realtà è un bel po’ che Aprile, e non da solo, tiene viva questa brace. L’idea è che, se non si fanno i conti con la storia, se non si spiega che l’Unità d’Italia non è stata processo di unificazione bensì di allargamento del Piemonte, che non è stata fiduciosa fusione ma feroce colonizzazione costata decine di migliaia di vittime innocenti, stermini alla Pol Pot e distruzioni in stile cartaginese, non è stato progresso e benessere bensì saccheggio di una parte d’Italia che se la cavava egregiamente e non sentiva affatto la mancanza di Garibaldi. Se non si riesce a far questo non si va da nessuna parte.

Aprile parla, nei suoi libri (bestseller), di un dolore antico, di un’eco cupa che risuona nelle terre del Sud come il gemito dell’universo dal giorno del Big Bang. La terapia, secondo lui, è psicoanalitica. «L’Italia continuerà a soffrire fino al giorno in cui non raggiungeremo la consapevolezza della tragedia, e ne piangeremo tutti insieme. Dobbiamo capire che siamo nati divisi e che è stata una divisione a mano armata». Un po’ sul canovaccio di ciò che è successo in Sudafrica negli anni 90 con la Commissione per la verità e la riconciliazione che pose fine all’Apartheid.

A dire la verità, pur nel dramma storico raccontato da Aprile (e da numerosi altri ricercatori) nei suoi libri, spunta qua e là non solo l’eco del dolore ma anche quello del piagnisteo. È pur vero che il Piemonte invasore e malnato fece strage e terra bruciata e usò la fucilazione come rimedio di ogni male, ma è anche vero che sono passati più di 150 anni. In 60 anni, quel mucchietto di cenere che era la Germania del dopoguerra è tornata a guidare l’Europa. Possibile mai che le classi dirigenti meridionali siano così inette e distratte?

«Classe dirigente? Quale classe dirigente?» reagisce Aprile. «La classe dirigente del Meridione è coloniale, quelli che non si allineano al potere esogeno vengono eliminati. Gaetano Salvemini si candidò a Gioia del Colle e mafiosi e fascisti truccarono le elezioni per farlo fuori. Falcone, Borsellino, Rocco Chinnici, Giancarlo Siani, non erano forse classe dirigente? Li hanno ammazzati. Chi sono gli unici politici non assoggettati al potere centrale? De Magistris e Emiliano. E a chi fa la guerra il governo italiano? A loro».

«E poi, senta, questa storia che è passato tanto tempo va rovesciata. Noi non stiamo parlando di cose che sono successe 150 anni fa. Ma di cose che succedono da 150 anni, dall’indomani di un genocidio, e non uso questa parola per caso. L’identità meridionale andava cancellata. Ci sono scritti di ufficiali piemontesi che affermano: “sono napoletani e nemmeno se ne vergognano…”. È chiara l’idea?». Certo che è chiara. Ma è anche vero che le tesi di Aprile hanno trovato fieri contestatori, come lo storico torinese Alessandro Barbero che ha replicato colpo su colpo.

Aprile è un fiume in piena:  «La questione meridionale viene costruita prima con le armi e poi con politiche che tolgono al Sud per portare al Nord. Giustino Fortunato, l’apostolo supremo dell’Unità d’Italia, lucano, muore maledicendola: “Non c’è dubbio che la nostra condizione sotto i Borbone fosse profittevole e questi ci hanno rovinati. Sono porci, molto più porci dei porci nostri”». L’esito concettuale e interpretativo (e anche terribilmente assolutorio) di queste tesi è intuitivo. Se il Meridione d’Italia combatte con l’arretratezza sociale ed economica tutto nasce dalla ferita mai rimarginata dell’unificazione italiana. Il Nord piemontese è il carnefice e il Meridione la vittima. Anche dopo un secolo e mezzo.
«Guardi che il sistema di potere che nasce in quegli anni lontani è esattamente quello che regge ancora oggi il Paese.

Lo storico Francesco Benigno (docente all’università di Teramo) ha spiegato come la criminalità venne associata dal Piemonte sabaudo al potere politico ed economico. Nasce lì la mafia. Mafia, anzi  maffia, con due effe, è una parola piemontese. Certificata dall’Accademia della Crusca. La prima cosca mafiosa nasce nel 1963 a Monreale, creata dal questore di Palermo, che ci mette a capo suo genero. Lo schema è quello tutt’ora in voga. Fate i vostri traffici e commettete pure i vostri crimini, magari senza esagerare, ma arriverà il momento in cui vi chiederemo collaborazione. È qui che nascono i delitti politici, gli attentati contro gli oppositori e i nemici del sistema. Guardi che a me queste cose le spiegava Rocco Chinnici e io avevo 29 anni. Ma tutto questo nei libri di scuola non c’è».

fonte https://www.repubblica.it/venerdi/interviste/2017/09/27/news/ma_io_vi_dico_meglio_terroni_che_carnefici-176625681/

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