Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

POZZUOLI di ALFREDO SACCOCCIO

Posted by on Mar 26, 2018

POZZUOLI di ALFREDO SACCOCCIO

Pozzuoli, posta a 28 metri sul golfo omonimo, in provincia di Napoli, da cui dista 14 km., è un sito che vanta un passato di grandezza, fondato da esuli politici di Samo nel 528 a. C., sfuggiti alla tirannìa di Policrate. Essa fu chiamata Dicearchia, ovvero “governo della giustizia”.

Passò nel 421 a. C. sotto il dominio sannitico e nel 338 a. C. sotto i Romani, il cui fattivo interesse è testimoniato da una serie di opere monumentali ed architettoniche, anche se non le riconobbero la cittadinanza con diritto di voto. In questa plaga, giustamente valutata nella sua importanza politica, economica e strategico-militare, i Romani stabilirono le loro sontuose residenze e le loro delizie, cambiandole il nome in quello di “ Puteoli”, detta così per i pozzetti vulcanici della contrada, in cui si raccoglieva l’acqua delle numerose sorgenti termali presenti nel territorio. Nel 215 a. C. Puteoli venne occupata dal dittatore Quinto Fabio Massimo Cunctator (il “Temporeggiatore”), il salvatore di Roma nella seconda guerra punica, dopo la battaglia del Trasimeno, il quale vi impiantò un presidio militare. L’anno dopo la città pagò a caro prezzo l’invasione cartaginese, anche se Annibale non riuscì a conquistarla, nonostante che il condottiero africano avesse fatto riti sacrificali sulle rive dell’Averno, poco lontano.

Nel 194 a. C. vi fu dedotta, ad opera di Scipione, una colonia romana, costituita da trecento famiglie di soldati, e Pozzuoli divenne uno dei più rilevanti porti del Mar Mediterraneo, con un intenso traffico per l’Africa, la Sicilia ed alcune regioni dell’Oriente. Nel 126 a. C. il poeta satirico Gaio Lucilio la definisce “Delus minor” comparando lo scalo marittimo e commerciale puteolano a quello di Delo, la più famosa delle isole Cicladi, il cuore di una fittissima rete di scambi commerciali. Ai tempi dell’imperatore Augusto il suo porto era il più frequentato della penisola (vi entravano quotidianamente navi provenienti da Siracusa, da Taranto e da Messina, oltre che dall’Africa e dalla Grecia, e vi uscivano molte imbarcazioni che conducevano i viaggiatori a Napoli, a Capua e a Pompei) e il secondo del Mediterraneo dopo Alessandria d’Egitto, restaurato da Antonino Pio nel 139 a. C., a cui fu eretto, all’estremità di esso, un arco onorario. L’ampio e rinomato complesso portuale, che riforniva di grano e di materiali preziosi Roma, era stato distrutto, regnando Adriano, da una violenta mareggiata, che aveva rovesciato sei piloni del suo molo. Ciò viene attestato da molte iscrizioni, dalle quali si rileva che la città non cessò di prosperare fino all’età di Onorio, imperante dal 395 al 424 d. C..

Sotto i due imperatori, lungo il suo golfo, sorsero tantissime ville e costruzioni termali, ora sommerse dalle acque termominerali e per i movimenti oscillatorii del suolo, che ne hanno mutato il livello, con un andamento prevalentemente discendente, per cui la città antica è stata risucchiata dal mare.

Ottaviano Augusto, nel luglio del 36 a. C., mosse guerra, da Pozzuoli, contro il generale e uomo politico romano Sesto Pompeo, catturato e poi ucciso a Mileto alla fine del 35 a. C..

Nel 64 dopo Cristo Pozzuoli vide il passaggio di San Paolo di Tarso, l’apostolo delle genti, che, tornando dall’Africa, si recò a Roma, trovandovi dei “fratelli”. Gli incontri con alcune comunità cristiane a Forun Appii e a Tres Tabernae sono citati negli “Atti degli Apostoli”. Nel 305 vi subì il martirio San Gennaro e i suoi compagni puteolani, per la persecuzione aperta dall’editto di Gaio Aurelio Valerio Diocleziano (303). Il santo vescovo di Benevento, che visitava e confortava i cristiani prigionieri, fu imprigionato, a sua volta, assieme a Procolo, ora patrono di Pozzuoli, Eutichete ed Acuzio, condannato ad essere divorato dagli orsi, che, “riverenti si prostrarono a’ suoi piedi”, ma poi fu decapitato presso la solfatara di Pozzuoli, alla cui base la pietà dei napoletani gli diede sepoltura. Pozzuoli fu presa e saccheggiata, nel 410 d. C., dal re dei Goti Alarico e poi, quarantacinque anni più tardi, da Genserico, ferocissimo re dei Vandali. Nel 545 la città fu distrutta dal re degli Ostrogoti, il terribile Baduila, meglio conosciuto come Tòtila ”l’immortale”. I cittadini furono costretti a fuggirsene. Nel 715 vi comparve Grimoaldo II, duca di Benevento, che se ne impadronì mettendola a ferro e a fuoco. Nel X secolo Pozzuoli fu saccheggiata dai Saraceni e ancora saccheggiata e quasi interamente distrutta dai Turchi, nel 1550.

