Alta Terra di Lavoro

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Prima fu Phalero, poi divenne Parthenope

Posted by on Nov 29, 2024

Prima fu Phalero, poi divenne Parthenope

Eumelo Falero, l’eroe che fondò Napoli.

E’ bene supporre che ci siano stati diversi momenti della fondazione di Napoli tra insediamenti, popolamenti, nuove conquiste e migrazioni; la città fu abitata prima da popoli trogloditi di razza egeo-pelesgica (neolitica) poi gli antenati dei greci come gli Ausoni e gli Apudi e altri come gli Achei e gli Opici e successivamente giunsero popoli ellenici come i Rodii, Calcidesi o Cumani, Teleboi, Corinzi e probabilmente i Fenici di cui si hanno testimonianze archeologiche.


Riguardo ai Micenei, si hanno labili testimonianze e si ipotizzano quattro insediamenti ad Ischia, Vivara, Afragola e al centro antico di Napoli, ma scarse sono le notizie sulla presunta Torre di Falero e della sua cittàcostruita circa cento – duecento anni prima della distruzione di Troia e prima di Parthenope.
L’autore dell’Illiade e dell’Odissea Omero, colloca la fondazione di Parthenope dopo la distruzione di Troia, localizzata attorno all’isolotto di Megaride (Castel dell’Ovo) antichissimo approdo costiero che dominava fino al monte Echia, l’attuale Pizzofalcone.

Recente è la notizia di uno studio di archeologia austriaca che rimetterebbe in discussione la datazione di alcuni eventi della Storia dell’antica Grecia avvenuti 50 0 150 prima di quanto si creda.

Sembra che i popoli italici, o almeno quelli che hanno sviluppato le loro civiltà sulle aree costiere della penisola, discendano quasi tutti dai coloni greci che, tra l’800 e il 700 a.C. diedero il via alla prima grande emigrazione nel mondo allora conosciuto alla ricerca di nuove e inesplorate terre di conquista e di commercio.

Nelle località occupate si stabiliva in permanenza un nucleo di abitanti che dava vita a una nuova comunità ellenica in mezzo alle popolazioni indigene lì dove erano presenti e tante città, anche quelle che oggi mostrano una grande rilevanza, ebbero origine dai loro primordiali villaggi.

Ogni città ha nella sua storia, una leggenda che ne ipotizza in maniera fantastica, la nascita. Ma Napoli è l’unica città greca che continua a vivere sui resti del suo primordiale villaggio, come si può immaginare la sua nascita a più di 2500 anni di distanza con poche testimonianze che non fanno altro che alimentare le sue leggende. Partiamo dal primo nome del nucleo abitato che non sembra essere “Partenope”, la madre genitrice non è la bellissima sirena che poi tanto “mezzo pesce e mezzo donna” non era, ma da un nobile valoroso avventuriero cretese, l’argonauta “Phalero”.

Egli era famoso per la sua partecipazione alla spedizione degli Argonauti guidati da Giasone con la sua nave Argo, alla ricerca del Vello d’Oro, un “leggendario manto dorato di un ariete alato capace di curare ogni ferita”, ma che in realtà probabilmente non erano altri che mercanti greci alla ricerca di guadagni. Quindi il primo insediamento che giunse a popolare l’attuale Borgo Marinaro di Santa Lucia e l’isolotto di Megàride, è associato al mito degli Argonauti che chiamarono il loro primo villaggio “Phalero” dal nome del loro condottiero, posticipando l’arrivo dei Cumani che, essendo di diversa fazione, ne cambiarono poi il nome in Parthenope.

In onore di Phalero fu costruita, circa cento o duecento anni prima della distruzione di Troia, una torre, un monumento a lui dedicato e realizzato nei pressi del nascente porto greco di Napoli.

Probabilmente la torre fungeva da faro (una sorta di “insegna pubblicitaria”) ai numerosi naviganti che percorrevano il Mediterraneo in tutte le sue rotte, e li aiutava a localizzare il piccolo insediamento, poichè Phalero inizialmente non era una vera e propria città ma solo un piccolo emporio, una sorta di stazione marittima dove le navi che si apprestavano ad affrontare l’ignoto o lunghi viaggi, sostavano qualche giorno per fare rifornimento di vettovaglie e scambiare la loro mercanzia.

