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«QUANDO NAPOLI ERA CAPITALE» di GIUSEPPE PIANELLI (VI)

Posted by on Mar 1, 2021

«QUANDO NAPOLI ERA CAPITALE» di GIUSEPPE PIANELLI (VI)

Napoli spagnola

Seconda per rango solo a Madrid, come si compiacevano di pro­clamare i re spagnoli, Napoli, al contrario di quanto s’è detto e ri­detto, nei circa duecento anni di vicereame, non solo non decadd ma crebbe fino a diventare quella metropoli di 350.000 abitanti che, anche prima dell’ingresso dei Borboni, costituiva la più popolosa e, in gara con Venezia, la più ricca città del Mediterraneo. A fare un paragone, Napoli stava a Madrid come oggi New York sta a Wash­ington.


Nel 1571, il Regno disponeva della più grande flotta d’Europa. So­lo i veneti avevano più imbarcazioni ma vi si dovevano contare an­che quelle di piccolo cabotaggio con le quali costeggiavano la Dalmazia e la penisola balcanica. Alla battaglia di Lepanto, di fron­te alle 27 galee della Spagna (13 delle quali affittate dai genovesi), il Regno di Napoli poteva dispiegarne 31.


A cominciare dal “Gran Capitano” Gonsalvo de Cordoba, il sovra­no dalla Spagna inviò a Napoli, come viceré, i suoi uomini migliori. Alcuni tennero la carica per lunghi periodi e buona parte di essi si trapiantarono nel Napoletano, come in una parola veniva chiamato il regno, diventando per sempre italiani. Napoli e l’Italia meridiona­le amarono come loro patrie e continuarono ad arricchirle di bellez­za e di decoro.


Il Duca di Toledo, il Duca d’Alba, il Duca di Medina, il Duca di Medinaceli sono nomi ancora familiari ed amati dai napoletani. Come ancora raccontano la topografia e i loro emblemi, furono in­tenti ad aprire strade, costruire nuovi edifici pubblici, ampliare i vecchi, abbellire la città. Le vecchie mura furono superate e Napoli si distese senza confini da Posillipo alle falde del Vesuvio.


Il Regno non fu mai la provincia d’oltremare da cui trarre i proventi delle tasse da spendere in Spagna o di là dell’Oceano. Come, alla resa dei conti, la corte spagnola si indebitò per i capitali spesi in quel nuovo mondo che avrebbe dovuto essere l’Eldorado, così, per le stesse ragioni di hidalguía e di prestigio, consumò ogni provento d’Italia nell’Italia stessa24.


La stessa corte asburgica, ritiratasi nei suoi possessi orientali tede­schi e slavi, restò profondamente spagnola d’animo e a quella ma­gnanimità, a quella longanimità, a quella “grandezza d’animo castigliana”, lo “stamento de nobleza” che anteponeva spavaldamente l’onore all’interesse, si dovette la sua grandezza posteriore, felice­mente sposata all’ostinata forza di volontà della razza germanica, al mistico senso del dovere degli slavi e alla sacralità dello scettro im­periale.


L’Austria degli Asburgo non dimenticò mai il suo passato iberico, di cui il “cerimoniale spagnolo” sopravvissuto fino a che la corte sopravvisse non fu che il segno esteriore: di fatto, soprattutto negli ex domini della corona madrilena, l’Arciduca d’Austria si circondò e si servì largamente dell’antica classe dirigente castigliana, arago­nese e catalana. Così in Lombardia come successivamente a Napoli.


Nei due secoli in cui Napoli legò il suo destino a quello della Spa­gna alle cui imprese non fu mai estranea, con questa si slanciò ver­so l’avvenire. Il «Siglo de oro» spagnolo fu secolo d’oro anche per Napoli: anche nel suo cielo il sole non tramontava mai. La deca­denza spagnola, che mostrò al mondo la sublimità di quello spirito che rifulge soprattutto nella sventura e nella derrota, non avrebbe coinvolto il Regno del Sud.


