Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

Quando si fece l’Italia e si disfece il Sud

Posted by on Apr 11, 2018

Quando si fece l’Italia e si disfece il Sud

C’est assez pour aujourd’hui. Gardez-moi cela pour domain.

Non v’è dubbio che anche noi meridionali, quando si parla della unificazione, abbiamo le idee così distorte da oltre un secolo di falsità e di omissioni che non riusciamo a mettere a fuoco le origini del dualismo sociale ed economico di questo paese.

Finiamo per cadere in delle semplificazioni – ovviamente parliamo per noi, magari gli altri hanno capito tutto ed hanno le idee chiarissime – che non aiutano a spiegare il passato e non aiutano a progettare il futuro.

La storia che si dipana dallo sbarco dei Mille a Marsala l’11 maggio del 1860, procedette attraverso una serie di aggiustamenti in itinere, di eventi fortuiti e di aiutini interessati da parte di potenti forze straniere (1), ma soprattutto si giocò sul fronte interno. Fronte che vide uno scontro epocale fra Nord e Sud – usiamo questi termini solamente per esemplificare il discorso.

Da questo scontro nacquero le basi fondanti della Italia futura, alla quale sarebbe stato consegnato un apparato statuale in cui i meridionali avrebbero avuto un ruolo determinante sul piano politico, ma non su quello delle scelte strategiche di tipo economico-militare, perlomeno non sul fronte interno.

Il livello militare in genere nella storiografia viene tenuto in ombra ed in ossequio alle storiografie di stampo marxiano si pone l’accento sul piano economico che tutto condizionerebbe. Se guardiamo anche all’oggi dovremmo invece dare il giusto peso al piano militare ed all’uso che si fa della forza per mantenere i privilegi da parte di alcune nazioni. Nazioni che, grazie all’uso della forza, non solo mantengono i privilegi ma li moltiplicano in quanto il controllo delle risorse diventa poi un volano per un ulteriore sviluppo economico.

Torniamo però al nostro tema principale, la storia del tracollo del Regno delle Due Sicilie. Un tracollo dovuto alla contraddizione fra un dinamismo economico notevole ed un apparato politico-statuale vecchio, in decomposizione, da rinnovare. Non si spiega altrimenti la “passeggiata” (2) dell’eroe dei due mondi, pur riconoscendone le capacità rivoluzionarie di sollevazione popolare che dimostrò sul campo. Soprattutto in Sicilia, dove col decreto del 2 giugno 1860, sulla spartizione delle terre fra chi avrebbe combattuto per la patria, riuscì a portare una buona fetta della popolazione dalla sua parte e ne fece massa di manovra contro l’esercito napoletano. Da ricordare un importante elemento che in Sicilia giocò a favore del Garibaldi (3): sotto i borboni i siciliani erano esentati dalla leva obbligatoria e l’esercito napoletano era considerato da molti isolani come esercito occupante.

Pensare che un esercito di centomila uomini si sia disciolto come neve al sole per i numerosi tradimenti degli alti gradi vuol dire non capire perché gli eventi presero una certa piega e perché Garibaldi giunse a Napoli in treno!

Il Sud era in profonda trasformazione economica e mentre una buona parte dell’apparato industriale poteva avere interesse a puntellare una monarchia illuminata che l’aveva aiutato a nascere, vi erano altri settori economici – nel commercio e in agricoltura – che vedevano di buon occhio un cambiamento della struttura politica e una maggiore liberalizzazione dell’economia (4).

In tanti paesi del Sud – prima che giungessero i garibaldini – comitati più o meno spontanei avevano già fatto il ribaltone ed avevano sostituito o si apprestavano a farlo le vecchie amministrazioni borboniche.

Non si è mai visto un condottiero che preceda le sue truppe nell’impossessarsi di una grande città! Nel Sud si vide anche questo: a Napoli Garibaldi fece il suo trionfale ingresso – fra ali di popolo osannanti, con tanti esponenti della Bella Società Riformata (5) chiamati a far da poliziotti e muniti per l’occasione di paroccole (6) e coccarde tricolori – il 7 settembre 1860, mentre il grosso dei garibaldini giunse in città il 9 settembre (7).

L’11 ottobre 1860, mentre a Torino Cavour chiedeva l’annessione incondizionata delle provincie meridionale, Garibaldi indice il plebiscito:

ITALIA E VITTORIO EMANUELE.

