PRETI E ABATI BRIGANTI NEL DECENNIO FRANCESE IN CALABRIA ULTERIORE

La figura più nota tra i preti che diven- tarono briganti o capimassa fu quella del Papasidero o Papasodero che in realtà era un ex prete reo di un omicidio a sfondo passionale al punto di essere fug- gito con la moglie dell’ucciso.
Aveva seguito il cardinale Ruffo nel 1799 e nel decennio arrivò a raccogliere una forza di 3.000 uomini ma fu battuto a Serra San Bruno dal capo battaglione Pochet per cui raggiunse Centrache suo paese natale dove pose una mina nella propria casa e fece perdere le sue tracce.
In un articolo sul Monitore delle Due Sicilie del 1807 è precisato che “il Pappasodero si celebre in queste contrade per la sua inaudita barbarie e contro al quale il generale Stuart (il generale inglese vincitore della battaglia di Maida n.d.r.) aveva pubblicato il taglione si crede ammazzato per mano dei francesi in Nicastro altri lo vogliono fuggito a Palermo”, tuttavia, nonostante tutte queste supposizioni, morì di vecchiaia molto tempo dopo nel suo villaggio.
Nell’autunno del 1806 si trovava sulle alture sopra Bagnara da dove invitava il sindaco del paese a fornire le vet- tovaglie per i suoi accoliti ed all’arrivo ne rilasciava debita quietanza firmando i relativi “boni”.
Un altro famoso capo briganti fu l’abate Candidoni che si diede alla macchia nei boschi della piana di Rosarno perché venne visto da alcune lavandaie sul greto del Mesima mentre, insieme al canonico De Paola, si disfaceva dei cadaveri di due ufficiali francesi assassinati perché avevano violentato la sua bella sorella monaca.
L’abate nelle sue lettere si vantava che al suo solo nome i francesi tremavano per avere potuto apprezzare il suo coraggio a Pietrenere e Gioia in non meglio precisate strabilianti azioni, tuttavia siffatto leone durante uno sbarco organizzato per recuperare il collega Ronca ed altri capi massa, per sua stessa ammissione, fuggì per il sopraggiungere di soli 60 francesi; per il suo carisma venne scelto dagli inglesi come comandante di una delle centurie del corpo franco che venne organizzato a Messina nel 1809.
A detta dello scrittore Sofia Moretto aveva una cicatrice che gli deturpava il volto dovuta ad una sciabolata di un cavalleggero francese e secondo lo stesso scrittore morì vecchio vantandosi di non aver mai taglieggiato nessun proprietario. In contrasto con queste sue affermazioni, presso l’Archivio di Stato di Catanzaro, nel fascicolo relativo agli affari di giustizia, esiste un rapporto del sindaco del comune di Rosarno al Giudice di Pace, nel quale è allegata la copia di una elegante richiesta estorsiva fatta proprio da Francesco Candidoni insieme a Gaetano di Paola e Demetrio Bisurgi nell’aprile del 1814.
Nella lettera i tre si rivolgevano ai “principali e proprietari” della zona raccontando di essere in bolletta perché da ben otto anni lontani in Sicilia e quindi erano costretti a chiedere ai proprietari di raccogliere “l’opportuno accomodamento… magari rateizzandolo l’uno con l’altro” al fine di ottenere una giusta somma da consegnare direttamente nelle loro mani “quale complimento, vi giu- riamo, salverà e pacificherà il futuro”, il porgitore della somma doveva essere uno dei benefattori che avrebbe dovuto fingere di recarsi a Messina per affari.
La lettera si concludeva con la ieratica frase, degna del loro rango talare, «Approfittate del tempo altrimenti verrà il messia. Vostri affezionatissimi…».