Gli Asburgo, ereditate le corone degli spagnoli e spagnoli fino in fondo diventati essi stessi, con Carlo V restarono anche gli eredi dell’Impero. La Cristianità, benché ormai mutilata dai regni prote­stanti, si protendeva ancora verso il suo destino e il meridione d’Italia, che in essa era nato ed era stato allevato, continuava la sua storia di sempre.


Una folla di filosofi, di letterati, di artisti, di scienziati, di santi, uomini e donne, il Regno avrebbe continuato a partorire nel suo popolo fedele e tenace continuamente fecondato, senza complessi, da quanti, ovunque nati, vollero viverci e morire.


Mentre le polemiche protestanti tenevano il resto dell’Europa in un permanente stato di guerra, la Cattolicità continuò a godere quella pace che, del resto, aveva sempre regnato al di qua dell’Appennino toscoemiliano. Nel Sud d’Italia sembrava essersi avverata per sem­pre la profezia di quel regno messianico dove s’era dimenticata l’arte della guerra e le spade erano state fuse per farne vomeri ed aratri.


Fu soprattutto allora che s’ebbe la massima effusione di scienza e d’arte che trasformò il meridione oltre che in un luogo di delizie na­turali anche in una vetrina di bellezza e di cultura.


La riforma tridentina fu accolta nel Regno con entusiasmo e fervore come c’era da aspettarsi da un popolo profondamente devoto e, di­remmo, naturalmente cristiano. Al Sud non v’era da contrastare nessuna eresia: sette e conventicole di esagitati non ve n’erano mai state e la fedeltà al successore di Pietro non solo non era mai stata messa in discussione ma si manifestava, oltre che in una diffusa de­vozione condivisa da corte, nobiltà e popolo, in una continuazione di interessi economici e di vincoli giuridici e politici che facevano di Napoli il regno pupillo della Chiesa. Solo nel 1845, pochi anni prima della catastrofe, a fini amministrativi, si provvide a piantare dei cippi per delimitare lo stato napoletano e quello del Papa: sem­pre i sudditi dei due regni si sentirono e furono un popolo con i me­desimi sentimenti. Mai occorse passaporto per transitare un confine segnato solo dalla tradizione.


Dopo il Concilio di Trento, la vita di fede, da sempre fondamento di quella civile, ebbe un’impennata di vitalità che si manifestò nella nascita di nuove famiglie religiose dedite al culto, allo studio delle scienze sacre, all’assistenza spirituale, all’insegnamento, al sollievo dei poveri e dei malati. Basti ricordare le opere di San Gaetano da Thiene, veneto meridionalizzato, e il grandioso ordine dei Teatini fondato insieme a Gian Pietro Carafa, poi Papa Paolo IV, che con­corse, insieme ad altri ordini più antichi e ad altre nuove congrega­zioni, al prosperare delle opere parrocchiali e della vita virtuosa dif­fondendosi in tutt’Europa. Un fiume d’acqua viva, quello scaturito da Trento, che sarebbe sfociato, proprio nel meridione, con San­t’Alfonso de’ Liguori, in una scuola di morale vasta e profonda quanto il mare di filosofia e teologia di San Tommaso.


L’attività dei laici fu segnata dal proliferare di un’infinità di confra­ternite dedite alle opere di misericordia, molte ancora attive oggi nonostante gli sconvolgimenti seguiti alle rivoluzioni settecente­sche e alla persecuzione religiosa risorgimentale.


La società ne fu arricchita con opere di assennata lungimiranza ci­vile, istituzioni che diedero più tardi impulso a quelle statali e che spesso, oggi, rimangono l’unico punto di riferimento della vita as­sociata. Tanto per ricordare, i monti di pietà che stroncavano alla radice la piaga dell’usura e che nella sola capitale furono ben cin­que, ma che erano diffusi in ogni grande città del Regno, gli ospe­dali, gli ospizi, i “conservatori” dove venivano istruiti poveri, stor­pi, inabili, trovatelli, donne sfortunate e traviate: una rete di solida­rietà cristiana tanto fitta e ben organizzata da meravigliare ancor oggi i teorizzatori di quell’utopistico welfare state liberale ormai ovunque fallimentare25.