Il golfo di Napoli costituiva la base migliore per l’espansione mercantile verso l’estremo Occidente, le rotte dirette verso la Sardegna, la Corsica, la penisola iberica e le attuali coste dell’Italia settentrionale e francesi erano preziose per il rifornimento di materiali pregiato, e nello stesso momento l’insenatura con le sue isole garantiva un ricovero sicuro alle navi ormeggiate.

E tutto questo sull’isolotto di Megàride, quella lingua di terra che sembra essersi staccata dal promontorio di Pizzofalcone e che da più di XV secoli ospita il Castel dell’Ovo.

Immaginate quest’isolotto come un mercato a cielo aperto dove chiunque proveniente da ovunque si fermava a trattare lo scambio di materie conosciute o ancora sconosciute e tutt’intorno, sulla terra ferma, la vista della rigogliosa vegetazione con i numerosi fiumi e ruscelli che dalla collina di Pizzofalcone, dal Vomero e da Capodimonte scendevano a valle riversandosi nelle acque del golfo.

Il Vesuvio ancora non era conosciuto, si credeva fosse un normale tipico monte ancora lontano dal presentarsi come uno dei più crudeli scherzi della natura. Le testimonianze dell’approdo di Phaleros sono riconducibili ad alcuni versi di Licofrone e di altri storici e letterati napoletani successivi; a parte il rinvenimento del villlaggio di Afragola (un villaggio miceneo risalente a questa epoca fu infatti scoperto nelle campagne afragolesi durante la realizzazione della stazione dell’Alta Velocità) e ad alcuni sporadici frammenti disseminati qua e là lungo la costa, non esistono ad oggi tracce archeologiche oggettive precedenti all’ondata calcidese. Recenti ritrovamenti collocano infatti l’insediamento di quest’ultimi sull’isola di Pithecusa nel IX secolo a.C.; di lì a poco, gli abitanti dell’isola delle scimmie – l’attuale Ischia – attraversarono la lingua di mare per sbarcare nei campi ardenti e fondare una delle maggiori città della Magna Grecia: Cuma. Chiunque sia stato lungo il promontorio di Posillipo, conosce la costa di Napoli per essere alta e rocciosa. La natura di queste roccie è vulcanica, di tipo tufaceo. Il mare aveva provveduto a scavare grotte naturali abitate già in epoca preistorica da un popolo che i primi greci non seppero come meglio definire se non “abitatori di grotte”, Opikoi.
Nel tratto di mare prospiciente la città di Napoli si erge un isolotto roccioso, sul quale s’innalza oggi il Castel dell’Ovo, che servì da approdo già ai naviganti fenici, se si vuole riconoscere nel nome di Megaris (Megaride) una derivazione dal punico. Se fu fenicio, Megaris non fu comunque mai uno stanziamento stabile ma piuttosto un emporio, una vera e propria piazza di mercato nella quale si riunivano i mercanti punici e le popolazioni autoctone per scambiarsi merci. Sarebbe difficile, infatti, giustificare altrimenti la successiva denominazione di Phalero, il primo nome vero e proprio di Napoli, se non pensando ad una guerra tra i preesistenti fenici ed i nuovi arrivati greci. La storia, normalmente generosa nel tessere le lodi di nuovi e vincitori dominatori, non ci lascia traccia di episodi cruenti, ma narra solo della colonizzazione guidata dall’eroe ateniese Eumelo Phalero, compagno di Giasone durante la sua ricerca del vello d’oro, arciere formidabile, in suo onore fu eretta una torre nel centro del porto dell’insediamento fondato sulla collina di Pizzofalcone, che da lui prese il nome. La Torre di Falero con il suo faro tingeva le acque di Napoli. C’è davvero qualcosa di particolare dietro questa mitica torre. D’altronde, Napoli è una delle città più antiche dell’Occidentee non è un caso che secondo la mitologia, le imprese di alcuni eroi siano partite spesso da qui. Lascia di stucco all’interno della chiesa di Sant’Eligio, una breve epigrafe su un busto di marmo che racconta le origini del misterioso eroe che fondò Napoli e la governò, Eumelo Falero.

