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«QUANDO NAPOLI ERA CAPITALE» di GIUSEPPE PIANELLI (V)

Posted by on Feb 28, 2021

«QUANDO NAPOLI ERA CAPITALE» di GIUSEPPE PIANELLI (V)

Gli Aragonesi padroni del Mediterraneo


L’ultima regina angioina, Giovanna II, successe al trono, al fratello Ladislao, del tutto impreparata. Affascinante, bella ma anche donna semplice e di buon senso, fu scelta solo perché l’unico altro pre­tendente disponibile era già Re d’Ungheria e non si volevano far confusioni in un regno che era e doveva restare mediterraneo.

In­namorata del nobile Pandolfello Piscopo, troppo povero per fare il principe consorte, non poté mai sposarlo, neppure morganaticamen­te, e dovette sottostare alla ragion di stato. Manovrata dai baroni e dai grandi funzionari del regno, non riuscì mai a rassegnarsi al ma­trimonio di convenienza col conte Giacomo di Borbone dal quale infine si separò. Indecisa fino all’ultimo se adottare come successo­re Alfonso d’Aragona o il nuovo conte d’Anjou Luigi III oppure il suo figlio René, «il buon Renato», tutti, a turno, furono chiamati a Napoli, ognuno convinto d’avere tutto il diritto di restarci da re.

Ricostruire cronologicamente tutta la confusione della storia di quei tempi richiederebbe volumi. Ci basti sapere che mentre dei napole­tani e degli stessi pretendenti nessuno sapeva chi fosse il vero re, alla fine ebbero la meglio gli Aragonesi.

Alfonso I «il Magnanimo» e i suoi successori, veri uomini del Ri­nascimento, diedero ai rapporti del Sud con il resto del mondo co­nosciuto quel tocco di cosmopolitismo che già possedevano per es­sere i dominatori del Mediterraneo. I padroni di quello che era co­munemente detto, ormai, il «Lago aragonese», amanti di tutto ciò ch’era bello, fastoso, estroso e gentile, tenendovi senza interruzione la loro corte, sia pure in meno di mezzo secolo, rifecero di Napoli e del suo regno il centro d’Europa.


L’arte e la cultura, che dalla languorosità fulgida e mistica bizantineggiante e dalla leggiadra geometria arabesca i normannosvevi avevano sollevato alla possente solennità romanica e gli angioini all’austero slancio gotico, con gli aragonesi giunse alla sintesi di ogni espressione più aggraziata di quel Rinascimento che però non ebbe mai i caratteri del freddo stilema paganeggiante d’altre parti d’Europa e che sbocciò quasi naturalmente nel più lussureggiante barocco italiano.Richiamati dalla più grande biblioteca del mondo d’allora, dal sem­pre più famoso “Studio”, dal mecenatismo generoso dei sovrani, i massimi artisti, letterati e poeti non solo italiani ma di ogni parte del mondo, fecero di Napoli la capitale delle lettere e del buon gusto mentre, con i traffici e l’insediamento di catalani, provenzali, pisani, genovesi, veneziani ed ebrei, la città, che contava sessanta­mila abitanti, cifra inaudita per quel tempo, superata solo da Vene­zia, accrebbe la sua fama mercantile favorita anche dalla costruzio­ne del nuovo porto e di nuovi arsenali.

«Plus ultra»: oltre le Colonne d’Ercole

La centralità culturale del Regno di Napoli terminò quando Filippo d’Asburgo, sposando la figlia di Isabella, Giovanna «la Pazza», eb­be, oltre che quella della Castiglia, tutte le corone di quei regni ri­conquistati in Spagna dalla crociata europea contro i Mori e di quel­li conquistati nel Mediterraneo.

La lunga, paziente politica tutelare dei papi attraverso i secoli aveva sempre più impercettibilmente spostato le sorti dell’Europa dal cen­tro verso la periferia risvegliando le energie di nuovi popoli e favo­rendo la nascita di nuove potenze. Senza questo spostamento d’asse, l’Impero germanico, come ben mostravano i suoi ricorrenti disegni d’egemonia, avrebbe forse finito per stritolare e amalgama­re ogni diversità nazionale ed ogni particolarità culturale. Come non vi sarebbe mai stata Europa senza monachesimo e feudalesimo, così non vi sarebbe stata con la strapotente centralità d’un impero che nato romano e quindi universale era diventato del tutto tedesco.

La Spagna, fervente cristiana, giovane, gagliarda, audace, purificata dalla lotta allo spasimo contro l’Islam piantato in casa sua come un affronto, non aveva ancora finito di metter ordine nei suoi confini che già si slanciava nella grande avventura di là delle Colonne d’Ercole.