A Pozzuoli c’è uno dei più grandi anfiteatri di epoca flavia, il terzo in Italia per capienza, dopo il Colosseo e l’Arena di Verona, molto interessante per gli spaziosi sotterranei, dove venivano custodite le fiere e le macchine per i giochi. In un’occasione, questi furono presieduti da Augusto, che emanò la legge per cui dovevano assegnarsi posti riservati ai membri dell’ordine senatorio. Lo asserisce lo storico Svetonio. Costruito al tempo di Tito Flavio Vespasiano, a spese della Colonia Flavia Augusta Puteolana, alla confluenza della Domitiana, della Campana e dell’Antiniana, le principali arterie della Campania, l’anfiteatro misura metri 149 nell’asse longitudinale e 116 in quello trasversale, in grado di accogliere 35.000-40.000 spettatori. L’ellissi della cavea si apre tra le verdi colline della Solfatara e lo spoglio massiccio Gauro, ora Monte Barbaro, dove, nel 343 a. C., i Romani, condotti da Valerio Corvo, riportarono una vittoria sui Sanniti. Esso, tra tutti gli antichi anfiteatri, è senza dubbio il meglio conservato, anche se, nel corso dei secoli, è stato spogliato di splendidi marmi, di mosaici e di decorazioni di ogni sorta. Un sacello al primo piano del monumento conserva il ricordo dei martiri cristiani. Nonostante la distruzione, nel corso del tempo, del terzo ordine architettonico e di parte del secondo, l’edificio, orgoglio dei puteolani, potrebbe, ancora oggi, essere utilizzato, almeno nel periodo estivo, per rappresentazioni teatrali dei classici greci o di “pièces” moderne.

Di epoca augustea è l’altro anfiteatro, più vetusto dell’ “Anfiteatro Grande”, ma rivelatosi, ad un certo punto, inadeguato alle esigenze della città. Di esso rimangono rovine, come pure abbiamo i ruderi del cosiddetto “tempio di Nettuno”. In realtà, trattasi di terme romane, dalle qualità salutari, sorte nel 90 della nostra era, per cui Pozzuoli fu la più rinomata stazione termale dell’antichità, prospera soprattutto nel primo secolo dell’Impero.

Da vedere a Pozzuoli, un tempio in tufo, di età sannitica (II secolo a. C.), ma soprattutto quello di Augusto, fatto erigere sull’acropoli greca dal console romano Lucio Bestia Calpurnio, opera dell’architetto L. Cocceio Aucto, di cui rimangono  sei belle colonne, di candido marmo, dai capitelli corinzii, e l’architrave, incorporati nelle mura della cattedrale, dedicata a S. Pròcolo, sorta proprio sui resti del tempio di Augusto. La chiesa cristiana, ricca di opere pittoriche di artisti italiani e stranieri, risalenti al Seicento, racchiude la tomba del sommo musicista Giovanni Battista Pergolesi, morto nel 1736, a Pozzuoli, nel convento dei Cappuccini, dove, minato dalla tisi, si era ritirato per giovarsi dei benefici del clima. Il misero corpo del compositore, il padre dell’opera buffa, dalla brevissima esistenza (solo 26 anni di vita), deceduto due giorni dopo il compimento dello ” Stabat Mater”, fu gettato nella fossa comune. Nella cattedrale vi è anche la tomba del duca di Montpensier, viceré di Carlo VIII, ultimo dei Valois, che nel 1494 era disceso in Italia conquistando il regno di Napoli.

Una visita meritano anche i sepolcri della via Campana: una sequenza di monumentali tombe, di colombarii e di ipogei, che hanno ambienti ricchi di affreschi e di stucchi; il grandioso e ben conservato esemplare di ”Macellum” (I-II secolo d. C.), il mercato coperto di cibarie cittadino, erroneamente definito “Tempio di Serapide”, per il rinvenimento, dopo lavori di sterro del vigneto che ricopriva la piazza, di una statua di Serapide, divinità egizia delle anime trapassate, a cui i Romani avevano dedicato, per senso di civiltà ospitale, un mercato sacro, in onore dei mercanti forestieri, greci ed orientali, ove si sentiva parlare il latino e il greco. Il dio è assiso sopra un trono, con il caratteristico modio in testa e con cerbero al fianco.

Questo fiorente mercato di commestibili coperto con grande porticato quadrato, del tempo della stirpe plebea dei Flavi, che ebbero come imperatori Tito Flavio Vespasiano, Tito Flavio Vespasiano, suo figlio, e Tito Flavio Domiziano, anch’egli figlio del primo, danneggiato dal terremoto del 62 d. C., fu restaurato sotto Antonino Pio e Marco Aurelio, l’età più felice dell’impero romano, poi dai Severi. Esso è costituito da un’area di forma quadrangolare, fornita di portico, di 58 x 65 metri, il cui ingresso è dalla parte del mare. La “tholos”, costruzione circolare composta di 3 colonne di cipollino, affiorate dall’acqua, innalzata su un podio, è, a nostro parere, la parte più degna di attenzione di questo centro commerciale. Le colonne, scoperte nel 1730, sono piene di perforazioni prodotte dai litodomi, animali marini.

Degne di attenzione, a Pozzuoli, sono: la Solfatara (dal tardo latino “Sulpha Terra, “Terra di zolfo”), cratere in quiescenza, bagnato dalle acque del Cocito, in comunicazione con il Vesuvio, come hanno mostrato alcuni esperimenti, detto “Forum Vulcani” da Strabone), vasto terreno pianeggiante, tondo od ovale, circondato da montagne di zolfo, che esercita un fascino speciale sui turisti, con le acque ribollenti, con i soffioni e con le cosiddette “ fumarole”, sbuffi d’ aria calda e solforosa, in un paesaggio molto contrastato, tra l’aridità del suolo, di sabbie sulfuree, e macchie di intenso verde; la grotta di Pozzuoli, lunga quasi un chilometro, voluta da Lucullo o da Agrippa, attribuita da Strabone all’architetto Cocceio, che la terminò in quindici giorni impiegandovi ben centomila uomini. Qualcuno ha sostenuto che Virgilio l’abbia scavata in una sola notte, grazie alla magìa. Specie nel Medioevo gli si attribuì doti di mago e di profeta, facendone, con Dante Alighieri, l’emblema dell’umana saggezza.