Tale invito è firmato anche dal canonico Gaetano di Paola ricordato da Poli- meni in un articolo pubblicato sull’ultimo numero di Calabria Sconosciuta del 1995; in effetti nell’atto rogato dal Notaio Natale Cottone da Reggio, nel 1807, Saverio Gioffré e Domenico Lo Preste en- trambi di Rizziconi e Giovanni Amendola di Drosi testimoniarono che dopo la battaglia di Nicastro (Maida n.d.r.) il reverendo diacono Don Gaetano di Paola di Rosarno, inalberando la bandiera napoletana, invitò la popolazione a prender armi contro i francesi e con 235 uomini pose l’assedio al castello di Scilla ma dopo essere stato ferito si rifugiò a Rosarno e quindi a Messina.
Dello sbarco e del passaggio del capo brigante abate Candidoni e della sua comitiva nel settembre del 1811 a Sinopoli è testimonianza il pagamento per il corriere che su ordine del sindaco Antonio Avati si recò dal generale Manhes, incaricato della distruzione del brigantaggio, al campo di Piale per informarlo di questo passaggio.
Notizie su di lui provengono anche dai conti comunali di Sitizano (oggi frazione di Cosoleto) per l’anno 1812 in quanto il sindaco Licastro di Cosoleto affermava che il comune di Sitizano, trovandosi sulla strada che dalla Piana porta a Reggio, subbì più volte l’assalto dei bri- ganti specialmente della masnada dell’abate Paola, dell’abate Candidoni e di Giuseppe Fonteche fecero molti saccheggi specialmente nel 1808 quando distrussero le case del sindaco Domenico Polistina e del cassiere comunale Saverio Pistoni e per questi motivi gli abitanti emigrarono nei paesi vicini e quindi “non si poterono disimpegnare i pubblici do- veri e non si fece l’esazione della tassa per la contribuzione fondiaria”.
In un rapporto del 1807 conservato presso l’Archivio di Stato di Napoli, pubblicato dal Mozzillo nelle sue “Cronache della Calabria in guerra”, il famoso abate Francesco Candidone, di anni 30 circa, originario di Rosarno, zio di Francesco Valensisi, informava che i francesi erano a Seminara da dove si spingevano verso Palmi.
La complicità di alcuni preti nei delitti commessi dalle truppe irregolari è provata dalla feroce reazione delle popolazioni durante la loro ritirata a seguito della loro sconfitta nella battaglia di Mileto del 1807, infatti gli abitanti di Rosarno che poco prima avevano subito la loro violenta occupazione uccisero, senza alcuna pietà, un intero gruppo di massisti che era sotto il comando del Padre domenicano Rosa, scaraventandoli da un precipizio.
Un altro prete associatosi ad una comitiva di briganti fu Ferdinando Rumbolà di Brattirò di Drapia che per salvare l’onore della sorella imbracciò il fucile e uccise il tenente francese che tentava di usarle violenza, per tale motivo fuggì e si unì alla comitiva di Orlando, queste notizie sono riferite da un suo diretto di- scendente l’avv. Pasquale Rombolà di San Ferdinando.
In anni passati il prof. Rocco Liberti è riuscito a consultare il manifesto dei ricercati nella Calabria Ulteriore, stampato all’inizio delle operazioni di repressione coordinata dal Manhes e conservato nella biblioteca comunale di Palmi. Questo importante documento era stato redatto in base alle informazioni date dai sindaci dei comuni e riportava per ogni ricercato l’importo della taglia nel caso di prova della sua uccisione o nel caso della sua cattura, è importante rilevare che quest’ultima eventualità veniva premiata con una maggiore somma.
Nell’articolo redatto dal prof. Liberti risultano come prelati il prete Giu- seppe Petroli di Squillace, Michele Capris di Gizzeria, l’abate Giuseppe Melacrinis di Pedavoli, il sacerdote Giuseppe Di Fina di Sant’Onofrio che finì ucciso dal Bizzarro per aver avuto una relazione con la sua amante, il sacerdote Domenico Staropoli di San Giovanni, il sacerdote Antonio Lacquaniti di Mileto, il sacerdote Pietro Valenti Cardeo di Serra San Bruno che venne fucilato l’11 dicembre del 1810 per aver avuto dei rapporti con il capo dei briganti Impigna.