“Il Dittatore dell’Italia Meridionale”

In compimento del decreto dell’8 corrente ottobre, che convoca il popolo per votare il plebiscito all’intento di riconoscere la regolarità di tutti gli atti relativi, e di determinare quindi la successiva incorporazione dell’Italia Meridionale nell’Italia una e indivisibile, decreta:

Art. 1. E’ convocata per il primo novembre prossimo nella città di Napoli un’Assemblea di Deputati per le province continentali dell’Italia Meridionale.

Art. 2. I Deputati dell’Assemblea saranno nominati per suffragio universale.

Art. 3. Il Prodittatore di Napoli fisserà il numero dei Deputati, la circoscrizione elettorale e tutto ciò che sarà necessarlo per la riunione dell’Assemblea.

Art. 4. Il Prodittatore e i Ministri in Napoli sono incaricati dell’esecuzione della presente legge. “

Il plebiscito del 21 ottobre 1860 sancirà – sotto l’aspetto formale – la scelta per le provincie napolitane dell’abbraccio mortale col Piemonte liberatore.

 

 

Sperperi e ruberie

 

La conta degli sperperi che vi furono in quei mesi non ci risulta sia stata fatta analiticamente e non sappiamo se mai verrà fatta e se interessa a qualcuno farla (8). Ne diamo una sommaria esemplificazione.

La cronaca del tempo riferisce dello scandalo di “un milione e quattrocentomila ducati prelevati dal Garibaldi dalle casse siciliane senza darne conto”

Secondo la relazione del segretariato generale delle finanze napoletane con i conti del Banco di Napoli nel periodo della dittatura garibaldina: “al 27 agosto 1860 risultavano 19.316.295 ducati; al 27 settembre 7.900.115 ducati”, diventati addirittura circa 6 milioni al 2 aprile”

In una lettera del vice-console piemontese Astengo si parla riferisce degli sperperi “indescrivibili”: “furono distribuiti all’armata di Garibaldi che non arriva a 20.000 uomini 60.000 cappotti eppure la gran parte dei garibaldini non ha cappotti…”

Il generale ungherese Cupa in una lettera parla del saccheggio dei banchi napoletani: “Dai computi fatti nel tempo che tenne la dittatura Garibaldi si è speso per l’amministrazione dello stato più di 150 milioni di franchi e le casse sono vuote: Garibaldi ordinò che si intimasse ai banchieri che si somministrasse denaro sotto minaccia di fucilazione”

La cronaca del tempo testimonia l’anarchia nella capitale: soldati e impiegati disoccupati, scioperi, rivolte e proteste conseguenti, fallimenti di negozi e fabbriche “e da Torino s’incominciava a provvedere Napoli di tutto, dalle vesti alle calzature dei soldati… sin la carta…sin le panche di legno per le pubbliche scuole…sin le pietre a costruire le orinaie della città… e anche gli impiegati erano spediti da Torino…”

La cronaca del tempo testimonia anche dei saccheggi, furti e devastazioni delle regge borboniche: “le argenterie delle reali mense furono pubblicamente vendute, sin gli utensili da cucina furon trasportati in Torino…”

Nel carteggio conservato presso l’Archivio del Banco di Napoli si documenta di un prestito di 200.000 lire – circa due miliardi attuali – al figlio di Garibaldi Menotti, giustificato da Garibaldi stesso e mai restituito.

In una lettera dell’epoca si descrive la situazione di Napoli qualche anno dopo Garibaldi:

“Il popolo manca di lavoro, di pane, di speranza. Anche a Napoli si è avuto uno spettacolo pietoso: arrivava una carovana ininterrotta di contadini delle Calabrie, della Basilicata e del Cilento che venivano per emigrare. Li hanno descritti pallidi, disfatti, con l’aspetto della più crudele miseria. Già una quantità di operai cacciati dagli arsenali e dai cantieri sono partiti per l’Egitto e dalla Sicilia a Tunisi, a Tripoli, ad Algeri. Molti cercano nel porto di Genova di imbarcarsi per l’America meridionale… Ma come è accaduto che gli abitanti delle Due Sicilie, il popolo meno fatto prima per lasciare la sua patria, se non per viaggiare, siano spinti ora da questa furia di emigrazione?”

Le notizie sugli sperperi sono tratte da “Processo a Garibald“ di Gennaro De Crescenzo – https://www.neoborbonici.it/

 

Noi sappiamo solo che le scialate di Nigra nella ex-capitale e il guanto di ferro di Cialdini sono due facce della stessa medaglia: l’assoggettamento graduale e sistematico delle risorse umane ed economiche di un territorio abitato da ben nove milioni di persone!

