PROF. ALESSANDRO BARBERO “ARRETIRATE” CHE FAI PIU BELLA FIGURA
Camorristi a Fenestrelle/2, domande e documenti di Roberto Della Rocca pubblicato il 21 agosto 2011
CASERTA – Come già annunciato in un precedente post pubblicato sul nostro blog il professor Alessandro Barbero ha replicato alla nostra dura presa di posizione seguita alla sua partecipazione alla trasmissione Superquark di due settimane fa. Durante quella puntata, partendo da nuovi studi su Masaniello, nel tentativo di tracciare una linea storica della criminalità organizzata partenopea sono stati citati, ribadisco in modo inopportuno, i prigionieri napoletani del forte di Fenestrelle. Premetto, prima di proseguire, che all’indirizzo istitutoduesicilie@gmail.com e alla mia mail personale (attraverso la quale ho inoltrato la missiva di contestazione alla redazione di Superquark) non è arrivata alcuna risposta e credo trattasi di un semplice problema telematico. Fortunatamente, tramite l’amico Raffaele Uccello abbiamo potuto conoscere il punto di vista del prof. Barbero e prendere atto della rettifica e delle parole positive spese per Napoli. Alcuni punti delle sue lettere meritano però di essere affrontati e val la pena spendere due parole in più prima di chiudere questa vicenda. Bene ha fatto l’amico Raffaele a chiedere maggiori spiegazioni sulle nuove teorie che vedono in Masaniello una figura negativa. Per quanto mi riguarda la mia reazione, un po’ sopra le righe per il professore ma frutto della tempesta di emozioni derivate dal suo intervento in tv (e dunque molto spontaneo e poco costruito), non ha nulla a che vedere con le nuove teorie su Masaniello. Se gli storici forniscono nuovi documenti ben vengano e se la vera verità emerge, bene è stato. Il problema vero, secondo me, è stato quello di voler tracciare una brevissima storia della camorra tirando in ballo una pagina tragica della storia napoletana (intendendo ovviamente la storia delle Due Sicilie), una storia di morte e di sangue che non merita di essere sporcata. Invece di accennare frettolosamente, come riconosce lo stesso Barbero, un tema, quello di Fenestrelle, che andrebbe invece discusso e dibattuto con tutto il tempo del caso, si potevano citare gli amici di Garibaldi, Liborio Romano e di Cialdini, quei vari Tore ‘e Criscienzo e i suoi degni compari di malaffare, Jossa, Capuano, Mele, Antonio Lubrano, Marianna De Crescenzo detta “ ‘a Sangiovannara” scortata dalle prostitute Rosa “’a pazza”, Luisella “‘a lum a ‘ggiorn” e Nannarella “‘e quatt’ rane”. Uomini e donne finiti in carcere grazie alle leggi del Re Borbone e liberati per via delle amnistie varate da Liborio Romano, ministro degli Interni, che fece poi arruolare i peggiori elementi nella Guardia Nazionale della capitale per meglio servire Garibaldi e Casa Savoia. Questi, gli uomini e le donne che più di Cavour e della Castiglione hanno contribuito a fare l’Italia, o meglio, a distruggere una nazione. Questo avrebbe dovuto dire il professore Barbero se avesse voluto tracciare una breve storia della camorra durante il periodo risorgimentale. Ovviamente questo non è stato fatto e da qui è nata la mia indignazione. Il professor Barbero parla, giustamente, del lavoro dello storico come di un lavoro basato sulla ricerca archivistica. Però, caro mio professore, i documenti vanno anche letti in una luce di obiettività. Che i magistrati del Re di Sardegna scrivessero sui loro rapporti che i napoletani fossero camorristi ci può stare ma uno storico onesto deve pur ammettere che si tratta di una fonte non proprio attendibile al 100% visto che accanto ai magistrati di Torino che davano dei cammoristi ai soldati di Napoli c’erano anche Cialdini, La Marmora e Cavour che i meridionali li hanno definiti beduini, affricani e briganti. Tutto questo è inaccettabile. Potrei citarle allora, ma lo ha già fatto Uccello, i tanti numeri di Civiltà Cattolica dove si denunciano i crimini piemontesi contro i 