Invece non sappiamo il nome e le colpe di cui era reo l’arciprete di Molochio che per quanto riportato nei conti comunali di Oppido, da arrestato, insieme ad un brigante che si era presentato per l’amnistia ed alla moglie di questi, fu portato da Oppido a Rosarno il 22 maggio del 1810 da tale Calfapietra su ordine dell’ufficiale Pinart.
Molto importante è la diretta testimonianza di un sottufficiale francese del 20° reggimento di linea di presidio a Laureana su un altro sacerdote arrestato per connivenza con i briganti che venne ucciso mentre tentava di evadere dal palazzo Lacquaniti.
Le ricerche effettuate presso gli archivi parrocchiali mi permettono di precisare che si trattava del reverendo Vincenzo Protospataro, di 60 anni, la sua morte per “repentino ictu sclopli” è registrata nel libro dei morti della parroc- chia di San Gregorio di Laureana in data 26 luglio 1809, tuttavia non è chiaro in quale comune il prelato praticava la sua attività sediziosa.
Secondo un rapporto dell’Intendente De Thomasis è certo che nei giorni della famosa spedizione navale della tarda primavera del 1809 e più precisamente il 15 giugno nel vicino paese di Giffone il prete, forse perché costretto, lesse al popolo il proclama degli inglesi e sollevò il tumulto che si propagò nei paesi vicini La quiete fu ristabilita in modo dram- matico con l’uccisione di più di venti persone a Cinquefrondi e con l’arresto nei giorni successivi di diverse persone.
Nelle sue memorie l’ufficiale fran- cese racconta che mentre era a Laureana vide passare delle persone arrestate.
L’ufficiale che li scortava gli disse
«Ecco le mie prede, questi buontemponi, probabilmente, finiranno a Monteleone tre piedi al di sopra della folla».
In mezzo a queste persone c’era un prete che era lo zio del comandante delle guardie civiche di Laureana, Don Nicolo Protospataro.
La famiglia Protospataro poteva van- tare la presenza dell’antenato Scipione alla battaglia di Lepanto, il padre di Nicolò, Domenico, era stato capitano a Napoli.
Nicolò aveva sposato Giulia Sanchez nel 1792 ed aveva avuto tre figlie femmine.
Protospataro aveva ben due zii del ramo paterno entrambi preti ma di nome Fortunato e Carlo Antonio e quindi probabile che il reverendo ucciso di nome Vincenzo fosse un prozio.
Per come aggiunge nelle sue memorie l’ufficiale francese il comandante Protospataro invece di essere dispiaciuto dall’arresto dello zio era molto contento perché lo accusava d’averlo voluto spogliare dei suoi beni e d’avere tentato di sedurre la sorella e la figlia, più precisamente racconta che:
«In breve era furioso contro di lui ed anziché intercedere in suo favore, era soddisfatto nel vederlo prigioniero. Il suo odio era condiviso per il disprezzo che di questo prelato portavano le per- sone per bene. Questo prete era vera- mente un pessimo uomo, indegno del vestito che portava e pericoloso per i francesi contro i quali non cessava di sobillare, in sordina, le persone della campagna, ne avevamo le prove è que- sto fu il motivo del suo arresto. Ma egli aveva molte altre colpe. Il giorno successivo quando il colonnello volle par- tire, il prete, uomo grasso ed anziano, fu dichiarato inabile a camminare. Va bene, disse il colonnello, resterà qui sorvegliatelo fino a che sarà in grado di camminare, inviatelo a Monteleone sotto buona scorta Sorvegliatelo con cura e se cerca di evadere non lasciatevelo scappare.
Feci promessa di provvedere ed il colonnello partì portando via gli altri prigionieri.