Il porto di Napoli si dice fosse diorigine Micenea, ancora prima dei Cumani quindi. Eumelo Falero apparteneva proprio all’antica civiltà dei Micenei. Egli era il figliodell’eroico arciere cretese Alcone.Acquistando le doti del padre, il figlio Eumelo partecipò all’impresa degli Argonauti, guidati da Giasone alla ricerca del vello d’oro, il manto capace di curare ogni ferita. La torre di Phaleros è stata citata da diversi autori greci e latini, essa doveva presentarsi come una sorta di monumento al fondatore della città, un tributo di grande valore che sorgeva accanto al primordiale porto greco di Napoli e di cui si sono perse le tracce. Non si conosce la funzione di questa torre ma si suppone che serviva ai naviganti del Mediterraneo per orientarsi e localizzare la città, come una specie di faro, un simbolo, un punto di riferimento per chi giungeva sulle nostre coste. Intorno a questa mitica torre nacque la città di Phaleros. Stefano Bizantino che è stato un grande geografo bizantino ci fa sapere che Falero era una città degli Opici (antico popolo indoeuropeo che abitava in Campania) dove gettata dal mare, trovò ricovero la Sirena Parthenope. Secondo il grammatico bizantino Giovanni Tzetze commentando l’opera di Licofrone sostiene che questo Falero era un Tiranno di Sicilia che venne a fondare la città di Napoli attorno ad una torre ma secondo altri autori, Tzetze fece un mirabile errore, confondendo Faliride il Tiranno di Agrigento con il nostro eroe Falero …

Scrisse il poeta e drammaturgo greco Licofrone da Calcide nel IV sec. a.C.: «Poi che Ulisse avrà vinte le sirene, le tre figliuole di Acheloo, Parthenope (Napoli), Leucosia (Punta Licosa) e Ligea (Terina, Lamezia Terme in Calabria), una di esse sbattuta dal mare, accoglieranno la torre di Falero e le rive del Clani (Sebeto), e sul sepolcro che le sarà innalzato dagli abitatori di quelle contrade, le vergini, ogni anno, verranno a libare e a far sacrifici di buoi in onor di Parthenope, la Dea-uccello». In questi versi è citata la Torre di Falero in riferimento alla città e ai suoi abitanti che accoglieranno i resti mortali della sirena Parthenope, innalzandole un sepolcro. Il poeta romano Publio Papinio Stazio, nato e vissuto fino alla morte a Napoli nel I sec. d.C. cita l’eroe Falero, nelle Silvae: «e tu, Apollo, capo di quel popolo esiliato lontano, del quale la colomba, ancora accoccolata sulla sua spalla sinistra, Eumelo adora con amorevole culto». In questa versione viene citato Eumelo quindi Falero (eroe o città?) prediletto e devoto al culto del Dio del Sole.

Un’epigrafe di epoca medioevale rinvenuta nella Chiesa di Sant’Eligio e che un tempo doveva trovarsi sotto il busto di «Marianna ‘a capa ‘e Napule» (assoggettata a Parthenope) reca incise queste parole:

PARTHENOPAE . EUMELI . PHAERAE TESSALIAE .REGIS . FILIAE . PHARETIS . CRETIQUE REGUM .NEPTIS . QUAE EUBOEA . COLONIA .DEDUCTA CIVITATI . PRIMA . FUNDAMENTA IECIT . ET DOMINATA. ESTORDO . ET . POPULUS . NEAPOLITANUS . MEMORIAM AB ORCO . VINDICAVIT
Qui la storia si complica poiché recita: «A Parthenope, figlia di Eumelo re di Fera della Tessaglia, nipote di Farete e dei re di Creta, che con coloni partiti dall’Eubea (regione che comprende Calcide), diede alla città le prime fondamenta e la governò. Il popolo napoletano pose la sua memoria». Qui il mito di Falero si fonde con quello di Parthenope, dove la fanciulla (non sirena) è la principessa della Tessaglia, figlia dell’eroico Eumelo, discendente di una nobile stirpe imperiale cretese che fondò e governò Napoli.
Il fondatore della geografia storica Filippo Cluverio, riprende l’ipotesi di Falero nel 1600 e ne deduce: Neapolis urbs ante Parthenopes dicta est prius Phalerum– La città di Napoli prima era chiamata Parthenope e in principio Falero. Lo stesso Carlo Celano riprende il mito dell’Argonauta Falero nella storia delle origini di Napoli.