Lo studioso latino Lucio Anneo Seneca, nell’attraversare la grotta di Pozzuoli, lunga 700 metri, larga m. 3,20, con un’altezza massima di m. 5,60, illuminata da feritoie, ne è atterrito, scrivendo: “Non c’è prigione più lunga della “crypta”, non esistono torce più deboli e fumose di quelle… che non servono a illuminare l’oscurità, ma soltanto a intravvedersi… E comunque, anche se ci fosse stato un barlume di luce, la polvere ce ne avrebbe privati…”. Lo scrittore Petronio Arbitro, che rinfacciò a Nerone ogni sorta di perversioni e di stravizi, la considerava troppo bassa. Era il sito delle antiche stregonerie, con l’orrido, mefitico Averno, “la porta degli Inferi”, per le sue acque nere e per le sue esalazioni perniciose, lo Stige, l’Acheronte, di virgiliana memoria. Questi luoghi ci rammentano che nella baia di Pozzuoli sbarcò Enea, dopo aver perso il carissimo amico Miseno, reduce da Troia in fiamme. Qui l’eroe interrogò, nell’antro di Cuma, la Sibilla, che aveva la facoltà di parlare con i morti.

Rammentiamo che Pozzuoli, al tempo dell’imperatore Nerone, fece da naturale sfondo ambientale alla “Cena di Trimalcione”, l’episodio centrale del romanzo intitolato “Satyricon” di Petronio Arbitro, grandissimo scrittore latino, in cui un liberto, divenuto con arti indegne favolosamente ricco, ostenta il lusso, vantando la quantità dei suoi beni e atteggiandosi a persona colta. Egli, però, rivela continuamente la sua rozzezza, “uomo di squisita bestialità”, a detta di Concetto Marchesi, che aveva una moglie volgarissima quanto lui, che si chiamava Fortunata. Guardando al turpe ed ameno Trimalcione, che faceva cantare canzoni, da lui stesso composte, da un suo giovane schiavo e che aveva comprato un’intera compagnia, che rappresentava soltanto le farse atellane, alla sua cena, alla sua sfacciata ricchezza, ripetiamo la frase di Seneca: “Il denaro cade su certa gente come cloaca”. In quegli anni l’imperatore cullava il progetto di collegare il porto di Pozzuoli, uno dei grandi empori marittimi del golfo di Napoli neroniana, in piena confusione di razze, romana, greca e levantina,con Roma, tramite lo scavo di un canale di comunicazione tra l’Averno, il Lucrino e il mare, perché gli serviva una potente base navale, al riparo degli assalti di Sesto Pompeo. Ottaviano lo chiede al fido navarco Marco Vipsanio Agrippa, che costruisce, nel 37 a. C., moli e dighe sforacchiando colline e tagliando, come dice Giuseppe Maggi, “indiscriminatamente la selva che dava credito all’anticamera degli Inferi per ricavarne legname”. Insomma, una sorta di profanazione, di violazione della sacralità del luogo e delle antiche tradizioni, che assegnavano ai boschi delle rive scoscese del lago d’Averno un carattere sacro, quasi simbolo delle selve sotterranee.

L’insigne ammiraglio romano Agrippa, manomettendo i Campi Flegrei, fece un porto, che prese il nome di “Portus Julius”.

Hans Christian Andersen si recò alla Solfatara, interessante per le sue fumarole e per le sue mofete, assieme al suo amico Lendel, eseguendo ben sei disegni sul cratere del vulcano, di forma ellittica, misurante, nel suo asse maggiore, 770 metri di lunghezza. Nel suo diario scrisse : “Si tratta di un enorme cratere di zolfo che qua e là emette ancora fumo, ne esce persino dai fianchi del monte. Nei pozzi scavati lo zolfo bolliva e l’acido vitriolico bolliva nelle giare e nelle buche in cui si raccoglieva acqua piovana. L’odore era intenso. In un edificio assistemmo alla preparazione dello zolfo. … Proseguendo verso la baia scorgemmo le rovine dei templi di Nettuno e Diana.

Percorremmo poi la via Campania che è la Strada delle Tombe. Tombe che si susseguivano una dopo l’altra, coperte di cespugli e d’erba. In ogni tomba si vedevano tante piccole nicchie per le urne contenenti le ceneri dei morti. Salimmo al tempio di Jupiter Serapis, costruito da mercanti egiziani. Ne restavano tre colonne. Il pavimento era al disotto del livello del mare e sul bianco marmo guizzavano i pesci. Andammo poi a una trattoria sulla spiaggia da dove vedemmo le rovine di un ponte, costruito da Caligola, ci venne detto, per congiungere Pozzuoli a Baia e al Lago di Lucrino che solo la strada separa dal mare. E’ un lago piccolissimo, lodato da Orazio per le sue ostriche”, ma anche per la coltura delle orate, delizie delle mense dei grandi romani che soggiornavano nella limitrofa Baia.