Molto s’è detto contro gli spagnoli e il loro governo napoletano fino a far combaciare tutti i mali del Sud d’Italia con quel vicereame du­rato oltre due secoli durante i quali il Regno sarebbe, secondo certi storici, caduto in un mortale letargo e spogliato dai nuovi padroni. Si tratta dei secoli su cui, più tardi, sarebbero state imbastite tutte le “leggende nere” della storia, al centro delle quali c’è sempre qual­cosa di cattolico e qualcosa di spagnolo.

Il cristianesimo latino aveva saputo incanalare le energie sovrab­bondanti dell’Europa senza rinnegare i suoi pedagoghi greci e ro­mani e senza ricusare le conquiste scientifiche degli arabi e degli ebrei, aveva fatto spazio ai nuovi popoli che bussavano alla civiltà ed aveva evitato, con un monachesimo che non disdegnava di batte­re l’incudine, d’impugnare l’aratro, e all’occorrenza la spada, di ri­fugiarsi nell’intimistica spiritualità della Chiesa orientale19.

Di un’accozzaglia di popoli brutali, differenti ssimi per lingue, usi e costumi, la Chiesa romana aveva saputo creare, nell’unica fede, un’unica nuova civiltà, a modello della Gerusalemme celeste, sve­gliando d’ognuno di loro i talenti geniali che la Provvidenza v’ave­va infuso. Con la disciplina dei suoi precetti, che sapevano tenere all’erta tanto l’anima quanto il corpo, aveva permesso che le società rinascessero non più secondo l’istinto animalesco dell’orda barbari­ca ma secondo i suadenti richiami del buono, del giusto e del bello. Di irsuti condottieri aveva fatto raffinati cultori dell’arte. Dalla boc­ca di selvatici capi tribù aveva fatto risuonare le melodie del canto gregoriano. Di guerrieri dediti al saccheggio e allo stupro aveva fatto fini verseggiatori dell’amor cortese. Di sanguinari conquistatori aveva fatto cavallereschi gentiluomini fedeli ai patti fino al sacrificio. Di donne vendute e comprate per gli harem aveva fatto gentili madonne, mogli onorate, maestre di decoro e sagge regine. Imperatori e re, reami, ducati e contee, codici e decretali, avevan preso forma lì dove esisteva solo la legge del clan e del

Quando, secondo la mai domata natura umana, l’usurpazione, l’in­trigo e la forza superarono il livello di guardia della convivenza, so­lo in forza della fede, armature e spade furono impegnate nella più bella avventura corale che mai la storia umana abbia conosciuto: render libero e sicuro il cammino dei devoti al sepolcro del Re Re­dentore, ingaggiando ognuno, secondo le sue forze, regnanti o ple­bei, regni, tesori, campi e famiglie in un’impresa che solo un’igno­rantissima malafede può ancora ritenere, fra le pietraie e le sabbie dell’Asia minore, un affare di conquista coloniale.

La raffinatissima ma altrettanto crudele e devastatrice forza d’e­spansione dell’Islam fu fermata ancora in un’Europa che sognava paradisi più virili che quelli languorosi delle vergini Urì ed ancora tutti i regni cattolici, all’appello del Papa, si misero per mare a Lepanto quando i santi guerrieri di Maometto issarono le loro verdi bandiere fino ai Balcani e spadroneggiarono nel Mediterraneo20.

Una civiltà così controversa eppure così omogenea nella sua cultura di ormai mille anni, che sapeva radunare ancora insieme popoli così differenti e distanti senza dovere, a differenza degli antichi romani, pattugliarli giorno e notte con le loro invincibili legioni, doveva ini­ziare a disfarsi proprio per colpa di quei sapienti, ordinati, civilissimi ma ostinati eredi tedeschi dell’Impero.

La zizzania seminata fino al Regno di Sicilia al tempo degli Hohenstaufen, l’insofferenza dei prepotenti imperatori, le avide lotte dei principi elettori di Germania, trovarono terreno fertile nell’intransi­genza “carismatica” di Lutero e nel suo sogno ossessivo di riportare la cristianità ad una presunta purezza di cui lui solo diceva di pos­sedere la chiave.