Ma il termine “Phalero” restò per un periodo di tempo relativamente breve, era il nome scelto dai primi insedianti, ma questa prima colonizzazione fu però talmente antica che, quando nel VII sec. a.C. i coloni di Kyme (Cuma) giunsero a Phalero per impiantarvi un emporio, la città si chiamò Parthenope.
Tra Phalero e Parthenope altri coloni greci erano passati (Ulisse fu solo uno dei tanti, il più famoso forse), e il luogo era stato ribattezzato.
Il fatto che il luogo sia stato ribattezzato non è evento di poco conto perché testimonia il passaggio da un gruppo di coloni, orgogliosi delle loro origini e dei loro antenati, ad un altro gruppo, devoto a quella figura mitologica che era la “sirena dalla voce virginale” Parthenope.
I due gruppi sarebbero provenuti da Atene e da Rodi, nell’Egeo orientale, dove il culto della sirena era diffuso, quindi sono certe almeno due colonizzazioni diverse. Il sopraggiungere di coloni Rodii è datato al IX sec. a.C., mentre tracce micenee rimontano a prima del XII sec. a.C.
Certamente non furono i cumani a dare il nome di Parthenope alla città: essi, di antenati calcidesi (da Chalkis, in Eubea), erano devoti ad Apollo, il massimo nume degli oracoli nel Pantheon greco, mentre abbiamo visto in un post precedente che la Sirena Parthenope era probabilmente legata ad un’altra tradizione oracolare, e pertanto in aperto contrasto con quella cumana. Quella dei cumani, nel VII sec. a.C., fu dunque la terza ondata di colonizzazione greca, ma non certo l’ultima. Anche i cumani si limitarono ad occupare la collina di Pizzofalcone, magari estendendo le mura dell’abitato preesistente, ma pare che anche sotto di loro Parthenope continuò ad essere un emporio, un mercato e non una vera polis. Ancora la leggenda dice che i cumani fondarono Parthenope per poi soffrire d’invidia nel vedere che la loro colonia diventava immensamente ricca. Secondo questa leggenda, i cumani decisero di radere al suolo Parthenope, salvo poi essere puniti per quest’azione fratricida con una terribile pestilenza. I cumani, terrorizzati dal morbo, andarono a chiedere un oracolo al tempio di Apollo a Delfi, e ne trassero l’istruzione di ricostruire la città.
Non c’è in realtà alcun bisogno di chiamare in ballo qualcosa di tanto odioso come il fratricidio: la storia cominciava a fare capolino sul suolo di Neapolis quando i Tyrrhenoi (gli Etruschi) raggiunsero la Campania e, conquistatone l’entroterra, trovarono i greci sulle sue coste. Parthenope, che non era un grande borgo, dovette essere temporaneamente abbandonata a sé stessa, perché troppo impegnativa da difendere. Ma nel 524 a.C., il tiranno cumano Aristodemos sconfisse gli Etruschi per terra, e nel 474 a.C., nelle acque di Cuma, la flotta cumana, appoggiata in maniera determinante da Gerone I di Siracusa, sconfisse quella etrusca, ricacciando definitivamente dal Tirreno meridionale le mire espansionistiche estrusche.
I siracusani chiesero una giusta ricompensa per l’aiuto prestato. Accanto alla vuota Parthenope sorgeva un altopiano assai scosceso su tutti e quattro i lati. A nord era protetto dal vallone dell’attuale Via Foria, ad ovest scorreva il Sepeithos (Sebeto), a est c’erano paludi, a sud era il mare.
Su quell’altura, dove preesisteva già qualche edificio, venne fondato un nuovo quartiere che ospitò un gran numero di coloni siracusani. Era nata Neapolis.

La leggenda narra che la Sirena Partenope si innamorò follemente di un centauro di nome Vesuvio. Ma purtroppo il loro amore venne interrotto da Zeus, che a sua volta era innamorato della splendida sirena. E così, la divinità greca trasformò Vesuvio in un vulcano, in modo che Partenope non sarebbe riuscita a toccarlo.