Il 4 gennaio 1804 lo scrittore, poeta, letterato e uomo politico francese François-René de Chateaubriand in “Viaggio in Italia” scrive: “A Pozzuoli ho esaminato il tempio delle Ninfe, la casa di Cicerone, ch’egli chiamava “Puteolana”, donde scrisse spesso ad Attico e dove compose forse la seconda filippica. La villa era costruita secondo il disegno dell’Accademia ateniese; abbellita quindi da Vetus, divenne un palazzo sotto l’imperatore Adriano, che vi morì, dicendo addio alla sua anima.

Animula vagula, blandula,

Hospes comesque corporis, etc.

 

Voleva che si scrivesse sulla sua tomba ch’egli era stato ucciso dai medici:

Turba medicorum regem interfecit.

La scienza ha fatto progressi.

Allora tutti gli uomini di un certo merito erano filosofi, quando non erano cristiani.

Bella veduta di cui si gode dal Portico; un piccolo verziere occupa oggi la casa di Cicerone.

Tempio di Nettuno e tomba.

La zolfatara, campo di zolfo. Rumore delle fontane di acqua bollente: rumore del Tartaro per i poeti.

Veduta del golfo di Napoli nel ritorno…”.

Giuseppe Mormile in “Descrittione della città di Napoli e del suo amenissimo distretto e dell’antichità della città di Pozzuolo”, Napoli, 1616, scrive: “Iddio nostro Signore vuole che siano questi luochi pieni di solfo, di fuoco e di bitume…acciò che habbiam’occasione sicurissima di credere, che nel centro della terra è l’Inferno, e che ‘l fuoco che tormenta i dannati sia eterno e   materiale ”. San Pier Damiani, Dottore della Chiesa, autore del “Liber Gomorrhianus”, contro la corruzione morale del clero, riporta di aver sentito dall’arcivescovo Umberto, che tornava dalla Puglia, “che in un luogo vicino a Pozzuolo era eminente un promontorio tra acque nere e fetide, dalle quali bruttissimi uccelli sorgeano, che dall’ora vespertina del sabato…eran soliti di lasciarsi vedere con aspetti humani andar vagando per lo monte, stender le ali, e col rostro mirarsi le penne, li quali né mangiar si vedeano, né poteano esser presi in qualsivoglia maniera, e che veniva dietro a quelli un corvo, il quale, essendo udito crocitare, quelli s’immergean nell’acque”. Erano le anime destinate ai supplizi, che erano, per sei giorni della settimana, in angoscia, ma la domenica, giorno del Redentore, sentivano refrigerio.

Friedrich Johann Lorenz Meyer, quando visita la Solfatara, nella seconda metà del Settecento, suggestionato dal ricordo delle antiche leggende, ha terrore del luogo.

Il teologo della Sorbonne di Parigi, Balthasar Grangier de Liverdys, in “Journal d’un voyage de France et d’Italie, fait par un gentilhomme François. Commencé…1660 et achevé…1661”, Parigi, 1668, sostiene, a pagina 604, che la Solfatara “è una meraviglia di natura che Dio ha voluto rendere perpetua per attirare l’ammirazione degli uomini, e per chiedere la loro riflessione sulla sua onnipotenza e la loro attenzione a conoscere la sua sovrana saggezza”.

Marco Tullio Cicerone vi possedeva una villa sul lido marino, alta ed ampia, ornata di portici, chiamata “Accademia”, che offriva piacevole vista, degna di essere ricordata per il portico e il bosco, di cui scrive Plinio il Vecchio. Dalle rotonde arcate il grande mago dell’eloquenza c lassica contemplava il ceruleo mare ed ascoltava il fragore dei flutti. Qui il celebre oratore, che definì “Puteoli” una “piccola Roma”, compose le “Questioni accademiche” e la seconda “Filippica”. Tra gli amici campani, Cicerone annoverava Marius Gratidianus e L. Papirio, il suo più grande amico nelle ore più tristi e difficili, che gli ammanniva i famosi tarallucci e le prelibate sfogliatelle napoletane. Morto l’arpinate, scaturirono nella sua villa, ereditata nel 43 a. C. dall’amico Cluvio, tiepide acque, definite “aquae ciceronianae”. A Pozzuoli, nel 79 a. C., si era ritirato a vita privata Lucio Cornelio Silla rinunciando alla dittatura e al suo smisurato potere.

Pozzuoli ha sempre avuto abbondanza d’acqua sulfurea. Plinio il Vecchio scrive che in nessuna parte del mondo c’è tanta abbondanza d’acqua quanto a Pozzuoli. Il medico napoletano Gio. Battista Elisio, scrivendo al principe di Bisignano, riporta ben trenta bagni citando il medico greco Oribasio (Pergamo 324-Bisanzio 403), autore dell’opera “Collezioni mediche”, in cui, nel decimo capitolo, fa menzione del suddetti bagni. Anche un altro medico greco, il più grande dell’antichità, Claudio Galeno, che scrisse “Arte medica”, visitò i bagni provando ammirazione per uno di essi, quello della Spelonca. Già il sofista greco Filostrato narra che Apollonio di Tiana, il famoso taumaturgo del I secolo d. C., il “Cristo pagano”, incontrò a Pozzuoli due suoi discepoli, che disputavano sulle virtù portentose dell’ “acqua sacra” che scaturiva presso il tempio. Egli ne loda la sontuosità dei marmi e gli oracoli che vi rendevano i sacerdoti. Le acque minerali, che operano tante guarigioni (per l’artrite, per la gotta, per l’uricemia, per l’obesità, per i reumatismi. per i postumi di fratture, per affezioni delle vie respiratorie, per malattie del ricambio, eccetera), più di tutte le altre dei Campi Flegrei, provengono dalle ardenti viscere della “solfatara”, sgorganti da tre sorgenti. Si sono avvalsi di queste acque Emanuele Filiberto, Vittorio Emanuele Orlando, il Nitti, Amendola, Matilde Serao, Benedetto Croce, la duchessa d’Aosta, Beniamino Gigli, Marta Abba, Umberto di Savoia, Maria José, Ras Tafari, Toti Dal Monte, Gronchi, le coppie Grace e Ranieri e Onassis e la Callas, più un’infinità di divi e di dive del mondo internazionale.