Feci sistemare subito in una sala del castello il prigioniero. Questa sala aveva un balcone che dava sulla strada dove a qualche passo si trovava una sentinella. Vista la mole del detenuto, non feci molta attenzione a questo balcone, non immaginando che egli potesse tentare di discendervi. La notte seguente, un’ora prima del mattino, fummo svegliati da un colpo di fucile, saltai dal mio letto e corsi al posto per informarmi di quello che poteva essere successo. La sentinella ricaricava il fucile ed il caporale mi mostrò un uomo disteso sul selciato. Questi era il prete che nel mo- mento in cui saltava dal balcone sulla strada era stato visto dalla sentinella che dopo il “chi vive” di rigore, al quale il prete si era ben guardato dal rispon- dere, aveva preso la mira, premuto il grilletto e steso il fuggiasco. Il capitano della guardia civica che era accorso, guardava il cadavere ed esclamò senza mostrare emozioni.“Addio zio, in un altro caso ti avrei vendicato ma purtroppo lo meriti”. Feci togliere questo malvagio e nel giorno successivo spedii il mio rapporto che fu ricevuto con gioia perché si era ben felici di essersi liberati d’un uomo pericoloso che la sua carica sembrava proteggere ed era visto con inquietudine rappresentare una potenza ???Era sempre con ripugnanza e non senza qualche ti- more del popolo fanatico, che si era emigrarono nei paesi vicini e quindi “non si poterono disimpegnare i pubblici do- veri e non si fece l’esazione della tassa per la contribuzione fondiaria”.
In un rapporto del 1807 conservato presso l’Archivio di Stato di Napoli, pubblicato dal Mozzillo nelle sue “Cronache della Calabria in guerra”, il famoso abate Francesco Candidone, di anni 30 circa, originario di Rosarno, zio di Francesco Valensisi, informava che i francesi erano a Seminara da dove si spingevano verso Palmi.
La complicità di alcuni preti nei delitti commessi dalle truppe irregolari è provata dalla feroce reazione delle popolazioni durante la loro ritirata a seguito della loro sconfitta nella battaglia di Mileto del 1807, infatti gli abitanti di Rosarno che poco prima avevano subito la loro violenta occupazione uccisero, senza alcuna pietà, un intero gruppo di massisti che era sotto il comando del Padre domenicano Rosa, scaraventandoli da un precipizio.
Un altro prete associatosi ad una comitiva di briganti fu Ferdinando Rumbolà di Brattirò di Drapia che per salvare l’onore della sorella imbracciò il fucile e uccise il tenente francese che tentava di usarle violenza, per tale motivo fuggì e si unì alla comitiva di Orlando, queste notizie sono riferite da un suo diretto di- scendente l’avv. Pasquale Rombolà di San Ferdinando.
In anni passati il prof. Rocco Liberti è riuscito a consultare il manifesto dei ricercati nella Calabria Ulteriore, stampato all’inizio delle operazioni di repressione coordinata dal Manhes e conservato nella biblioteca comunale di Palmi. Questo importante documento era stato redatto in base alle informazioni date dai sindaci dei comuni e riportava per ogni ricercato l’importo della taglia nel caso di prova della sua uccisione o nel caso della sua cattura, è importante rilevare che quest’ultima eventualità veniva premiata con una maggiore somma.
Nell’articolo redatto dal prof. Liberti risultano come prelati il prete Giu- seppe Petroli di Squillace, Michele Ca- pris di Gizzeria, l’abate Giuseppe Melacrinis di Pedavoli, il sacerdote Giuseppe Di Fina di Sant’Onofrio che finì ucciso dal Bizzarro per aver avuto una relazione con la sua amante, il sacerdote Domenico Staropoli di San Giovanni, il sacerdote Antonio Lacquaniti di Mileto, il sacerdote Pietro Valenti Cardeo di Serra San Bruno che venne fucilato l’11 dicembre del 1810 per aver avuto dei rapporti con il capo dei briganti Impigna.
