Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

Quando il ferro contava più dell’oro di Fernando Riccardi

Posted by on Apr 14, 2021

Quando il ferro contava più dell’oro di Fernando Riccardi

Intorno al 1850 il re di Napoli Ferdinando II di Borbone pensò bene di ri­spol­verare un progetto cui già suo nonno aveva messo mano sul decli­na­re del secolo precedente: lo sfruttamento delle miniere di ferro in Terra di La­vo­ro. Nel 1778 a Settefrati, in località Madonna di Can­neto, a più di mille me­tri di altezza, era iniziata la costruzione di uno stabili­men­to siderurgico i cui mac­chi­nari, servendosi della forza motrice generata dalle acque del fiume Melfa, alimentavano le cosiddette “macchine soffianti” che trasfor­ma­­vano la limonite estratta dalle miniere in ferro e ghisa.

Una decina di anni dopo, però, l’impresa fu abbandonata per una serie molte­plice di ra­gio­ni: la scomodità del sito che, specie d’inverno, con il freddo intenso e la ne­­ve, diventava di fatto inospitale, l’assenza totale o quasi di vie di co­mu­ni­­ca­zione che comportava enormi problemi per il trasporto dei manufatti e, infine, la non eccelsa qualità della materia prima. La limo­ni­te, infatti, con­taminata da tracce di rame e di argento, non assicurava una riu­scita ot­ti­ma­le del prodotto finito. E, dovendo la ghisa e il ferro trovare impiego so­prattutto nell’industria navale da guerra, la cosa non era assolu­ta­mente di poco conto. Alla fine del XVIII secolo lo stabilimento di Can­neto fu de­­finitivamente abbandonato. Cinquant’anni più tardi Ferdi­nan­do II volle ri­pro­varci. Nubi dense di tempesta stavano per ad­densarsi sul suo re­gno e di­­­ven­tava indispensabile incrementare sempre di più l’in­dustria belli­ca. E­gli, però, non ripeté l’errore del nonno e de­cise di an­dare in altra di­re­zio­ne, sguinzagliando i suoi ingegneri alla ricerca di nuo­vi giacimenti da sfrut­­­tare. La zona, del resto, si pre­stava meravigliosamente al­la bisogna. Fin dal­l’antichità, i Romani e, prima di loro, i San­niti e, prima ancora, gli E­truschi, avevano combattuto cruente battaglie per assicu­rar­si il pos­ses­so del­­le mi­nie­re di ferro dei monti della Meta. Anzi, a quanto pare, fu proprio la pre­senza di tale prezioso minerale che indusse gli Etruschi a giungere nel Laz­io me­ridionale, per passare poi in Campania dove i prodotti di ferro tro­va­va­no florido mercato. “La ricca zona mineraria del mon­te Meta – scrive il Co­­la­san­ti – costituì indubbiamente la ricchezza di A­tina potens, la vetusta città che sorse ai suoi piedi e le cui officine per la la­vo­ra­zio­ne dei metalli fu­ro­no rinomate nella remota antichità”. Ben presto l’im­pe­gno del re di Napoli fu co­ronato da successo: nuovi giacimenti di limonite o, me­glio, di e­matite bruna compatta, furono scovati a San Do­nato, sulle falde della mon­tagna denominata “Rave ros­sa”, oggi monte Cal­va­rio, e poi an­che ad Alvito e a Campoli. A questo punto si rese ne­ces­saria la costruzione di un nuovo sta­bi­limento: non era pensabile, infatti, ripristi­na­re il vecchio im­pianto di Can­­ne­to ormai da tempo in disuso. La scelta ricadde allora su Ro­sani­sco, pic­co­­la fra­zio­ne di Atina, in un sito collocato a 200 metri dalla sponda de­stra del fiu­me Melfa, poco distante dalla “Sfer­ra­cavalli”, la stra­da rotabile che conduceva a San Ger­ma­no, l’o­dierna Cas­si­no. Nel 1855 i­ni­­­ziarono i la­vori e nel giugno del 1858 vi fu la cerimonia d’inaugu­ra­zione. Ancora oggi si pos­sono am­mi­rare le strutture murarie del grande com­­­plesso side­rur­gico che gli abitanti del luogo chia­mano comune­men­te “la ferriera”. Di lì a poco tempo nella “magona di Atina”, of­fi­ci­na do­ve si ef­fettuava la prima lavorazione del minerale grezzo, entrò in funzione un al­toforno che, la­vo­ran­do la limonite estratta dalla mi­nie­ra di San Donato, sfor­nava ghisa di buona qualità. In quel periodo si giun­se a produrre gior­nal­mente 3.100 kg. di ferro grezzo. Ma pro­prio quan­do tutto sem­brava av­via­to per il meglio, nel Sud irruppero Ga­ri­bal­di, i Savoia e… fu l’inizio del­la fine. Il regno meridionale finì nelle grinfie fameliche dei piemontesi che distrussero ciò che di buono i Borbone avevano realizzato. Pen­siamo al poderoso com­ples­so in­du­stria­le della Val­­le del Liri che, in po­chi anni, cessò praticamente di esistere, annientato dal­la concorrenza delle fabbriche del nord Italia e dalla politica miope dei nuovi governanti. La stessa sorte nefasta subì l’in­dustria mineraria. Al­la fine del 1860 la “ma­gona di Atina” fu chiusa, depredata e abbando­na­ta. Presa in carico dal neonato stato i­taliano, passò dal Ministero della Guerra a quello delle Fi­nan­ze che, more so­lito, la mise in vendita. Nel 1878 i fratelli Vi­socchi, che già posse­de­vano una car­tie­ra ad Atina, acquistarono lo stabili­mento di Ro­sa­nisco e lo adi­bi­ro­no ad altre fun­zioni. Le miniere di limonite di San Do­na­to, così come le altre del­la valle, caddero in un rovinoso e definitivo ab­ban­dono.

Fernando Riccardi

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