Scrive Francesco Petrarca che il re dei Romani, Lucio Tarquinio “il Superbo”, espulso da Roma nel 510, riparò a Pozzuoli cercando di riavere il trono, ma i suoi tentativi vennero frustrati dalla resistenza romana. Egli morì nel 495 a. C., a Cuma.

Lo scrittore francese André Maurel in “Un mois en Italie” scrive di aver seguito la vecchia strada che collegava Pozzuoli a Roma, passando sotto l’Arco Felice, formidabile testimonianza dell’arte di sterro e costruttrice dei Romani, conservata dai loro figli.

A Pozzuoli si concentrava il commercio di Roma con l’Oriente, richiamante quel grande porto militare di Baia riparato al largo dal Miseno, dove navigava la grande flotta latina.

La rada di Pozzuoli era sempre pronta a ricevere i “mostri del mare”, le vele purpuree o color zafferano. Essa era cinta da templi e da “mercati”, dai nobili marmi, come quello denominato tempio di Iside, costruzione di grande suggestione, come è suggestivo il sarcofago con il mito di Prometeo , del IV secolo d. C., recuperato all’interno di un mausoleo, agli inizi del XIX secolo,ora al Museo Nazionale Archeologico di Napoli.

Tutti conoscono l’anfitetro di Pozzuoli, anche se si possedeva una lastra di vetro su cui erano incisi due anfiteatri. Un dotto tedesco ipotizzò che si volesse indicare che si davano, nell’anfiteatro, due specie di giochi. Un giorno, per far passare la nuova linea ferroviaria, la “direttissima”, da Roma a Napoli, gli operai avevano messo alla luce delle arcate. Il sovrintendente Spinazzola fece scavare ed apparve il secondo anfiteatro. La lastra di vetro proclamava non un simbolo ma una realtà. Questo secondo anfiteatro era anche più antico del primo ed era nella sua cinta che ebbero luogo i giochi, rimasti famosi, dati da Nerone ad un re asiatico. Il secondo risale a Vespasiano, riscoperto nei primi anni del Novecento.

E’ stata la prima volta che si è vista una ferrovia passare attraverso un anfiteatro romano, attraverso un’arena.

Pozzuoli dette i natali al grafico Leon Giuseppe Buono, fondatore della “Scuola di Pozzuoli”; al cronista Loise De Rosa, il cui racconto autobiografico è un vivace e colorito quadro di vicende del reame di Napoli, da Manfredi ai suoi giorni; al pittore a tempera e ad olio Ezechiele Guardascione; al pittore ad olio Giovanni Brancaccio, che dipinse dentro lo scenario mitico di Posillipo, le cui figure sono avvolte di candidi lini sfuggenti per desolate pianure infocate; al giornalista, commediografo e uomo politico Guglielmo Giannini, che fondò il movimento dell’ “Uomo Qualunque” (1944), di breve vita. Tra i suoi “lavori” teatrali, “La sera del sabato” (1934) e “Il pretore De Minimis” (1950).

Qui Sophia Loren mosse i primi passi verso la fama, eletta miss Pozzuoli nelle Terme di Alicandro, entrando poi nel mondo dei miti e detronizzando il re degli dei, Giove.

I lucrativi affari dei Sulpici, famiglia di Pozzuoli

 

Nel 1959, in occasione della costruzione dell’autostrada che collega Napoli a Salerno, furono scoperte, in una sontuosa casa sita a Murecine, nei sobborghi di Pompei, delle tavolette appartenenti ad una famiglia di uomini d’affari della città di Pozzuoli, i Sulpicii, di cui conosciamo i nomi di Gaio Sulpicio Fausto e di Gaio Suspicio Quiro.

Queste tavolette, che ci ragguagliano sulle molteplici attività dei membri di questa famiglia, furono tutte redatte, tra il 26 e il 61, nella grande città portuale di Pozzuoli, ma conservate a Murecine, che fu colpita, come Pompei ed Ercolano, dal terremoto del 62 e distrutta dall’eruzione del Vesuvio del 79.

Questi Sulpicii, nel numero di quattro, sembrano essere degli schiavi affrancati o dei discendenti di schiavi affrancati. Certe tavolette costituiscono l’equivalente di documenti giuridici (titoli di proprietà senza dubbio, conservati per conto di proprietari). Altre sono riconoscimenti di debiti e di quietanze, che sembrano indicare che i Sulpiciii si davano a riscossioni di crediti, per conto proprio (a seguito di crediti che avevano consentiti), o per quello dei loro clienti.

.                                           Il porto, motore dell’attività

 

Queste operazioni erano palesemente strettamente legate all’attività commerciale del porto di Pozzuoli, come lo testimoniano le derrate che servivano da garanzia (grano ed uva secca) e il nome di alcuni dei loro clienti, che erano negozianti.