20-40mila soldati napoletani prigionieri ma so già che lei mi direbbe che Civiltà Cattolica non è attendibile perché di parte. E allora i magistrati piemontesi non sono di parte? Quei magistrati unitari che hanno negato le stragi più palesi ed evidenti (come Pontelandolfo e Casalduni, che solo dopo 150 anni hanno trovato un po’ di giustizia) avrebbero dovuto nel 1861 riconoscere che i prigionieri napoletani erano soltanto uomini d’onore fedeli a Dio e al Re? E’ una cosa assurda e la rimando ad un brano di de Sivo molto illuminante che pubblico in calce a questa mia. Potrei stare qui a citarle i tanti lavori e i tanti libri scritti di storici eccezionali ma poco conosciuti al grande pubblico perché scrivono opere contrarie alla vulgata dominante. Senza scomodare i de Sivo, i Molfese e gli Alianello, mi posso rifare ai più recenti lavori di Fulvio Izzo, che ha descritto i “Lager dei Savoia”, Valentino Romano, che è vicepresidente del centro studi sul Brigantaggio, Lorenzo Del Boca, giornalista autore di “Maledetti Savoia”, Fernando Riccardi e Orazio Ferrara, ricercatori attenti sui fatti del Brigantaggio meridionale, ma anche i lavori più recenti di Pino Aprile e Lino Patruno. Tutti loro hanno raccontato le miserie dell’unità e le tante falsità che sono state e che vengono raccontate. Grazie a loro le storie di Pontelandolfo, Bronte e Fenestrelle sono state riscoperte. E a questi se ne possono aggiungere tanti altri! Infine resta inevasa la domanda più interessante di tutte. Lei dice nelle sue lettere che il gioco d’azzardo era abituale nelle carceri. Ma cosa si giocavano i napoletani? Quei napoletani che, spogliati di tutto, dai vestiti alla dignità di uomini, sono morti di freddo e fame per conservare la cosa più importante di tutte, l’onore.
P.S. A proposito di documenti allego due brani della Storia del Regno delle Due Sicilie di Giacinto de Sivo dove si parla delle prigioni liberali facendoci capire quanto poco attendibili siano i documenti di certi magistrati, e il sesto capitolo del libro “Brigantaggio postunitario. Una storia tutta da scrivere” di Fernando Riccardi, dove si affrontano proprio i temi di Fenestrelle e delle soluzioni finali escogitate dai governi unitari contro i soldati meridionali, alla faccia dei fratelli d’Ita(g)lia!
Le prigioni liberali (Giacinto de Sivo)
Finiva l’anno 1861 più che il precedente per noi cruentissimo. La liberta del male quintuplicò i misfatti. Napoli, una delle ventiquattro province ora dette meridionali, ebbe 4300 reali di sangue, tra omicidii e ferite, non mai prima giunti a’ mille ; nè certo fur tutti denunziali alla potestà, molli tacendo pel Umore del [leggio. La statistica nota quell’anno sul solo reame continentale carcerati 47,700 persone, e fucilati 15,065 ; ma è accurata, in tanta confusione ? Che in Napoli solo fossero sedicimila carcerati disselo il deputato Ricciardi in parlamento il 27 giugno 1862. E che prigioni! vietalo a parenti vedere parenti, e a’ difensori i clienti ; non carta, non penne, non libri; ammonticati malfattori, e onest’uomini, preti, militari, nobili, dotti, contadini, marinari, soldati, ogni condizione, ogni età, avoli, figli e nipoti, tre e talora quattro generazioni, rei solo d’estere parenti o conoscenti di briganti. Anche mendici gittavano là dentro a punire la povertà, e sradicare con tal crudo modo l’indigenza. Zeppe tutte carceri col doppio che ne potevano capire, voltavano a carceri conventi e chiese. La gente nuda, in ceppi, tra pidocchi e fetore, su nude selci, senza coperte, senza luce, senza passeggio, per anni lunghi, sentir fuori le grida e i lagni delle mogli e de’ figli, nè poterli abbracciare. Dell’ orribile pane quasi pasta cretosa, i carcerati di Palermo facevano pipe, e davanle per irrisione a’ passanti. Spesso la potestà non sapeva i nomi de’prigioni, ne li colpa, nè i tribunali competenti a giudicarli ; si scorrevano mesi e anni, o taluno per disperazione s appiccò alla grata.