Ai nostri giorni, il monaco di Magonza sarebbe uno dei tanti conte­statori “ispirati” che nascono, fioriscono e presto appassiscono ne­gli ambienti cosiddetti ecclesiali. Una mancata vocazione scambiata per elezione personalissima di un dio personalizzato che, talvolta, attrae per breve tempo altre anime inquiete, questi “buonisti” si dis­solvono, in barba ai loro austerissimi programmi, in pigri e malsopportati matrimoni borghesi. Lo stesso Lutero si prese per moglie una monaca, e sarebbe stata anche una punizione bastante, ma la sua erudita orgogliosa protesta non si quietò giacché diede l’occa­sione agli indocili principi, eletti a protettori e quindi a “vescovi” della nuova chiesa, di dar fondamento dottrinale alla loro ribellione a Roma21.

Il protestantesimo, nuovo e più virulento ghibellinismo appannato spocchiosamente di sacra scienza, contagiò mezza Europa e puntel­lò le politiche di ogni dissidente, compresa quella del Re d’Inghiterra che altre ragioni non aveva, per separarsi da Roma, oltre un mancato annullamento di matrimonio.

Chiamiamolo come vogliamo e, se ce lo concedono, anche Prov­videnza, quell’ irrompere nella storia di una novità assolutamente imprevedibile: la scoperta del Nuovo mondo al di là di quel mare dove lo sprovveduto Colombo pensava solo di abbreviar la strada col «buscar el Oriente por el Occidente».

A partire dal 1492, le prospettive della Cristianità, così come si era formata dal Mediterraneo al Mar Baltico, si allargarono improvvi­samente in confini sempre più vasti.

Per un millennio, invano, la civiltà europea aveva cercato di con­quistare l’Oriente al Vangelo. Tutto ciò che ne aveva ricavato erano i paesi slavi, dove religione e cultura erano stati portati, alle stesse condizioni con cui aveva lavorato San Benedetto e i suoi discepoli, da altri due santi monaci, Cirillo e Metodio. I due fratelli, raggiunte le tundre, le steppe e le taighe della sterminata Rus’ avevano co­minciato dall’abbiccì, ovvero dal dare a quei popoli divisi da mille lingue e da mille usanze, una lingua e un alfabeto comune. Pur in modo sempre originale, il cristianesimo era fiorito così anche in quell’Oriente ed aveva dato vita a stati ben organizzati, capaci infi­ne di resistere alle orde dei mongoli e dei tartari che continuamente premevano dagli estremi deserti dell’Asia.

Ma l’Islam, padrone di tutto il resto della vicina Asia e dell’Africa mediterranea ridotta ormai a deserto, e sempre pronto a razziar terre europee, era l’invincibile ostacolo che, fino ai giorni nostri, avrebbe chiuso il cammino della civiltà occidentale in quella direzione. La caduta definitiva di Costantinopoli, nel 1453, aveva disperso le re­sidue speranze che un impero latino, al posto di quello bizantino, potesse risvegliare l’apatico cristianesimo orientale dal sonno in cui era precipitato dopo lo scisma.

L’Asia estrema, i suoi innumerevoli e favolosi popoli che pochi in­traprendenti viaggiatori avevano raggiunto e che altrettanto solitari e intrepidi missionari avevano conosciuto come un’immensa riserva di futuri cristiani, non si poteva raggiungere se non secondo l’invo­lontaria profezia di Colombo: dalla parte opposta.

Il tempo in cui la Storia si divise in due


Il Regno di Napoli non fu una semplice «provincia dell’impero spa­gnolo», frase abusata da chi vuol scrivere la storia “addosso” ai me­ridionali e giustificare la loro successiva “liberazione”. Per circa due secoli l’Italia meridionale visse, come ogni altro stato d’Euro­pa, nelle luci e nelle ombre dei grandi eventi che sconvolgevano l’Occidente dalle fondamenta ma che si presentavano, allora, inav­vertiti ai più per la loro capacità di rinnovamento.

Da quando la Croce era stata piantata su quell’isoletta caraibica scambiata per India, come ai tempi dei primi cristiani, silenziosa­mente ma prepotentemente, si rifaceva strada nel cuore degli uomi­ni, e ben più grande, l’idea di futuro.

Nel mondo, pur evoluto, prima di Cristo, tanto nel bacino mediter­raneo di dove si dispiegò la storia della quale ci interessiamo, come in quelle grandi civiltà che si affacciavano dall’Asia, il tempo era fermo. Non esisteva, nel pensiero della gente comune né in quello dei sapienti, il concetto del tempo come oggi lo intendiamo. Di fat­to, la “Storia” non esisteva. L’historia, o meglio le historie riguar­davano semmai i fenomeni naturali, la vita degli animali. L’av­vicendarsi dei giorni, il succedersi degli avvenimenti umani, le ge­sta degli uomini illustri, era semplice cronaca, annales, come dice­vano i latini, una registrazione puntigliosa di quel che succedeva di notevole durante il trascorrere del tempo e degli anni che, al mas­simo, poteva essere riferito al passato. E infatti, cronos, il tempo dei greci, non era parola diversa, anche nella pronuncia, da kronos, che, col semplice cambio d’iniziale significava invece passato, origine del tutto, finanche del padre degli dei che ne portava il nome. La parola futuro, così come noi l’intendiamo, era sconosciuta.