Nessun bambino indesiderato veniva soppresso a Napoli ma, affida­to alla cura di decine e decine di opere tanto religiose quanto laicali, allevato con amore, istruito ad un mestiere, reso capace di guada­gnarsi la vita senza complessi. Un sistema razionalissimo di balie volontarie e, quando non bastavano, stipendiate, provvedeva, appe­na girava una “ruota degli esposti”, ad entrare in azione perché il neonato venisse nutrito fino allo svezzamento. L’adozione di trova­telli era pratica diffusa fra il generoso popolo napoletano, fin nelle famiglie più umili e cariche di figli. Il nuovo arrivato, «’o figlie d’a Madonna», godeva fra i nuovi genitori e i nuovi fratelli di uno sta­tus quasi onorifico ed era il più coccolato della famiglia26. Tuttora, nomi frequentissimi come il famoso “Esposito” della capitale se agli occhi lubrici rivelano quanti figli illegittimi partorisse Napoli, ai cuori pietosi svela quanti bambini abbiano potuto scampare, in tem­pi che si vorrebbero egoisti e crudeli, la sorte degli asettici ferri chirurgici o degli igienici cassonetti della spazzatura forniti dalla moderna società.


Nella sola Napoli vi erano quattrocento fra chiese e cappelle rego­larmente officiate, senza contare gli oratori privati, ben duecento fra monasteri, case ed istituzioni appartenenti a comunità religiose27. Tutto il Regno era una fitta rete di rapporti ecclesiali e civili che formavano la trama morale ed economica di una convivenza ormai plurisecolare talvolta anche opulenta e comunque mai miserabile.


Si calcola che quasi un terzo della proprietà fondiaria e immobiliare del meridione appartenesse, frutto di un’antichissima e ininterrotta serie di lasciti e donazioni, ad istituzioni religiose. Meglio ammini­strate delle proprietà degli antichi feudatari, esenti da tasse, oltre a concedere un più largo margine di guadagno ad affittuari ed operai, provvedevano, molto prima della scoperta dei vantaggi di un possi­bile sano capitalismo, a far circolare il danaro senza sterili tesaurizzazioni o spese voluttuarie28.


Preti e religiosi non indulgevano nei fasti dei nobili né avevano da provvedere il necessario decoro per la discendenza. Oltre ad inve­stire largamente in opere di beneficenza, esse stesse fonte di futuri redditi e, diremmo oggi, di capitalelavoro, creavano una ricchezza diffusa attraverso la continua committenza d’opere d’arte e d’artigianato, spesso d’altissima qualità, soprattutto per il decoro delle chiese. L’istruzione all’arte e alla musica, per esempio, costituiva un ciclo d’attività caritativa che s’espandeva nel tessuto lavorativo privato. Ovunque, anche nei centri più piccoli fiorivano di conse­guenza botteghe di maestri che si perpetuavano di padre in figlio e si estendevano dai garzoni agli apprendisti fino a diventare “scuole” che spesso hanno lasciato tracce profonde nel mondo dell’arte.


Sorsero, per impulso di questa spontanea e solerte società, laboratori di scalpellini in pietra, di intarsiatori di marmi pregiati, di sculto­ri, di modellatori di gessi e stucchi, di fantasiosi decoratori in sca­gliola, di doratori, di intagliatori, di ebanisti e creatori di tarsie in legno e in avorio, di argentieri, di cesellatori, di sbalzatori, di niellatori, di affrescatori, di pittori di pale d’altare, di modellatori di sta­tue di cartapesta, di orafi, di ricamatrici, di merlettaie, di tessitrici di sete, mussole, pizzi, di miniatori di pergamene, di calligrafi, di pro­gettisti e costruttori d’arredi ecclesiastici, di fonditori di campane, vetrai, organari.