 

 

Lamentatori di professione

 

Qualcuno obietterà che si tratta di eventi normali durante il cambiamento di un regime. Il problema del Sud fu che questo periodo a causa della opposizione armata – passata alla storia come brigantaggio per sminuire il fatto che non tutti aderirono entusiasticamente alla novella patria – si protrasse per un decennio e oltre.

Una vera e propria guerra civile, che vide i poteri concentrati nelle mani dei militari e la rappresentanza politica delle provincie napolitane costretta fra le legittime istanze del territorio di riferimento e l’accusa costante di andare contro i supremi interessi dell’Italia Una quando alzava troppo la voce.

A quel punto le scelte erano limitate: o passare a sostenere l’opposizione armata o continuare a lamentarsi che le cose non andavano bene per poi ritagliarsi la propria fetta personale, a livello di carriera politica o professionale. Quello che fecero tutti gli esponenti della potente consorteria napoletana e tanti membri del personale politico meridionale.

Come fecero, ad esempio, Antonio Ranieri e Pasquale Villari (9).

La politica annessionista non si è curata di studiar questi fatti, che pure appartengono alla storia. Essa ha negata la scienza nella terra della scienza: nella terra dove il Sommo Iddio, se ha permesso i Borboni, da un lato, ha voluto, dall’altro, che la face della sapienza fosse inestinguibile. E salvo ai pochissimi ch’essa s’immagina abbiano avuta l’opportunità di studiare altrove, ci ha concessa, a noi tutti, una patente d’ ignoranza!

Signori! Questa immaginaria patente ha partoriti frutti amarissimi a quelle nostre provincie. E solo la nostra ferma, inalterabile, invincibile, sempiterna e sacrosanta fede nell’unità della patria comune, sarà cagione che non ne partorisca degli egualmente amarissimi per tutta l’Italia.

E come spieghereste, o signori, senza questa chiave, l’assenza relativa di tutti gl’Italiani del mezzodì da tutti gli uffizi alti ed operosi dello Stato? Come spieghereste i giovanissimi, per non dire i fanciulli, delle antiche province preferiti agli uomini gravi delle nuove? Percorrete, o Signori, tutta la serie degli uomini che stanno per qualche cosa nella gestione dogli affari d’Italia. Vedete quanti o quali sono i Napoletani! Quanti e quali i Siciliani!… La Gazzetta Ufficiale è là; e l’aritmetica a una scienza!

Discorsi di Antonio Ranieri, deputato, circa le cose dell’Italia meridionale
Terzo discorso – XI Dicembre 1861

 

Inoltre qui v’è stata per un tempo una spaventosa furia di distruggere senza riedificare: e quel che è peggio non è ancora finito. Pareva che si volesse levar tutto a Napoli.

[…] In verità, noi abbiamo mille volte letto, nei giornali esteri, che le condizioni presenti delle provincie meridionali sono una prova che esse erano poco mature all’unità nazionale, che esse non comprendono e non vogliono l’Italia. Ma se quegli scrittori avessero avuto la bontà di venire qui a studiare il paese, e se avessero visto quanti errori si sono commessi dai governanti; se avessero – visto in che modo queste popolazioni sono ignoranti, che non vedono oltre il presente, che non possono indovinare i futuri beneficii del governo italiano; se avessero visto in che modo sono state travagliate, sconquassate, lacere da una serie continua di mali inevitabili sì, ma pur gravissimi, venuti dalla rivoluzione in poi; se avessero visto che sperpero del pubblico erario, che miseria, che fame li ha travagliati; quanti luogotenenti, governatori, generali si sono mutati, quante, dirò ancora, forme di governo abbiamo avute in un anno solo senza che ancora abbiamo finito; se tutto questo avessero veduto, e fossero poi andati nei più umili tugurii, ove per la prima volta in vita sua, il lazzaro napoletano canta canzoni italiane in lode dell’unità d’Italia; e se avessero un bel giorno interrogato tutto questo popolo come s’è fatto il 7 settembre, e per tutta risposta avessero udito, come abbiamo udito noi, un grido unanime: Italia e Vittorio Emanuele, a Roma, a Roma; forse che allora le conclusioni di codesti giornali sarebbero alquanto diverse.

Per ora pongo fine a questa lettera, già lunga. In altra mia cercherò d’esaminare più da vicino le cagioni dello scontento, che ancora non è cessato.