Se la data della fondazione di Phaleros e di Parthenope è tutt’ora celata dai tortuosi anfratti della mitologia, la nascita di Neapolis non solo è ampiamente documentata ma la sua testimonianza si palesa ancor oggi nell’assetto urbano del centro storico della città, esempio unico al mondo di stratificazione delle epoche. La nuova città germogliò su di una terrazza scoscesa sul mare, racchiusa tra il fiume Sebeto ad est, il mare a sud e da una vallata a nord oggi solcata da via Foria. Neapolis fu dunque fondata dai Cumani verso la fine del VI secolo a.C., e si rafforzò solo a seguito della guerra vinta contro la flotta Etrusca, grazie all’appoggio determinante degli alleati Siracusani.

I due nuclei urbani collocati nella baia di Napoli erano uno di fianco all’altro e abitati dal medesimo popolo; Partheope già mostra i segni del tempo e viene “ribattezzata” Palepolis, mentre il nuovo insediamento, in contrapposizione alla “vecchia città”, verrà chiamato Neapolis. Alla fine del V secolo a.C. vi furono alcuni eventi determinanti per lo sviluppo e la crescita della città: nel 423 l’espansionismo Osco provocò la caduta di Capua, e nel 421 capitolò anche Cuma. Gli abitanti in fuga trovarono rifugio tra le mura di Neapolis che resistette all’assedio grazie a un compromesso con le élite osche.

La città ebbe una crescita esponenziale assorbendo i rifugiati cumani e una folta colonia di siracusani e ateniesi che a più riprese popolarono la città. Da quel momento Neapolis si affermò sul golfo e sul Tirreno favorita dal rapporto privilegiato con Atene, al punto che lo stesso Pericle, il più celebre politico ateniese, favorì la crescita degli scambi commerciali tra le città, attingendo dalla Campania felix per ovviare al fabbisogno di derrate elleniche. Un flusso proficuo di cultura e di tradizioni che contribuì alla fioritura della civiltà occidentale. Dalla sua nascita, e per molti secoli ancora, Napoli fu da tutti considerata la città più ellenica della Magna Grecia.

La celebre scultura in marmo di Donna Marianna, l’erma dalla testa grande adornata da un’acconciatura prominente stile ellenico. ll busto in marmo fu rinvenuto attorno al 1594 nell’Anticaglia, la zona più antica di Napoli nel Decumano Superiore e secondo le prime ricostruzioni storiche, si ipotizzò che si trattasse della testa raffigurante il volto della sirena Partenope, il simbolo femminile per eccellenza della città. Se fosse umana avrebbe avuto gli occhi grandi neri e profondi, labbra piccole e carnose e un’età media che oscillerebbe sui trent’anni o poco più. Al tempo doveva essere molto bella. 
Che funzione aveva? Secondo gli studi effettuati da Carlo Celano nel suo volume “Notitie del bello, dell’antico e del curioso della città di Napoli” e quello del suo collega Giovanni Antonio Summonte in “Dell’historia della città e regno di Napoli” affermarono che molto probabilmente, trattatasi dell’antico busto della dea greca Afrodite l’allegoria della bellezza e dell’amore (che la città incarnava sin dai tempi remoti) individuati poi nello spirito di Partenope e doveva assolvere alla funzione religiosa, di culto. 
Infatti la scultura, secondo ipotesi, doveva esser collocata all’interno di un tempio pagano di origine greco-romano che sorgeva nel cuore del centro storico, votato alla dea Afrodite; la testa quando fu rinvenuta, possedeva un volume maggiore rispetto alle altre statue ritrovate di epoca classica sempre in zona, attribuite probabilmente ai culti per uso privato 

Storici, letterati e semplici curiosi sono alla ricerca della tomba di Partenope. Giovanni Boccaccio, nel Ninfale d’Ameto, risalente intorno al 1341-1342, racconta che il popolo dei cumani, durante gli scavi per la fondazione della città di Napoli, si era imbattuto in una tomba regale, che recava una scritta:
“QUI PARTENOPE, VERGINE SICULA, MORTA GIACE”. 
Suggestiva la storia che vorrebbe la tomba di Partenope scoperta e poi occultata sotto il tetto del teatro San Carlo, tanto che la statua che la raffigura si trova proprio sul tetto del massimo napoletano, nell’atto di incoronare due entità alate, rappresentate dalla musica e dalla poesia. Se invece ci rivolgiamo agli studiosi, tutti puntano il dito su una lapide millenaria, presente ancora oggi in San Giovanni Maggiore, che riporta l’iscrizione: “Omnigenum Rex Aitor Scs Ihs Partenopem tege fauste” (O Sole, generatore di tutti i beni, che passi nel segno del mese di gennaio, proteggi felicemente Partenope).