Se il meridione d’Italia, come dicono gli storici dell’arte, non pro­dusse in quel tempo, salvo poche eccezioni, quei geni delle arti fi­gurative che nacquero isolatamente in Toscana, a Venezia, nelle piccole e raffinate corti settentrionali, fu appunto perché, come ogni altra espressione della creatività, anche l’arte, nel Sud, si manifestò non individualisticamente ma come una grande partecipazione co­rale. Essa si sparse, inondò, in maniera spesso più ingenua ma vo­lentieri più esuberante che nel resto d’Italia, ogni anfratto del terri­torio, dalle più piccole cappelle di campagna man mano ai borghi più grandi fino alla capitale in cui si riassumeva tutta la produzione di bello del Regno.


Peraltro, sempre sul versante delle arti, sorsero, e sempre ad opera della Chiesa, scuole di musica, soprattutto per gli orfani e i poveri, appunto i conservatori, le accademie di canto corale e solista, s’aprirono botteghe di liutai, di battitori di ottoni, di costruttori d’ancie, legni, tamburi, cimbali, nacque l’organizzazione degli impresari, degli editori, dei copisti e così via. Organisti, cantori, com­positori d’orchestra venivano ingaggiati dai vescovi, dai capitoli delle cattedrali, dalle collegiate, dalle abbazie fino alle chiese mino­ri e alle cappelle private e l’estro creativo fu incoraggiato dalla con­tinua commissione di partiture per messe polifoniche con cui ogni comunità cercava di dar decoro alle cerimonie religiose.


Se la musica fu poi coltivata anche dalla nobiltà (basti ricordare il genio del principe Gesualdo da Venosa) e dalle corti sovrane, prati­camente tutti i grandi musicisti e compositori ebbero in comune le umili origini quando non le origini del tutto sconosciute.


Mai l’arte di qualsiasi genere, in nessun’altra parte del mondo fino ad oggi, fu così incoraggiata, sostenuta, comunemente praticata. Anziché, come oggi, essere privilegio di pochi fortunati, visitata come reliquia nei musei, o ascoltata solo a pagamento nei teatri, es­sa era a disposizione di tutti, nella casa di Dio, casa comune senza distinzione di schiatta e di censo. Poveri e ricchi, ignoranti ed erudi­ti fin dall’infanzia potevano godere gratuitamente del bello e imbe­versene anche inavvertitamente secondo l’antica sagace pedagogia del cristianesimo.


Fin gli ospizi per i mendichi erano affrescati e decorati senza lesinare: anche il più miserabile degli uomini del Regno aveva sempre a disposizione la sua parte di smaglianti colori e d’oro zecchino senza aspettare che qualche moderno immemore teorizzasse la “qualità della vita” mentre l’arte, quando ancora si possa parlare d’arte, si trasformava in dominio esclusivo di pochi privilegiati, comprensibile solo agli “esperti” ed agli “addetti ai lavori”.


Peraltro era mentalità condivisa che quel favoloso patrimonio di bellezza appartenesse indistintamente a tutti e quando, alla fine del Settecento, i francesi, arrivati sull’onda della rivoluzione, si diedero al saccheggio programmato e metodico delle opere d’arte dalle chiese e dai luoghi religiosi, fu soprattutto il popolo minuto, in ogni parte del Regno, ad insorgere e contrastare la razzia.


Arte chiama arte e così nel Regno di Napoli conversero, e di solito vi restarono ottenendovi la celebrità, artisti da ogni parte d’Europa che vi fecero prodigiose fortune e spesso influenzarono le tendenze culturali restando essi stessi influenzati dall’eclettica plurisecolare fioritura di bellezza che contrappuntava la civiltà meridionale. Nell’ arrivare a Napoli, scrive Harold Acton, raffinato intenditore d’arte, «essi furono incantati e trasformati dal “vento del Sud”, e nel fondere il grandioso col sorprendente parvero voler competere colle forze della natura».


La bellezza così fiorita, incrementata e sostenuta dal clero e dai re­ligiosi, si diffuse nel mondo civile, a cominciare dall’aristocrazia e dalla nobiltà feudale che, in epoca spagnola cominciò a confluire nella capitale innalzando magnifici palazzi ed ornandoli spesso son­tuosamente, dando ricevimenti che procuravano, oltre che commit­tenze d’ogni genere d’opere d’arte e d’artigianato, un indotto, come si direbbe oggi, di servizi che impiegavano la continua crescente popolazione di immigrati dalla periferia del regno.