Napoli, 13 settembre 1861.

Le ragioni di un malcontento – LETTERE MERIDIONALI (1861) di Pasquale Villari

 

A fronte della denuncia di quanto stesse accadendo in quei mesi cruciali nell’ex-Regno delle Due Sicilie sia Ranieri che Villari faranno una brillante carriera professionale l’uno e una brillante carriera politica l’altro. La scelta di campo traspare già da una attenta lettura dei loro scritti del 1861, nei quali essi, più che preoccuparsi della sostanza di quanto stava accadendo, danno il via ad un nuovo animale politico quello del lamentatore di professione. Un po’ come il cane alla mensa del padrone, abbaia per farsi buttare ogni tanto qualche ossicino e magari a volte rimedia anche un cosciotto di pollo.

 

 

Una rappresentanza inetta e addomesticata

 

Camillo Benso di Cavour in una lettera del dicembre 1860 si era raccomandato di avere una rappresentanza napoletana ridotta (e addomesticata, aggiungiamo noi):

Mi restringo a pregarlo a fare ogni sforzo onde si acceleri la formazione delle circoscrizioni elettorali, vedendo modo di darci il minor numero di deputati napoletani possibile. Non conviene nasconderci che avremo nel Parlamento a lottare contro un’opposizione formidabile[…]“.

Lettera a G. B. Cassinis * 8 dicembre 1860 – Riportata in

Storia del brigantaggio dopo l’Unità di Franco Molfese – Feltrinelli – 1966

L’addomesticamento della rappresentanza meridionale continua anche durante i mesi della Luogotenenza:

«Oggi Le spedisco i deputati e i senatori. V.E. vedrà che roba. Ma è malleabile. Sappia tirarne il meglio che potrà a vantaggio dell’Italia. Di ministeriabili non ne veggo uno. Osservi l’E.V. e sarà forse più fortunata di me. Se si tratta d’un semplice Ministro di Lavori Pubblici, d’Agricoltura, o d’Istruzione, la cosa è più facile».

Lettera di C. Nigra – Napoli, febbraio 1861- Riportata in

La meridionalizzazione antimeridionale di Pietro Craveri – Ideazione – 01/1998

Sprezzante giudizio della classe politica della nuova nazione, ne da Pietro Calà Ulloa:

Sono delle iene politiche quelle che sanzionano la legge Pica, la legge Crispi, le fucilazioni, tutte le repressioni, tutte le atrocità. Che importa loro del passato o del futuro? Il passato per loro non conta e se alla posterità lasciano solo debiti di infamia, bene, se ne preoccupi la posterità. E al peggio non c’è fine. Indifferenti a ogni disprezzo, vanno avanti e acquistano castelli in Svizzera, piazzano le loro fortune in fondi pubblici all’estero. Questi ministri e deputati, artefici di pubblico aggiotaggio, possono ben ridersela fra loro, come quegli auguri di cui parla Cicerone. XX E chi sono i funzionari pubblici italiani? Tutti dello stesso stampo, inquinano e disonorano tutto quel che toccano. Sono dei vampiri che ambiscono uguagliare i deputati. Ci si lamentava il secolo scorso dei nobili che governavano, ora abbiamo dei plebei ai posti di comando. Non v’è ufficiale della Guardia nazionale o sindaco che non giochi il ruolo di piccolo tiranno. Il principio d’autorità è insopportabile per la rivoluzione, perché proclama insieme ordine e libertà, i funzionari italiani lo ammettono solo riferito a se stessi. Ogni idea di giustizia si riassume per loro nel diritto di punire, e nella necessità di punire. I migliori hanno solo quelle virtù che non gli precludono la promozione al Senato. Tutti questi Policrate, questi Verre, questi Pisone, che degli antichi posseggono la furia e la tronfiezza,sgambettano o schiacciano quanti possono ritardare il loro cammino. L’unica cosa che conoscono è l’unità e l’unita acquistata al prezzo del dispotismo.

[…] La legge Pica e quella Crispi, con l’aria che hanno di misure da comitato di salute pubblica, non hanno fatto altro che offrire innumerevoli occasioni di vergognosi mercati. Si potrebbero citare molti funzionari, molti generali che non hanno esitato ad usare minacce al solo scopo di farsi comprare la loro protezione. Molti proprietari nel regno di Napoli, colpevoli solo d’essere ricchi, hanno abbassato umilmente la testa per elemosinar misericordia: senza denaro la misericordia si sarebbe fermata per lasciar passare l’ordine di confino, o la punizione militare. Tutti questi farisei politici si inginocchiano davanti all’altare del potere e se ne fanno incensatori, nella speranza di non dover sempre respirare soltanto incenso.