Queste tavolette ci comunicano ugualmente che l’imperatore ed alcuni senatori avevano posto del denaro presso “banchieri” di Pozzuoli, ma anche che i Sulpicii, come alcuni commercianti della città, avevano prestato grosse somme di denaro a liberti imperiali (agendo questi sia a titolo personale, sia per conto dell’imperatore, che sarebbe, dunque, volta a volta, prestatore e mutuatario, senza dubbio in funzione delle sue entrate ed uscite di denaro).

Essi furono anche intermediarii nel finanziamento di debiti contratti da alcuni commercianti, nella gestione di emporii di diverse derrate, nell’acquisto di schiavi e in vendite all’asta. Queste erano largamente praticate, poiché permettevano di assicurare la pubblicità di queste vendite, ma anche di far salire i prezzi.

Se le somme avanzate dal “banchiere” non erano rimborsate dal compratore, il prestatore era risarcito appropriandosi dell’ammontare della vendita dei beni interessati. Se l’importo della vendita era inferiore al prestito, il compratore-mutuatario doveva rimborsare la differenza al prestatore. Nel caso contrario, il prestatore che effettuava l’acquisto versava al mutuatario l’eccedente del prodotto della vendita, in rapporto alla somma avanzata (mediante una commissione).

L’ammontare delle somme di denaro evocate in queste tavolette è più importante di quello menzionato dalle tavolette cerate di Jucundus, banchiere a Pompei nel I secolo, con le transazioni in greco e in latino. Ciò farebbe pensare che i banchieri di Pozzuoli erano più ricchi di quelli di Pompei. Un’ipotesi molto plausibile, tenuto conto dell’importanza economica di Pozzuoli, largamente impegnata, in quell’epoca, negli scambi commerciali con le differenti province dell’Impero, qualificata “piccola Roma” da Marco Tullio Cicerone.

Testimonianze

 

Vengono poi i promontori intorno a Dicearchia e la città stessa. Dicearchia (l’odierna Pozzuoli, il cui nome latino era Puteoli, da “puteus”, che significa pozzo, anche se un’altra etimologia fa derivare il nome da “putor”, “putidus”, n. d. a.) era in origine porto dei Cumani costruito su una altura, ma i Romani, al tempo della spedizione di Annibale, vi si insediarono e cambiarono il nome in quello di Puteoli, per l’abbondanza dei pozzi; alcuni invece fanno derivare questo nome dal cattivo odore delle acque, dal momento che tutto il luogo fino a Baia e Cuma è pieno di esalazioni di zolfo, di fuoco e di acque calde. Alcuni ritengono che per questo motivo la regione di Cuma sia stata chiamata anche Flegrea e che siano le ferite dei Giganti colpiti dal fulmine a provocare queste esalazioni di fuoco e di acqua. La città è diventata un grandissimo emporio, dal momento che ha ancoraggi artificiali grazie alle qualità naturali della sabbia ( la pozzolana, che è tufo vulcanico, esportata, nel passato, fino a Costantinopoli, è, secondo l’architetto romano Vitruvio Pollione, meravigliosa per costruire, n. d. a.): infatti essa è costituita nella proporzione ideale di calce ed acquista una forte compattezza e solidità. Così, mescolando l’insieme di sabbia e calce con pietre, gettano moli che avanzano verso il mare e così trasformano in golfi le spiagge aperte di modo che le più grandi navi mercantili possono con sicurezza entrare in porto.

Subito sopra la città si estende l’ “agorà” di Efesto (detta in latino “Forum Vulcani”, derivante il suo nome dalla fervente attività vulcanica della zona, oggi denominata “la Solfatara”, n. d. a.), una pianura circondata tutt’intorno da alture infiammate, che hanno in molti punti sbocchi per l’espirazione a mo’ di camini che mandano un odore piuttosto fetido; la pianura è piena di esalazioni di zolfo.

 

(Strabone, “Geografia”, libro V, 6).

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Salimmo nel nostro corricolo, lasciando a destra il lago di Agnano, sul quale c’è poco da dire; raggiungemmo l’antica strada romana che conduceva da Napoli a Pozzuoli, e che si chiamava la via Antonia. Non c’era da sbagliarsi, era proprio l’antico selciato in pietra vulcanica, fiancheggiato di tombe o meglio di rovine sepolcrali; due o tre tombe soltanto avevano traversato le epoche come picchetti secolari, ed erano rimaste in piedi sulla strada infinita del tempo.

Ci fermammo al convento dei cappuccini, dov’è stata portata la pietra su cui san Gennaro subì il martirio: questa pietra è ancor oggi macchiata di sangue e, quando il miracolo della liquefazione si opera a Napoli, il sangue che macchia la pietra – fratello del sangue custodito nelle ampolle – si liquefà, dicono, e ribollisce allo stesso modo.

Nella medesima chiesa è serbata, inoltre, una statua del santo assai bella.

Dalla chiesa dei cappuccini alla Solfatara non c’è che un passo. Ci eravamo preparati alla vista di quest’antico vulcano col nostro viaggio nell’arcipelago di Lipari. Ritrovammo gli stessi fenomeni, il terreno sonoro e cavo che, ad ogni passo, sembra pronto a inghiottirvi in catacombe di fiamma, le fumarole dalle quali sfugge un vapore spesso e pestifero, e infine, nei punti in cui i vapori sono più forti, le tegole e i mattoni preparati per ricevere il sale ammoniaco che vi si sublima, e che si raccoglie, senz’altra spesa, ogni mattina e ogni sera.

La Solfatara è il “Forum Vulcani” di Strabone.