Architettura, pittura, scultura, musica si espansero alla nascente borghesia di banchieri e commercianti che accorrevano dalle città portuali mediterranee, soprattutto Genova. Sorsero quindi opere d’urbanistica, d’architettura civile, di decoro cittadino. La vena mu­sicale dei meridionali, incoraggiata dal mecenatismo della Chiesa, si elevò di tempo in tempo fino a quella massima fioritura che fu il Settecento quando Napoli, insieme a Vienna, divenne la città d’arte per eccellenza e la capitale dell’opera in musica attirando a perfezionarsi i massimi compositori del tempo, luogo d’esibizione dei migliori talenti nei suoi centocinquanta teatri aperti ogni sera di ogni stagione.


Nel Seicento, nella «Napoli nobilissima», come la chiamavano i suoi scrittori, risiedevano almeno 119 principi, 156 duchi, 173 mar­chesi e varie centinaia di conti. Solo considerando la servitù in pianta stabile si può dedurre quanti impieghi derivassero dal fun­zionamento dei loro palazzi. Ma, notavano i raffinati giramondo dell’epoca, incantati dall’ospitalità dei signori, solo pochi facevano vita sfarzosa, con ricevimenti e feste che restavano memorabili, la maggior parte, nonostante la cura del decoro e del cerimoniale, te­neva vita modesta e appartata, non dissimile da quella dei loro di­pendenti con i quali, d’altronde, secondo il costume patriarcale dei meridionali, aveva rapporti di cordiale familiarità.


Un capitolo a parte meriterebbe la vita dei nobili, una famiglia pa­triarcale che inglobava continuamente e permanentemente il perso­nale di servizio che ne diventava parte indissolubile di generazione in generazione, indipendentemente dall’età e dalla declinante abilità lavorativa. I vasti palazzi gentilizi accoglievano non solo parenti ed affini ma anche i “famigli” spesso a servizio, di padre in figlio, di madre in figlia, da tempo immemorabile, sicuri di non dover chiu­dere gli occhi in un ospizio. Fino alla seconda metà del Cinquecen­to, quando andarono ad effetto i decreti tridentini sui registri par­rocchiali dei battesimi, dei matrimoni e delle esequie, e si formò la prima anagrafe della storia (anche questa un’indispensabile istitu­zione civica che l’Europa e l’Occidente debbono alla Chiesa), la servitù delle famiglie signorili portava normalmente lo stesso co­gnome dei padroni. È questa la ragione, oltre a quella dei cognomi mutuati dai padrini o madrine di battesimo, di patronimici altiso­nanti portati ancor oggi da gente di umile condizione29.


Il Regno di Napoli, alla grande ricchezza della sua agricoltura (i suoi grani, il suo olio, il suo vino, la lana delle sue pecore, le sete della diffusa bachicoltura, il legname pregiato delle sue foreste, i suoi cavalli d’allevamenti di razza, i suoi muli e finanche i suoi fa­mosi asini erano esportati in ogni nazione) seppe aggiungere, in tempi in cui in nessun luogo d’Europa esisteva la minima idea d’industrializzazione così come viene concepita oggi, non solo la vivacità del suo artigianato e l’intraprendenza del suo commercio ma anche le prodigiosa fioritura della sua arte.


L’arte, subito dopo l’agricoltura, fu la grande ricchezza del Sud. Ogni musa concorse, in questo Parnaso cristiano realizzato dalla concordia dello spirito e della carne, a quanto di bellezza poteva partorire l’estro felice secondato da una natura esuberante.


La nazione napoletana insomma entrava nell’età moderna e nella sua maggiore età con una dote che avrebbe fatto la felicità di ogni sposo. Non per nulla, in molti luoghi d’Europa, si pensava a quel regno che prosperava lontano dai suoi tutori spagnoli come ad una corona smagliante e gloriosa da cingere senza condivisioni. Più di una stirpe reale guardava spasimando al «più bel trono d’Italia».

fonte

https://www.eleaml.org/sud/storia/storia_del_sud_vista_dal_sud.html#NATO

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