Napoli è una città in cui anche le favole danno il nome ai luoghi. Il Mito delle Origini vuole che la città sia stata edificata sul sepolcro di Partenope, la dea Sirena. Dunque a Megaride, dove si narra che Partenope (dal greco: vergine con voce di fanciulla) venne a morire. A Partenope – lo scrigno-madre, demone marino o uccello antropomorfo, umanizzata al punto da morire per amore e per questo simbolo di un destino tragico – i fondatori della città dedicarono un grande sepolcro, oggi perduto, che infiamma da sempre la fantasia degli storici, degli archeologi e dei poeti.
Fior di studiosi, da Bartolommeo Capasso a Mario Napoli, si sono interrogati in passato sul tempio perduto di Partenope e sulla sua esatta ubicazione. E nel corso dei secoli sono stati indicati vari siti. Caponapoli, l’Acropoli della città greco-romana, dove si veneravano gli dei, si combattevano i dèmoni, si officiavano sacrifici rituali; o la zona ai piedi del Monte Echia, che sarebbe poi diventata Santa Lucia inglobando molti misteri dell’antica Megaride; o, ancora, il vasto pianoro dove ora si trova il teatro San Carlo. La leggenda del «sepolcro perduto» si incrocia con il mito stesso della fondazione di Napoli, trasfigurato dalla fantasia e dalle tradizioni popolari.
Leggende a parte, un tempio dedicato al culto della Sirena venne realmente innalzato ma fuori le Mura, sulla fascia costiera, nella zona orientale di Napoli. Ed è sugli abissi del genius loci che si affaccia la nuova stazione Duomo del metrò, in piazza Nicola Amore, già definita la stazione-museo più bella del mondo proprio perché offrirà ai passeggeri la possibilità di ammirare i tesori del passato ritrovati nel sottosuolo. L’apertura della stazione, con annesso polo museale, è prevista per questa estate.
Anche se lo stato della ricerca non consente ancora di dare risposte definitive, gli studiosi sono concordi nell’ipotizzare che un luogo di culto dedicato a Partenope sorgesse nel luogo dove si svolgevano le gare più famose della Napoli greca: le corse lampadiche. È lo stesso sito dove l’imperatore Augusto, nel I secolo dopo Cristo, fece edificare un nuovo tempio (romano) che accolse i famosi Giochi Isolimpici.
L’appuntamento – per viaggiare ancora una volta nel tempo con L’Uovo di Virgilio – è dunque all’interno del cantiere, ormai quasi ultimato, della stazione firmata dagli architetti Massimiliano e Doriana Fuksas. Un’opera colossale (e travagliata, proprio per i continui ostacoli derivanti dal ritrovamento di preziosissimi reperti archeologici) che si sviluppa fino a una profondità di 40 metri sotto il livello stradale. Il tempio dei Giochi Isolimpici di Augusto si trova a una decina di metri di profondità. Era costruito su un podio posto al centro di un corridoio, o ambulacro, affacciato su uno spazio aperto, delimitato da un portico, identificabile con l’antico Ginnasio dove si allenavano gli atleti. Un luogo delle meraviglie affacciato sul mare.
I Giochi Isolimpici furono istituiti dall’imperatore proprio a imitazione dei Giochi che si svolgevano in Grecia, nel santuario di Olimpia, come è ormai accertato proprio grazie allo straordinario lavoro degli archeologi della Soprintendenza. Durante gli scavi sono venuti infatti alla luce, di questo tempio, colonne e decorazioni di marmo e un bellissimo pavimento a mosaico. Alla metà del II sec. d.C. l’edificio sacro è stato ricostruito (come gran parte della città, semidistrutta dall’eruzione del Vesuvio del 62 e 64 d.C. e dal terremoto del 78 d.C.) e circondato da un ambulacro rivestito in lastre marmoree. Il piano del tempio fu allungato, le mura del podio ricostruite e la prima decorazione architettonica sostituita. Il complesso si affacciava su un grande spazio aperto sul mare, forse destinato agli allenamenti degli atleti, bordato, come dicevamo, da un portico colonnato

fonte

https://unpopolodistrutto.com/page/3

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