Invece non sappiamo il nome e le colpe di cui era reo l’arciprete di Molo- chio che per quanto riportato nei conti comunali di Oppido, da arrestato, in- sieme ad un brigante che si era presentato per l’amnistia ed alla moglie di questi, fu portato da Oppido a Rosarno il 22 maggio del 1810 da tale Calfapietra su ordine dell’ufficiale Pinart.
Molto importante è la diretta testimonianza di un sottufficiale francese del 20° reggimento di linea di presidio a Laureana su un altro sacerdote arrestato per connivenza con i briganti che venne ucciso mentre tentava di evadere dal palazzo Lacquaniti.
Le ricerche effettuate presso gli archivi parrocchiali mi permettono di precisare che si trattava del reverendo Vincenzo Protospataro, di 60 anni, la sua morte per “repentino ictu sclopli” è registrata nel libro dei morti della parrocchia di San Gregorio di Laureana in data 26 luglio 1809, tuttavia non è chiaro in quale comune il prelato praticava la sua attività sediziosa.
Secondo un rapporto dell’Intendente De Thomasis è certo che nei giorni della famosa spedizione navale della tarda primavera del 1809 e più precisamente il 15 giugno nel vicino paese di Giffone il prete, forse perché costretto, lesse al popolo il proclama degli inglesi e sollevò il tumulto che si propagò nei paesi vicini La quiete fu ristabilita in modo dram- matico con l’uccisione di più di venti per- sone a Cinquefrondi e con l’arresto nei giorni successivi di diverse persone.
Nelle sue memorie l’ufficiale fran- cese racconta che mentre era a Laureana vide passare delle persone arrestate.
L’ufficiale che li scortava gli disse
«Ecco le mie prede, questi buontemponi, probabilmente, finiranno a Monteleone tre piedi al di sopra della folla».
In mezzo a queste persone c’era un prete che era lo zio del comandante delle guardie civiche di Laureana, Don Nicolo Protospataro.
La famiglia Protospataro poteva vantare la presenza dell’antenato Scipione alla battaglia di Lepanto, il padre di Nicolò, Domenico, era stato capitano a Napoli.
Nicolò aveva sposato Giulia Sanchez nel 1792 ed aveva avuto tre figlie femmine.
Protospataro aveva ben due zii del ramo paterno entrambi preti ma di nome Fortunato e Carlo Antonio e quindi probabile che il reverendo ucciso di nome Vincenzo fosse un prozio.
Per come aggiunge nelle sue memo- rie l’ufficiale francese il comandante Protospataro invece di essere dispiaciuto dall’arresto dello zio era molto contento
perché lo accusava d’averlo voluto spogliare dei suoi beni e d’avere tentato di sedurre la sorella e la figlia, più precisamente racconta che:
«In breve era furioso contro di lui ed anziché intercedere in suo favore, era soddisfatto nel vederlo prigioniero. Il suo odio era condiviso per il disprezzo che di questo prelato portavano le per- sone per bene. Questo prete era vera- mente un pessimo uomo, indegno del vestito che portava e pericoloso per i francesi contro i quali non cessava di sobillare, in sordina, le persone della campagna, ne avevamo le prove è que- sto fu il motivo del suo arresto. Ma egli aveva molte altre colpe. Il giorno successivo quando il colonnello volle par- tire, il prete, uomo grasso ed anziano, fu dichiarato inabile a camminare. Va bene, disse il colonnello, resterà qui sorvegliatelo fino a che sarà in grado di camminare, inviatelo a Monteleone sotto buona scorta Sorvegliatelo con cura e se cerca di evadere non lascia- tevelo scappare.
Feci promessa di provvedere ed il colonnello partì portando via gli altri prigionieri.
