Quando i gesuiti difendevano i briganti
«Questo, che voi chiamate con nome ingiurioso di Brigantaggio, non è che una vera reazione dell’oppresso contro l’oppressore, della vittima contro il carnefice, del derubato contro il ladro, in una parola del diritto contro l’iniquità.
L’idea che muove cotesta reazione è l’idea politica, morale e religiosa della giustizia, della proprietà, della libertà». Rispondeva così, nel novembre del 1863, il padre gesuita Carlo Piccirillo sulle pagine di “Civiltà cattolica” all’inchiesta che il Parlamento italiano, su iniziativa di Giuseppe Massari, aveva ordinato per indagare sulle cause del brigantaggio nelle province meridionali da poco annesse al Piemonte liberale.
La Relazione Massari individua i motivi del fenomeno essenzialmente nell’ambito sociale ed economico. Riducendolo a un «semplice» problema di ordine pubblico le cui radici erano da ricercare nella povertà di quelle lontane regioni, nella corruzione diffusa e in una generale disposizione alla delinquenza dei suoi abitanti. Al contrario, per la rivista gesuita il brigantaggio, «una delle piaghe più cancrenose del preteso regno d’Italia», rappresentava la resistenza armata del popolo contro il nuovo ordine liberale, laicista e centralizzatore e contro un’invasione che lo spogliava della propria libertà, della ricchezza e dei legittimi sovrani. Per i padri gesuiti non ci sono dubbi: «La cagione del brigantaggio è politica, cioè l’odio al nuovo governo».
Si trattava «del rifiuto del nuovo sistema di governo che in pochi anni ha immiserito la popolazione, ha imposto una fiscalità gravissima, ha fatto regredire le istituzioni educative, ha creato le condizioni per la concentrazione della proprietà in poche e spregiudicate mani», come scrive Giovanni Turco nell’introduzione al volume “Brigantaggio. Legittima difesa del sud” (editoriale Il Giglio, pagg. 168, lire 30mila). Un libro che raccoglie per la prima volta gli articoli dedicati da “Civiltà cattolica” tra il 1861 e il 1870, in piena «guerra di sterminio», al brigantaggio e alla terribile repressione che il neonato Stato italiano mise in atto per annientarlo. I nove articoli, dei quali si forniscono anche i nomi degli autori (in origine anonimi) costituiscono il primo, esplicito, tentativo di «processo al Risorgimento» in un momento in cui all’unificazione mancavano i territori dello Stato pontificio. I padri Carlo Maria Curci, Carlo Piccirillo, Matteo Liberatore e Raffaele Ballerini demoliscono coi loro scritti la tesi che presentava il brigantaggio come endemico nel sud, finanziato dall’esterno (i borboni cacciati dal trono) e legato a fattori di carattere puramente economico e sociale. Guerra di difesa contro l’invasore piemontese, la reazione di briganti e brigantesse era, per l’ala più intransigente e colta del cattolicesimo, la legittima resistenza di un popolo a una conquista non solo territoriale, ma soprattutto ideologica. Le stesse accuse che un gruppo di studiosi, bollati come «revisionisti», hanno ripetuto ancora l’estate scorsa in un meeting di Rimini all’insegna dell’antirisorgimento.
Luigi Mascheroni
tratto da: Il Giornale, 3.2.2001