Quando i Piemontesi scambiarono il bidet per una chitarra di FERNANDO RICCARDI
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La retorica risorgimentale, sempre così tronfia e ridondante, non ha conosciuto limiti, negli anni passati ma anche al giorno d’oggi, nell’ammantare di eroico e di prodigioso una piratesca operazione militare che nel 1860 portò all’unificazione politica del nostro paese. Il tutto si consumò tra l’indifferenza delle potenze del continente europeo che preferirono chiudere gli occhi e non intromettersi mentre qualcuna finanziava generosamente la spedizione garibaldesca. D’altro canto perché protestare contro una così generosa azione di civilizzazione? Perché impedire che i “fratelli d’Italia” del Nord venissero a portare civiltà e progesso agli arretrati “cafoni” del Sud? Erano o non erano i meridionali, come li descriveva l’ineffabile conte Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, capitano di Stato maggiore dell’esercito piemontese, “una popolazione che, sebbene in Italia e nata italiana, sembra appartenere alle tribù primitive dell’Africa, ai Noueri, ai Dinkas, ai Malesi di Pulo-Penango”? E poi il Sud non era Italia ma Africa, anzi “Affrica” con due effe: così, in una lettera a Cavour, scriveva Luigi Carlo Farini, primo luogotenente piemontese in quel di Napoli, secondo il quale “i beduini, a riscontro di questi caffoni (sempre con due effe, per carità), sono fior di virtù civile”. Stando così le cose tutto diventava lecito ed ammissibile. Anche le pratiche più disumane e violente: il fine ultimo, infatti, era quello di procurare l’elevazione morale e materiale di un popolo arretrato e incivile. Di ciò che accadde nel meridione d’Italia nel drammatico decennio postunitario, con la feroce guerra civile che vide battersi su fronti contrapposti gli analfabeti “caffoni” del Sud e i “civilissimi” soldati di sua maestà sabauda, ormai, dopo un lungo e persistente periodo di silenzio, si comincia a sapere molto. Anche se ancora tanto deve essere portato alla luce. Non cessano, però, di essere propagate ad arte colossali panzane che hanno il solo scopo di portare acqua al mulino di chi intende continuare a giustificare quell’aggressione “manu militari” che anche i risorgimentalisti più convinti hanno ormai iniziato ad analizzare in maniera più distaccata e meno enfatica. Ricordate la storiella del “facite ammuina” che di tanto in tanto ritorna a galla, magari citata da qualche giornalista di spessore o da esponenti politici che maldestramente vogliono fare sfoggio di nozioni storiche? Si tratterebbe di un ordine impartito dal comandante della nave napoletana nel tentativo di disorientare il nemico che si profila all’orizzonte: “tutti chilli che stanno a prora vann’ a poppa e chilli che stann’ a poppa vann’ a prora…” e così via di seguito. Lo scopo sarebbe quello di generare così tanta confusione a bordo da mettere in difficoltà il nemico che non sa più quali pesci prendere. Davvero una bella trovata, degna del genio tutto napoletano di Totò o di Peppino De Filippo. Il fatto è, però, che ci si trova di fronte ad un clamoroso falso storico: tale norma, infatti, non è contemplata in alcun regolamento della Real Marina del Regno delle Due Sicile. Per cui tutte le pubblicazioni che riportano tale curiosa pratica, con tanto di nomi di ammiragli (Brocchitto e Bigiarelli) che l’avrebbero autorizzata e persino di data (1841), sono del tutto fuorvianti e, soprattutto, contengono una notizia inventata di sana pianta. Notizia falsa ma sicuramente utile a gettare discredito su di una gloriosa istituzione come la marineria napoletana che è stata tra le più efficienti e tecnologicamente avanzate nel corso del XIX secolo. Ma se la “balla” del “facite ammuina” è ormai ai più conosciuta, anche se di tanto in tanto qualcuno ritorna sul luogo del delitto, ve ne sono tante altre che non godono della stessa popolarità e che, subdole ed insidiose, compaiono all’improvviso, colpiscono e lasciano il segno. Come l’aneddoto sui “terroni” sporchi e incivili ai quali i garibaldini, risalendo lo Stivale, distribuivano odorose saponette, invitandoli a lavarsi. I “cafoni”, però, ignorando a cosa servissero quegli strani oggetti e credendo che si trattasse di roba commestibile, tentavano di mangiarle con il risultato che è facile immaginare. Somiglia un po’ alla storiella del dottore che prescrive delle supposte al paziente che poi cerca di ingerirle per via orale. Una barzelletta assai poco credibile come l’altra di cui sopra. Anche se lo scopo è sempre lo stesso: dipingere i meridionali alla stregua delle tribù primitive dell’Africa nera. Ora invece voglio raccontare una storia, anch’essa esilarante ma tremendamente vera, della quale si trova traccia in un documento di archivio. Quando i piemontesi occuparono Napoli e poi Caserta, si trovarono di fronte alla splendida e monumentale Reggia plasmata dal genio inimitabile di Vanvitelli. Una meraviglia architettonica che stupì non poco i tecnici e i funzionari sabaudi scesi in quella landa rozza ed inospitale. La prima cosa che fecero fu quella di stendere una relazione dettagliata su cotanta meraviglia. L’opera degli osservatori venuti da Torino fu così minuziosa che uno di essi, trovandosi davanti ad un semplice bidet, non sapendo cosa fosse né avendo mai visto una roba del genere, lo catalogò come “uno strano oggetto a forma di chitarra”. Altro che “facite ammuina”, saponette per bocca ed altre colossali panzane di tal guisa. Chi, nel 1860, scese nel Sud lo fece per conquistare e per colonizzare un regno e non per portare progresso o impartire lezioni di civiltà. Cosa che, d’altro canto, non era in grado di fare. Per cui smettiamola, una volta per tutte, di credere alla fata Turchina e limitiamoci, piuttosto, alla realtà dei fatti. Che fu molto più cruda e molto meno eroica di quanto ci hanno voluto far credere.