Pertanto frequenti tumulti e uccisioni tra quelli animi esacerbati ; colpi tra loro e i custodi, fucilate in frotta dalle sentinelle, ribellioni, furti, vizio e abbrutimento. E quanti Innocenti in quelle bolge! Re Ferdinando vi tenea soldati veterani a custodi la rivoluzione a premiare suoi terribili ausiliarii, quelli scacciò, posevi galeotti vecchi e camorristi, meritevoli d’avere gridato, o lavorato col coltello a quella libertà ;i quali orrendi carcerieri svelenivansi su vittime infelici ; spesso battiture, incatenamenti, torture atroci, busti ferrati, e anco a preti e fanciulli : nè placabili se non per prezzo. Sessanta de’ primari avvocati napolitani protestarono in iscritto contro gli abusi e le illegalità governative nel trattamento de’ carcerati. Accuse aspre anche nelle camere risonarono ; s’accusò la fame, il pane, le battiture, le torture, indarno! E con tanti carcerati sempre carcerare; dicevanlo giustizia, fare la Patria, creare l’Unità. I giudizii, mancando il fondamento legale, si ritardavano, per fabbricarvi calunnie, per dare la pena senza la condanna; e i magistrati (come fè il Tofano) vantava sene, quale affetto alla causa patria. Quando i sospirati giudizii seguivano, o vedevi i giurati, plebe ignara o compra, giudicare secondo imbeccata o passione. E anco dichiarata l’innocenza, la polizia non ubbidiva; ché per la lettera del Conforti del 16 ottobre 61 riteneva in carcere i giudicati innocenti. In quelle vantate costituzionalità la potestà giudiziaria a quella di polizia sottostava.
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Deportazione e “soluzione finale” (di Fernando Riccardi, tratto da Brigantaggio post unitario. Una storia tutta da scrivere)
Vi sono eventi della nostra storia che sono stati artatamente cancellati, occultati, nascosti, sepolti sotto una spessa coltre di oblio.
Alzi il dito chi conosce sia pure per sommi capi, la triste sorte riservata a migliaia e migliaia di meridionali rinchiusi nei campi di concentramento del nord Italia all’indomani del 1860, dopo il dissolvimento dello stato borbonico e l’avvento dei piemontesi nel sud della Penisola.
Eppure in tanti sono morti fra gli stenti, le privazioni, i maltrattamenti, le esecuzioni sommarie nei lager allestiti dai Savoia.
Per tanti, lunghi, interminabili decenni, una storiografia partigiana, scorretta e compiacente, si è impegnata, con tutte le sue forze, a celare, una verità che pure appare inconfutabile e palese.
Ma procediamo con ordine e, soprattutto, cerchiamo di inquadrare in maniera chiara, senza preconcetti né artifizi, la questione.
Dopo la caduta repentina dell’apparato borbonico il neonato governo sabaudo si trovò, tra le altre cose, a dover fare i conti con una massa davvero ingente di militari sbandati.
L’esercito napoletano non esisteva più e in tanti si erano trovati disperati e senza lavoro.
Né le varie campagne di arruolamento varate dal governo piemontese ri erano rivelate fruttuose.
Nelle ripetute chiamate alle armi, infatti, si registrò, sempre e comunque, un altissimo numero di renitenti.
In pochi mesi, a quei militari che erano stati fatti prigionieri nel corso degli eventi bellici e a quelli delle fortezze che avevano resistito ad oltranza all’assedio dei piemontesi (1), si aggiunsero tutti coloro che, per non sottostare alla leva obbligatoria, dopo essersi rifugiati sulle montagne trasformandosi in briganti, erano stati catturati nel corso dei vari rastrellamenti.
Un numero ingente di prigionieri, difficilmente quantificabile con matematica precisione.
Di certo, però, essi ammontavano a parecchie decine di migliaia.
Il governo sabaudo, trovandosi di fronte ad una vera e propria emergenza che rischiava di esplodere da un momento all’altro (tutto il meridione era infiammato dalla rivolta brigantesca), in un primo momento, si limitò a rinchiudere tali prigionieri nelle malsane e insufficienti carceri del sud Italia.
Subito dopo, però, intuendo la pericolosità della situazione, escogitò un “piano di evacuazione”’ trasferendo via mare gli ex soldati napoletani al nord, lontano dai focolai di rivolta.
Il porto di arrivo dei bastimenti era soprattutto Genova.
Da qui i prigionieri venivano smistati nelle varie località di destinazione.