A qualche passo dalla Solfatara sono i resti dell’anfiteatro, chiamato anche “Carceri”, nome che è prevalso sull’altro e che ricorda le persecuzioni dei cristiani nel II e nel III secolo. In questo anfiteatro il re Tiridate, condottovi da Nerone, che gli faceva osservare la forza e la destrezza dei suoi gladiatori, volendo mostrare quale fosse la sua forza e la sua abilità, prese un giavellotto dalle mani di un pretoriano e, lanciandolo nell’arena, uccise due tori con lo stesso colpo.

Anche in questo circo, con ogni probabilità, san Gennaro, sfuggito alle fiamme e alle belve, fu decapitato: il che Dio permise, come abbiamo detto, perché era il corso ordinario della giustizia. Una delle cave che han fatto dare al monumento il nome di “Carceri” è la casa di Cicerone, quel martire di una piccola reazione politica, mentre san Gennaro fu quello di una grande rivoluzione divina.

Quella casa era la villa prediletta dell’autore delle “Catilinarie”. La preferiva alla sua villa di Gaeta ( aveva, invece, una villa a Formia, n. d. a.), alla sua villa di Cuma, alla sua villa di Pompei, perché Cicerone aveva ville dovunque.In quel tempo, come oggi, le professioni di avvocato e di oratore davano talvolta, a quanto sembra, eccellenti profitti.

E’ vero che avevano anche i loro inconvenienti, come, per esempio, avere, dopo la morte, la testa e le mani inchiodate alla tribuna delle arringhe, e la lingua trapassata da un ago. Ma, insomma, ciò non capitava a tutti gli avvocati, testimone Sallustio. ……

Nell’attesa, Cicerone passò alcune belle e placide giornate in questa villa, che confinava con gli orti di Pozzuoli, e nella quale compose le “Questioni accademiche”. Di là godeva una vista magnifica, non ancora in quel tempo disturbata dallo stupido Monte Nuovo, spuntato una notte come un fungo per sciupare tutto il paesaggio.

E da Pozzuoli partì Augusto per andare a muover guerra a Sesto Pompeo, col quale, due o tre anni prima, Antonio, Lepido e lui avevano fatto un trattato di pace al capo Miseno. …

Pozzuoli era il punto di ritrovo dell’aristocrazia romana, Pozzuoli aveva le sue sorgenti minerali come Plombières, le sue terme come Aix, i suoi bagni di mare come Dieppe. Dopo essere stato il padrone del mondo e non aver trovato in tutto il suo impero altro luogo che gli piacesse, Silla venne a morire a Pozzuoli.

Augusto vi aveva un tempio elevatogli dal cavaliere romano Calpurnio. E’oggi la cattedrale di San Procolo, compagno di san Gennaro.

Tiberio vi aveva una statua sorretta da un piedistallo di marmo che rappresentava le quattordici città dell’Asia minore distrutte da un terremoto e fatte ricostruire da Tiberio. La statua è sparita, né è stata mai ritrovata. La base esiste ancora (1).

Caligola vi fece costruire il famoso ponte che realizzava un sogno altrettanto insensato che quello di Serse: ponte che partiva dal molo, traversava il golfo e andava a finire a Baia. La sua costruzione cagionò la sospensione dei trasporti e affamò Roma. Era sostenuto da venticinque archi partendo dal molo, e poiché il mare, più oltre, diventava troppo profondo per continuare ad impiantarvi dei piloni, si era riunito un numero immenso di galere fermate con ancore e catene; poi, su queste galere s’erano fissate delle tavole che, ricoperte di terra e di pietre, formavano il ponte. L’imperatore vi passò sopra, rivestito della clamide, armato della spada di Alessandro Magno, e trascinandosi dietro al cocchio, trainato da quattro cavalli, il giovane Dario, figlio di Arbane, che i Parti gli avevano dato in ostaggio – E tutto ciò, sapete perché? Perché un giorno Trasillo, astrologo di Tiberio, visto il vecchio imperatore guardare Caligola con quell’occhio inquieto che così ben conosceva: “Caligola” aveva detto “non sarà più imperatore se non traverserà a cavallo il golfo di Baia”.

Caligola traversò a cavallo il golfo di Baia, e per disgrazia del mondo – al quale Tiberio avrebbe reso un grande servizio soffocandolo – fu per quattro anni imperatore.

Dei venticinque archi avanzano tredici grandi piloni, di cui alcuni si elevano al disopra della superficie del mare e altri ne sono sommersi.

Infine il padre degli dei aveva a Pozzuoli un tempio in cui era adorato sotto il nome di Giove Serapide (2). Invaso, secondo ogni probabilità, dalle acque e nel contempo sepolto sotto le ceneri, nel terremoto del 1538 (fu, invece, un’eruzione, che avvenne tra il 29 settembre e il 6 ottobre, dopo un periodo di quiescenza durato circa 3000 anni, n. d. a.), fu scoperto nel 1750, ma subito spogliato delle cose di prima importanza, che furono mandate a Caserta. Non gli restano oggi se non tre delle colonne che lo circondavano, due dei dodici vasi che

adornavano il monoptero e, incastrato nel suo quadrone di marmo greco, uno dei due anelli di bronzo che servivano a legare la vittima al momento del sacrificio.

Il terremoto del 1538 di cui abbiamo fatto parola è il grande avvenimento di Pozzuoli e dintorni. Una mattina, Pozzuoli si è destata, ha guardato intorno e non si è riconosciuta. Dove, il giorno prima, aveva lasciato un lago, ritrovava una montagna; dove aveva lasciato una foresta, ritrovava ceneri; infine, dove aveva lasciato un villaggio, non ritrovava nulla di nulla.