Feci sistemare subito in una sala del castello il prigioniero. Questa sala aveva un balcone che dava sulla strada dove a qualche passo si trovava una sentinella. Vista la mole del detenuto, non feci molta attenzione a questo balcone, non immaginando che egli potesse tentare di discendervi. La notte seguente, un’ora prima del mattino, fummo svegliati da un colpo di fucile, saltai dal mio letto e corsi al posto per informarmi di quello che poteva essere successo. La sentinella ricaricava il fucile ed il caporale mi mostrò un uomo disteso sul selciato. Questi era il prete che nel mo- mento in cui saltava dal balcone sulla strada era stato visto dalla sentinella che dopo il “chi vive” di rigore, al quale il prete si era ben guardato dal rispondere, aveva preso la mira, premuto il grilletto e steso il fuggiasco. Il capitano della guardia civica che era accorso, guardava il cadavere ed esclamò senza mostrare emozioni .“Addio zio, in un altro caso ti avrei vendicato ma purtroppo lo meriti”. Feci togliere questo malvagio e nel giorno successivo spedii il mio rapporto che fu ricevuto con gioia perché si era ben felici di essersi liberati d’un uomo perico- loso che la sua carica sembrava proteg- gere ed era visto con inquietudine rappresentare una potenza ???Era sempre con ripugnanza e non senza qualche ti- more del popolo fanatico, che si era deciso di trascinare al supplizio un uomo appartenente alla chiesa. La popolazione fu subito istruita di questo avvenimento tragico ma vidi con piacere che nessuno prendeva interesse della vittima, pertanto conclusi che prima che lo arrestassimo doveva essere un grande scellerato. Del resto mi raccontarono su di lui delle cose raccapriccianti che io non racconterò qui. Malgrado tutto, il clero di Laureana mi chiese il permesso di rendere gli onori dovuti al suo grado sacerdotale ed io non mi opposi in nessun modo. In conseguenza fu condotto in grande pompa al sotterraneo della chiesa destinato alla sepoltura dei preti e la pietra tombale ricoperse la sua cattiveria ed i suoi crimini».
Infine è giusto parlare dei preti che non furono complici dei briganti ma su- birono le loro angherie.
Una delle prime vittime fu don Domenico Sbaglia, fratello della sposa di un mio antenato, che nel 1806 venne fucilato dalla comitiva di briganti originari di Pedace in ritirata a Mileto in piazza Avati insieme ad altre persone del paese. Sembra che fosse una persona di ecce- zionale cultura, in rapporti epistolari con gli scrittori dell’enciclopedia francese.
Dai racconti dello scrittore Lupis Crisafi risulta che nel 1807 il brigante Ronca si era asserragliato nei piani del Menta ovvero sulle montagne a ridosso del paese di Grotteria, da dove scorrazzava nella vallata del fiume Torbido e nel luglio di quell’anno raggiunse San Giovanni di Ge- race saccheggiò il paese e sequestrò alcuni abitanti che uccise sulle montagne in località Croce Ferrata, tra queste persone vi fu il sacerdote Michele Pittari. Inoltre, lo stesso Ronca, pochi mesi prima a Martone, aveva ucciso il sacerdote Luigi Belcastro ed il fratello Saverio. Nello stesso anno, durante l’avan- zata delle truppe di Philpstardt, le popolazioni subirono furti e rapine al punto che il governo francese volle in qualche modo rimediare distribuendo ben 100.000 ducati a tutte le famiglie che avevano subito lutti mentre altri 9.275 ducati furono successivamente stanziati per i danneggiati. Tra questi, nel Bollet- tino delle leggi, troviamo: il parroco Giuseppe A. Criscura, il canonico Giu- seppe Bosurgi, il sacerdote Giuseppe Battaglia, il sacerdote Vincenzo Gatto ed il sacerdote Pasquale Falduto.
Purtroppo, come allora, anche ai giorni nostri, le cronache della Calabria registrano vicende che coinvolgono reli- giosi in affari poco leciti.
Nihl novi sotto il sole dell’intera Calabria, Ulteriore e Citeriore!
Roberto Avati
fonte L’Alba della Piana