Le principali erano: Fenestrelle, piccola località della valle del Chisone, ad un centinaio di chilometri da Torino, dove esisteva una imponente fortezza; San Maurizio Canavese, alle porte di Torino; e poi Alessandria, Milano, Bergamo e così via di seguito.
Qualcuno fu anche rinchiuso a Genova, nel forte di San Benigno.
Migliaia di altri meridionali dalla variegata composizione (ex ufficiali e soldati, briganti, renitenti alla leva, oppositori politici o presunti tali, vagabondi, camorristi) vennero confinati in varie isole della Penisola: Gor-gona, Elba, Giglio, Capraia, Ponza.
Più di 12.000, soprattutto ufficiali e veterani borbonici, che si erano rifiutati di continuare la loro carriera militare nell’esercito sabaudo, furono trasferiti in Sardegna, sulle isole napoletane o nella Maremma Toscana, sottoposti al regime del domicilio coatto, come prevedeva la famigerata “legge Pica”.
Nei campi di raccolta e nelle prigioni, costrette ad accogliere molte più persone di quante ne potessero contenere, le condizioni igienico-sanitarie e ambientali erano disastrose e, ben al di là di ogni decenza.
Su “Civiltà Cattolica” così si legge:
… negli Stati sardi esiste proprio la tratta dei Napoletani. Si arrestano da Cialdinì soldati napoletani in grande quantità, si stipano ne ‘ bastimenti peggio che non si farebbe degli animali, e poi si mandano in Genova. Trovandomi testé in quella città ho dovuto assistere ad uno di que ‘ spettacoli che lacerano l’anima. Ho visto giungere bastimenti carichi di quegli infelici, laceri, affamati, piangenti; e sbarcati vennero distesi sulla pubblica strada come cosa da mercato. Alcune centinaia ne furono mandati e chiusi nelle carceri di Fenestrelle; un ottomila di questi antichi soldati Napoletani vennero concentrati nel campo di S, Maurizio… (2)
Trattati come animali, ammassati nei bastimenti, senza mangiare e bere per giorni, i poveri meridionali, colpevoli soltanto di essere rimasti fedeli al loro Re, vennero sbattuti in terre che non conoscevano, fredde, in campi di concentramento inospitali, lontano dai loro affetti e dai loro cari.
Molti non riuscivano a sopportare la disperazione e il disagio e decidevano di mettere fine alla grama esistenza e gettandosi in mare.
A Rimini il mal umore nei soldati giunge fino alla disperazione di darsi la morte. Parecchi si sono annegati nel mare volontariamente. Sicché dovettero le autorità porre delle guardie in piccole barchette per impedire simili eccessi (3) .
Per quelle migliaia e migliaia di sventurati si prospettava una esistenza difficile e problematica.
Così ancora “Civiltà Cattolica”’:
Per vincere la resistenza dei prigionieri in guerra, già trasportati in Piemonte o in Lombardia, si ebbe ricorso ad un espediente crudele e disumano, che fa fremere. Quei meschinelli, appena coperti da cenci di tela, rifiniti di fame perché tenuti a mezza razione con cattivo pane ed acqua ed una sozza broda, furono fatti scortare nelle gelide casematte di Fenestrelle e d’altri luoghi posti nei più aspri luoghi delle Alpi. Uomini nati e cresciuti in un clima sì caldo e dolce, come quello delle Due Sicilie, eccoli gittati, peggio che non si fa coi negri schiavi, a spasimar di fame e di stento fra le ghiacciaie. E ciò perché fedeli al loro giuramento militare ed al legittimo Re! Simili infamie gridano vendetta da Dio, e tosto o tardi l’otterranno (4).
Da queste testimonianze inequivocabili si può comprendere quale sorte il governo piemontese volle riservare ai soldati e ai contadini napoletani che, nel breve volgere di pochi mesi, in maniera repentina, avevano visto dissolversi, come neve al sole, la loro amata patria.
Sulla “Gazzetta di Napoli” del 5 dicembre del 1862 è riportata una petizione di un gruppo di detenuti napoletani indirizzata al deputato Ricciardi affinché egli potesse riferire in Parlamento l’infima situazione delle carceri di Napoli, identica, poi, a quella di tutte le altre dislocate sul territorio della Penisola.
Attenzione al dato temporale: siamo alla fine del 1862, a quasi due anni dall’avvenuto processo di annessione del meridione al resto d’Italia.