Una montagna alta una lega (3) era sorta durante la notte, aveva spostato il lago Lucrino, che è lo Stige virgiliano, colmato il porto Giulio e inghiottito il villaggio di Tripergola.

Oggi il Monte Nuovo (lo si è battezzato con questo nome, certo ben meritato) è coperto di alberi come una vera montagna, e non presenta la menoma differenza dalle altre colline che sono là dal principio del mondo. ……

Ci portarono, quindi, frutti di Pozzuoli. Pozzuoli è il verziere di Napoli: sfortunatamente gli orticultori italiani non sono più forti dei vignaiuoli. Ne risulta che in un paese dove, mercé un clima ammirevole, si potrebbero mangiare i più bei frutti della terra, bisogna contentarsi di quelli che la mano dell’uomo non ha avuto ancora l’idea di sciupare, dato che crescono da soli: come i fichi, le melagrane e le arance.

Pozzuoli è una grande baia nel golfo. Mi spingo verso Baia, lungo la spiaggia. La strada è tagliata attraverso le rovine di vecchie ville romane. Singolare mescolanza dell’arte tra le rovine e la natura in rigoglio. Le vigne che sovrastano le rovine. Le rovine qui sembrano sostituirsi alle rocce. Archi, sottostrutture, sostegni.

Tempio di Venere. Rotondo. Sulla sommità fluttua la vegetazione. Cadaveri abbigliati per un ballo. Tempio di Mercurio (erra lo scrittore e poeta statunitense Herman Melville, perché una delle tre maggiori rovine della zona era, in realtà, un bagno, n. d. a.). Cupola bassa. Una parte è caduta giù. Le vigne si protendono in basso.

 

(Herman Melville, “Diario italiano”, Biblioteca del Vascello, Roma, 1991, pag. 38. Lo scrittore visitò Pozzuoli, il 23 febbraio 1857).

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Pozzuoli, situata nel cuore dei Campi Flegrei, zona prettamente vulcanica, interessata da fenomeni di bradisismo (lento abbassamento del suolo, n. d. a.) e disseminata di reperti artistici di indubbio valore. Molte le cose da vedere; tra le più importanti ricordiamo l’anfiteatro, che per grandezza è terzo in Italia dopo il Colosseo, e l’anfiteatro di Santa Maria in Capua Vetere, ancora oggi ben conservato. Da visitare quello che viene denominato tempio di Serapide, in realtà antico mercato formato da botteghe che si affacciavano su un portico. Sulla parete di fondo si scorge quello che rimane dell’abside che accoglieva la statua di Serapide, dio protettore dei commercianti.

Nella parte alta della città si eleva il duomo, edificato sul luogo di un tempio, trasformato poi in chiesa cristiana e devastato da un incendio nel nostro secolo. Dalle macerie sono emerse parti dell’edificio romano che a sua volta rivelò elementi di un tempio repubblicano del II secolo.

Gli studiosi sono concordi nell’affermare che si tratta del “Capitolium”, innalzato dalla prima colonia romana di Puteoli nel 194 a. C..

 

(Nicola Fudoli)

La Solfatara è una cosa tutt’affatto speciale; è qualche cosa di più e qualche cosa di meno di un Vesuvio: è un vulcano addomesticato. Poiché la Solfatara è un vulcano vero e proprio, ma ormai quiescente, che si limita a borbogliare nuvole di fumo, a far sorgere dalle sue viscere acque minerali caldissime, e che permette di studiare con serenità e con calma alcuni fenomeni vulcanici.

Si trova nei Campi Flegrei, a Pozzuoli, e vi si giunge comodamente in treno elettrico. Vi si entra per un lungo viale ombreggiato di platani e di castagni e vi si trovano in quantità grandissima le ginestre. Ma ecco che, lasciato l’ombroso viale, si distende, quasi fosse un vastissimo circo, tutto il cratere, qua e là punteggiato da piccole colonne di fumo, qua e là interrotto da piccole fenditure che lanciano zampilli di acqua e di fango. A girare per la Solfatara si prova quasi l’impressione di camminare su di un suolo elastico, vuoto di sotto: basta battervi con un piede perché sembri che ceda e risuoni cupamente; eppure centinaia di migliaia di persone vi sono passate da anni, anzi da secoli! Guardando intorno le colline alte e dense di vegetazione che circondano il cratère, si giunge poi alla “bocca grande” dove tutte le forze sotterranee del fuoco accumulate da tempo immemorabile arrivano a sprigionarsi con immensa veemenza. Si ode, infatti, un fischio cupo, prolungato, che viene fuori dalla screpolatura della terra insieme con una nube di fumo spesso, denso, caratteristicamente odoroso di zolfo.

 

(Francesco Stocchetti, “Passeggiata nel cratère d’un vulcano”, in “A Solatìo”, “La prora”, Milano, s.d., pag. 499).

 

Alfredo Saccoccio

 

  1. Scoperta nel 1793, in uno scantinato, è custodita oggi nel Museo nazionale di Napoli.
  2. E’ risaputo, ora, che il Serapeo non era altro se non un grande mercato di commestibili.
  3. Assai più modestamente, il Monte Nuovo è alto centoquaranta metri.(Alexandre Dumas padre, “Impressioni di viaggio”, Rizzoli, Milano,1963, vol. II, cap. XXXII, pp. 458-465).

 

 

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