Senza un senso, tutto scorreva come un grande fiume senza arrivare mai a una foce, ad un senso compiuto. I saggi ipotizzavano, come del resto nella tradizione orientale e nelle civiltà amerinde, che ogni cosa ruotasse nel tempo ritornando sempre al punto di partenza: corsi e riscorsi. Nessuno, narrando gli avvenimenti, le conquiste, le gesta dei grandi condottieri, i costumi dei popoli, il nascere e il tra­montare di grandi imperi, si chiedeva, come oggi fa anche il più sprovveduto degli storiografi, che senso avesse tutto ciò, da cosa fosse stato causato, quale messaggio si celasse dietro l’apparenza, dove si potesse presumere che tutto andasse a parare.


I      più grandi pensatori d’Occidente s’erano posti il problema di questo limite in maniera sconsolata concludendo, stoici, cinici e scettici, che il perché di tutto fosse irraggiungibile a uomini e dei e che fosse celato per sempre nell’oscurità del caos primordiale.
II     messaggio cristiano, la fondazione di un regno sulla terra, il ritorno di Cristo e il definitivo trionfo del Regno dei Cieli con la vittoria sulle forze che ne avevano impedito la pacifica attuazione, pur nel mistero nel quale si celava e si svelava, era quella buona novella che, all’anno zero, nel mondo unificato dai romani, tutti aspettavano e che dava finalmente una logica al cammino dei singoli uomini come degli interi popoli sulla terra.

Per chiunque ascoltava cessava per sempre l’angoscioso girare in una giostra che non si sarebbe fermata mai: la strada diventava un itinerario che conduceva in un qualche posto, sia pur sconosciuto che, se tanto mi dà tanto, doveva esser degno di desiderio fino al sacrificio.

Senza questa tensione ad una meta non si spiega ciò che abbiamo detto fin qui né si spiegherebbe perché, pur avendo abbandonato in molti, la guida verso quell’avvenire promesso, pur discutendo, al­tercando, combattendo fra loro, gli uomini si affannino ancora ver­so un’idea di progresso del quale, pure, non sono nemmeno d’accordo come debba esser fatto e con quali mezzi debba esser conseguito.

Con la guida della Chiesa, l’Europa arrivò alla metà del secondo millennio. Quando sembrò che tutta la Cristianità si sfasciasse perché nulla restava più da raggiungere, il traguardo si spostò oltre l’Atlantico.

Da quel momento, con la grande ribellione di metà dell’Europa che, in pratica, con il protestantesimo, si separava da chi l’aveva guidata e plasmata fin’allora, non ci fu più una sola storia ma due: quella che continuava a descrivere e a interpretare gli avvenimenti così come la logica del Vangelo li aveva preparati e condotti, e quella, che oggi si presume “laica”, dove non solo quel che avviene succe­de indipendentemente dalle premesse ma anzi individua, in diversa misura, in quel punto di partenza, la causa di ogni male, di ogni or­rore, di ogni mancato progresso.

Questa seconda storia è quella che oggi sembra prevalere e che, in larga misura, s’insegna nelle università, nelle scuole, nei libri più diffusi, nelle divulgazioni popolari. In questa seconda storia si col­loca, ormai quasi senza contraddittorio, la storia del Sud d’Italia, storia dannata.

Se, a chi si accinge a conoscere anche solo la storia del luogo in cui è nato e si è formato, sfugge (come purtroppo a molti, sfugge) que­sta chiave d’interpretazione, sarà molto difficile conservare sia pure una parvenza di dignità. La sua storia si confonderà con quella che al momento convince di più, con quella che sembra esser vincente, finché anche quella (come ormai sembra che ineluttabilmente stia accadendo) sarà assorbita da una nuova storia di vincitori e dimen­ticata.


Alla storia si sostituirà, allora, come in antico, la cronaca di giorni senza fine, sempre uguali, dove tutto è già successo e risuccederà. Cronaca nera, come quella che sembra esser diventata quella del Sud: cronaca senza speranza.

fonte

https://www.eleaml.org/sud/storia/storia_del_sud_vista_dal_sud.html#NATO

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