Signori, in nome dell’umanità supplichiamo giustizia per poveri chiusi in questo serraglio di Napoli come tante fiere. Da che è venuto il sopraintendente de Biasio credevamo d’essere trattati meglio; ed invece stiamo peggio di prima. Questo superiore ha organizzato una camorra spaventevole. Pochi favoriti e favorite hanno il letto, e la maggior parte dei poverelli reclusi sono ignudi e cenciosi, pieni di pidocchi, sulla paglia. Quel poco di pane nerissimo e quel poco di polenta che si dà per cibo, per una piccola scusa si leva a quattro o cinquecento al giorno; e se qualcheduno parla, o minaccia di ricorrere, è attaccato di mani e piedi per più giorni. Varii infelici compagni, risentiti del mal governo, sono stati attaccati dai piedi e sospesi in aria col capo sotto, ed uno si fece morire in questa barbara maniera soffocato col sangue; e molti altri non si trovano più né vivi né morti. E’ una barbarie, Signori. Per Maria Vergine, metteteci la vostra mano; liberatici da questa setta di ladri. Il sopr aintendente de Biasio è un cane, che divide con gli altri. Noi non abbiamo a chi ricorrere, né ci azzardiamo a ricorrere per non soffrire peggio. Se sapessero chi ha scritto questa carta, sarebbe ucciso, come capitò ad un altro povero giovinotto, che ricorreva ai superiori contro le infamità loro. Non posso riferirvi tutto ciò che si conta… dovrebbero parlare le muraglie! Tanto sperano i poveri del serraglio, e l’avranno a grazia..(5)
E come questa, di testimonianze drammatiche su ciò che accadeva nelle prigioni del regno d’Italia, in quel drammatico decennio, se ne possono riportare tantissime.
Ma il tenore è sempre lo stesso.
Ciononostante, pur costretti a subire una prigionia atroce i napoletani, nella gran parte dei casi, seppero conservare una dignità davvero ammirevole, difficile da riscontrare in gente così semplice, di poca o nessuna istruzione, abituata, da anni, a servire la patria e a chinare ogni giorno la schiena nel duro e assai poco redditizio lavoro nei campi.
Pur allettati da proposte ammalianti in pochi decisero di entrare nell’esercito piemontese, specialmente per non venire meno a quel giuramento di fedeltà prestato al momento dell’arruolamento nelle forze armate di sua maestà borbonica.
Quasi tutti preferirono affrontare il disumano regime carcerario, gli stenti, le umiliazioni, i maltrattamenti, i morsi della fame e della sete, le malattie e, persino, la morte, pur di non chinare la testa di fronte a quelli
che consideravano crudeli usurpatori.
“Civiltà Cattolica”, al riguardo, racconta un episodio assai indicativo. Un avvocato e un ufficiale dell’esercito, un giorno, si recarono presso una prigione di Milano per visitare i reclusi napoletani e per cercare di convincerli ad abbracciare la causa sabauda, arruolandosi nell’esercito piemontese.
Ma quelli, i prigionieri,
recatisi in atteggiamento nobilmente altiero, che faceva singolare contrasto coi cenci ond’erano coperti, risposero ricisamente: ‘Uno Dio ed uno Re!.(6)
Con il passare dei mesi gran parte degli ex soldati napoletani venne trasferita nei lager del nord Italia.
In tal modo i governanti piemontesi speravano di aver risolto definitivamente il problema.
Avevano, infatti, allontanato dai focolai della rivolta migliaia e migliaia di persone, tenendoli distanti dai briganti che stavano infiammando con la loro sollevazione tutta la parte meridionale della Penisola.
Non avevano, però, considerato un altro problema che, ben presto, si presentò come impellente.
I prigionieri napoletani ammassati nelle prigioni del nord, con il trascorrere del tempo, erano diventati in numero così ingente da rendere impossibile o quasi il mantenimento dell’ordine pubblico.
Un po’ dappertutto, nelle prigioni, scoppiavano rivolte, sommosse, tentativi di fuga che a stento venivano repressi, spesso nel sangue, dalle guardie preposte alla sorveglianza.
Persino nella fortezza di Fenestrelle vi era stato un tentativo di ammutinamento da parte di una cinquantina di prigionieri napoletani che avevano tentato di impadronirsi della stessa. (7)
E più o meno la medesima cosa si era verificata nel campo di San Maurizio, alle porte della capitale sabauda.
La situazione per i piemontesi non era semplice.
Non si può ignorare, infatti, che in quel periodo gran parte degli effettivi dell’esercito sabaudo si trovavano dislocati nell’Italia meridionale, nel tentativo di soffocare la rivolta brigantesca che si faceva sempre più audace.
Basti pensare che nell’inverno 1862-63 il VI Gran Comando di Napoli, che dirigeva le operazioni contro il brigantaggio, poteva disporre di 17 reggimenti di fanteria, 51 reggimenti di granatieri, 22 battaglioni di bersaglieri, 8 unità di cavalleria oltre ad artiglieria e genio, per un totale di 105.000 uomini. (8)
E allora cosa ti inventò la fervida mente dei governanti sabaudi? Una mirabolante “soluzione finale”.
Nel tentativo di sgombrare le prigioni del regno da quella massa pericolosa di ex soldati borbonici, renitenti alla leva, nostalgici, prigionieri politici, briganti o pseudo tali, si pensò bene di “sistemarli” in un posto dove non avrebbero dato più fastidio.
Il progetto era quello di riuscire ad ottenere dal governo portoghese la concessione di un’isola disabitata nel bel mezzo dell’Oceano Atlantico dove “depositare” i prigionieri, togliendoseli, così, definitivamente di torno.
A tale scopo, il ministro degli esteri, Giacomo Durando, aveva interpellato il D’Apice, un viaggiatore, esperto conoscitore delle colonie portoghesi dell’Oceania, il quale aveva indicato Goa, Macao, Timor e Mozambico (9)
Per fortuna i portoghesi opposero un netto rifiuto e l’infame disegno non andò in porto.
Nel novembre del 1862 Della Minerva, l’ambasciatore italiano a Lisbona, relazionando sulla pratica al ministro Durando, così scriveva:
…la divulgazione di un dispaccio telegrafico… ove si parla… di un negoziato fra l’Italia e il Portogallo per la cessione di un’isola dell’Oceano al fine di deportarvi i galeotti, ha suscitato una tale ripugnanza nell’opinione pubblica e nella stampa che il ministero ha già fatto smentire questa notìzia. Penso che per il momento sarà meglio soprassedere a questo progetto per potere avere più appresso una maggiore possibilità di successo (10)
Parole che attestano senza pecca l’enormità del progetto che persino l’opinione pubblica di un paese straniero, per niente coinvolto negli accadimenti italici di quel periodo, ebbe modo di considerare ripugnante.
Ma se tale era il progetto per i portoghesi, non così stavano le cose per i governanti piemontesi sempre fermamente intenzionati a procedere con la “soluzione finale”, malgrado le grida di disapprovazione che si levavano sempre più alte in tutta Europa e, persino, in seno al Parlamento italiano.
E così, qualche tempo dopo, il governo Minghetti affidò alla marina militare il compito di allestire una fregata “destinata a portarsi nei mari dell’Australia per studiare la possibilità di impiantarvi uno stabilimento penale” (11)
Anche questa ulteriore iniziativa, però, ben presto fallì soprattutto a causa della
vivace opposizione francese che impedì ogni ulteriore negoziato, con imbarazzo e rammarico del governo italiano che aveva realmente pensato ad una espansione futura sotto la copertura dell’istituzione di colonie penali (12)
Ma non è finita qui.
Nel 1868, in un momento in cui la rivolta brigantesca era sul punto di esalare il suo ultimo sussulto, le grandi menti savoiarde tornarono alla carica per sbarazzarsi, e in maniera definitiva, di quella massa sempre più numerosa di meridionali che da anni, ormai, marcivano nelle putride galere della Penisola.
Questa volta Menabrea, Presidente del Consiglio e ministro degli esteri, affidò ai suoi funzionari il compito di contattare la Repubblica Argentina.
Era stata persino individuata la regione nella quale sarebbe dovuto sorgere lo stabilimento penale: la Patagonia, una landa desertica e inospitale che si prestava meravigliosamente alla bisogna.
La scelta non era stata operata a caso.
L’Argentina aveva un debito di riconoscenza nei confronti del nostro paese dal momento che numerosi volontari italiani avevano preso parte alla guerra civile.
Senza dimenticare, poi, che Giuseppe Garibaldi aveva comandato, per qualche tempo, la flotta di quel paese.
Ma, ancora una volta, per fortuna, il progetto naufragò prima ancora di nascere.
Alla fine dell’anno, infatti, l’ambasciatore Della Croce comunicò a Me-nabrea la decisione del governo argentino di non poter venire incontro alla singolare richiesta italiana.
Un po’ per non consentire l’ingerenza di un altro stato sul proprio territorio.
E poi per non andare incontro alla generale disapprovazione dell’opinione pubblica come già era accaduto, del resto, qualche anno prima, al tempo dei contatti italiani con il governo portoghese (13)
E così, nonostante gli sforzi e i reiterati tentativi, la questione restò irrisolta.
Le migliaia e migliaia di prigionieri napoletani rimasero stipati nelle luride carceri italiane in condizioni di vivibilità disumane e raccapriccianti.
Difficile, se non impossibile, stabilire con precisione il numero di meridionali coinvolti in questa massiccia ondata di deportazione verso l’Italia settentrionale.
Le cifre sono ballerine e fanno riscontrare, a volte, differenze anche sensibili.
Si possono, però, fissare dei paletti o, meglio, dei parametri numerici ben precisi e, quindi, muovendosi all’interno di essi, argomentare il ragionamento con discreta possibilità di fare più o meno centro.
Tenendo presente, ovviamente, che le cifre di cui daremo conto, non si riferiscono solamente ai prigionieri indirizzati verso il Nord ma, più in generale, ai meridionali che ebbero la sventura di transitare nelle orride carceri della Penisola dopo il 1860. Nel gennaio del 1861, riprendendo fonti del ministero della guerra, il già citato giornale “L’Armonia” parla di 1.700 ufficiali borbonici prigionieri e 24.000 militari di truppa (14)
A questi vanno aggiunti i soldati catturati dopo la capitolazione delle fortezze di Gaeta, di Messina e di Civitella del Tronto che raggiungevano, più o meno, il numero di 17.000.
E poi le migliaia di sbandati che alla fine delle ostilità si trovarono di colpo senza lavoro: di essi, molti ritornarono a casa cercando disperatamente di trovare un’occupazione o una terra da coltivare per mandare avanti la famiglia.
Tanti altri, invece, salirono sulle montagne, si diedero alla macchia e diventarono briganti.
Per dare anche qui dei riscontri numerici veritieri basti ricordare che nel 1860, nel momento in cui Garibaldi compiva la sua mirabolante impresa “volando”’ da Quarto al Volturno, l’esercito napoletano di Francesco II di Borbone, poteva contare su ben 90.000 uomini!
Per non parlare, poi, dei moltissimi renitenti alla leva, che alimentarono, per anni, il brigantaggio nel sud d’Italia.
Anche qui i numeri risulteranno più significativi di qualsiasi commento.
Nel gennaio del 1861 la chiamata alle armi, organizzata in tutta fretta dai governanti piemontesi nelle province meridionali (si aveva un disperato bisogno di rafforzare l’esercito per non correre il rischio di sguarnire pericolosamente altri fronti caldi, specie quelli del nord Italia), fruttò soltanto l’arruolamento di 20.000 persone mentre negli elenchi della leva ne erano iscritte più di 72.000.
Ciò significa che oltre 50.000 meridionali disertarono, imboccando, nella gran parte dei casi, una strada che li conduceva al di fuori della legalità.
Infine, in tale elenco, per forza di cose incompleto e lacunoso, vanno inseriti tutti coloro che incapparono nei rigori della “legge Pica” che, varata dal governo sabaudo il primo settembre del 1863, restò in vigore fino al 31 dicembre 1865.
Cercando di tirare le somme, quindi, furono decine e decine di migliaia quei meridionali che incapparono nei metodi repressivi dei piemontesi, sempre più desiderosi di normalizzare con le buone ma, soprattutto, con le cattive, una situazione che rischiava di sfuggire loro di mano.
Molti, anzi, moltissimi di essi furono trasferiti come bestie nel nord Italia dove vennero ammassati, senza ritegno, nei centri di raccolta e nei campi di concentramento, una sorta di “lager” ante litteram.
E se la “soluzione finale” escogitata dal governo sabaudo in un’isola sperduta dell’Atlantico o nella inospitale Patagonia non andò in porto, fu soltanto perché qualcuno, intuendo l’abnormità della richiesta, pensò bene di opporvisi.
E costoro non furono, di certo, i governanti della neonata nazione italiana.
Eppure, nei loro proclami, riferendosi ai napoletani, li chiamavano “fratelli” \
Ecco, quindi, delineata, sia pure per sommi capi, una triste vicenda che per tanto, troppo tempo è stata completamente rimossa dalla storiografia ufficiale, sempre più smaniosa di far rifulgere l’inclita epopea risorgimentale.
Questa scientifica operazione di “damnatio memoriaé” che storici compiacenti e prezzolati hanno messo in atto con ferrea determinazione ed inappuntabile dedizione, non ha tenuto conto, però, della esigenza di verità che accompagna ogni umano anelito.
E così ricercatori instancabili, alieni da qualsivoglia logica politica e di schieramento, desiderosi di far conoscere e di rendere note vicende sepolte ad arte sotto la densa polvere del tempo, hanno, pian piano, scalfito quella dura e quasi impenetrabile corazza, iniziando ad estrapolare dagli archivi documenti inequivocabili che aspettavano soltanto di essere tirati fuori e di essere letti e analizzati con rigorosa obiettività.
E’ venuta fuori, in tal modo, un’altra storia, una storia diversa, inedita, sorprendente, forse meno lucente di quella ufficiale, sicuramente ancora poco conosciuta, di serie B, ma che, nonostante tutto, inizia a farsi largo un po’ dappertutto.
Tali documenti, tali carte, parlano chiaro e, soprattutto, possiedono una forza, un’energia che non sarà facile debellare né piegare a perniciose logiche di parte.
La forza della verità che per tanto tempo è stata negata, bandita e che, invece, sempre più prorompente e inarrestabile, sgorga copiosa e cristallina.
NOTE
(1) Le fortezze di Gaeta, Messina e Civitella del Tronto resistettero per parecchi mesi all’assedio e ai cannoneggiamenti dell’esercito piemontese nel tentativo di dimostrare al mondo intero che il vessillo borbonico sventolava ancora in qualche piccolo angolo di meridione. Fu un sacrificio eroico ma inutile: nessuno volle o seppe portare aiuto a quel manipolo di prodi che combatteva una guerra ormai abbondantemente persa. E così, ad una ad una, anche quei baluardi si arresero alla preponderanza del nemico. La prima a cedere fu Gaeta (13 febbraio 1861); seguirono, poi, in rapida successione, Messina (12 marzo 1861) e, infine, Civitella del Tronto (20 marzo 1861)
(2) Civiltà Cattolica, serie IV vol. IX, 1861, p. 752
(3) L’Armonia, 3 settembre 1861, n. 206
(4) Civiltà Cattolica, serie IV vol. IX, 1861, p. 367
(5) Fulvio Izzo, op. cit., pp. 110/111
(6) Civiltà Cattolica, serie IV vol. IX, 1861, p. 306 e ss.
(7) I prigionieri, infatti, preparano per il pomeriggio del 22 agosto (1861 n.d.a.) un piano di sollevazione tendente ad impadronirsi della fortezza. Approfittando dell’assenza degli ufficiali che alle sei di sera sono in paese per la mensa, e dei soldati che a quell’ora sono in libera uscita, i cospiratori, circa un migliaio, divisi in quattro gruppi, avrebbero dovuto impadronirsi del comando di piazza isolando l’ufficiale di guardia e gli altri militari estranei alla congiura, chiudere le porte della fortezza, impossessarsi del magazzino delle armi ed occupare tutti gli altri punti strategici. Attivato poi, un servizio di difesa dell’intero forte e preso possesso del denaro del Corpo sarebbero usciti in bande allo spuntar del giorno seguente per occupare la cittadella e i paesi viciniori. Poche ore prima, però il disegno viene scoperto e, grazie all’energia del comandante e degli ufficiali, i rivoltosi sono disarmati, arrestati e messi in condizione di non nuocere; oltre alle armi viene sequestrata una bandiera borbonica” (Fulvio Izzo, op. cit., p.66).
(8) Franco Molfese, op. cit., pp. 181/182
(9) Ivi, p. 275
(10) Fulvio Izzo, op. cit, p. 146
(11) Franco Molfese, op. cit., p. 275
(12) Ibidem
(13) Ivi, pp. 147 e ss.
(14) L’Armonia, 26 gennaio 1861, n. 23, rubrica “ultime notizie”