Quanto fosse addomesticata e inetta la nostra rappresentanza – se si esclude Proto di Maddaloni – lo dimostra un fatto vergognoso. In parlamento l’unica voce che si levò contro i massacri di Casalduni e Pontelandolfo non fu quella di un meridionale, bensì quella di Giuseppe Ferrari, che intervenendo al Parlamento di Torino il 2 dicembre 1861, così descrisse ciò che aveva visto di persona:

Nel turbinio degli avvenimenti […] la confusione giunge a tal punto che io a Napoli non poteva sapere come Ponte Landolfo, una città di 5.000 abitanti fosse stata trattata. Io ho dovuto intraprendere un viaggio per verificare il fatto cogli occhi miei. Ma io non potrò mai esprimere i sentimenti che mi agitarono in presenza di quella città incendiata. Mi avanzo con pochi amici, e non vedo alcuno; pochi paesani ci guardano incerti; sopravviene il sindaco; sorprendiamo qualche abitante incatenato alla sua casa rovinata dall’amore della terra, e ci inoltriamo in mezzo a vie abbandonate. A destra, a sinistra le mura erano vuote e annerite, si era dato il fuoco ai mobili ammucchiati nelle stanze terrene e la fiamma aveva divorato il tetto; dalle finestre vedevasi il cielo. Qua e là incontravasi un mucchio di sassi crollati; poi mi fu vietato il progredire; gli edifizi puntellati minacciavano di cadere ad ogni istante.

E quando Volli vedere più addentro lo spettacolo ce1ato delle afflizioni domestiche, mi trassero dinanzi il signor Rinaldi, e fui atterrito. Pallido era, alto e distinto della persona, nobile il volto; ma gli occhi semispenti lo rivelavano colpito da calamità superiore ad ogni umana consolazione.

Appena osai mormorare che non così s’intendeva da noi la libertà italiana.

Nulla io chiedo, disse egli, e noi ammutimmo tutti. Aveva due figli, l’uno avvocato, l’altro negoziante, ed entrambi avevano vagheggiato da lontano la libertà del Piemonte, ed all’udire che approssimavansi i piemontesi, che così chiamasi nel paese la truppa italiana, correvano ad incontrarli. Mentre la truppa procede militarmente, i saccomanni la seguono, la straripano, l’oltrepassano, e i due Rinaldi sono presi, forzati a riscattarsi, poi, dopo tolto il danaro, condannati ad istantanea fucilazione.

L’uno di essi cade morto; l’altro viveva ancora con nove palle nel corpo; e un capitano gittavasi a ginocchio dinanzi ai fucilatori per implorare pietà; ma il Dio della guerra non ascoltava parole umane e l’infelice periva sotto il decimo colpo tirato alla baionetta.

Rinaldi possedeva due case, e l’una di esse spariva tra le fiamme, e appena gli uffiziali potevano spegnere l’incendio che divorava l’altra casa. Rinaldi possedeva altre ricchezze, e gli erano rapite; aveva altro… e qui devo tacermi, come tacevano dinanzi a lui tutti i suoi conterranei. Quante scene d’orrore!

Qui due vecchie periscono nell’incendio; là alcuni sono fucilati, giustamente, se volete, ma sono fucilati; gli orecchini sono strappati alle donne; i saccomanni frugano ogni angolo; il generale, l’uffiziale non possono essere dappertutto: si è in mezzo alle fiamme, si sente la voce terribile: piastre! piastre! e da lontano si vede l’incendio di Casalduni, come se l’orizzonte dell’esterminazione non dovesse avere limite.

Sulla strage di Pontelandolfo del 14 agosto 1861, abbiamo un’altra testimonianza, tratta dal manoscritto degli episodi della vita militare del bersagliere Carlo Margolfo del 6° Battaglione 2° Compagnia 4° Corpo d’armata, comandato dal generale Cialdini:

Al mattino del mercoledì, giorno 14, riceviamo l’ordine superiore di entrare nel comune di Pontelandolfó, fucilare gli abitanti, meno i figli, le donne e gli infermi, ed incendiarlo. Difatti un po’ prima di arrivare al paese incontrammo i Briganti attaccandoli, ed in breve i briganti correvano davanti a noi, entrammo nel Paese subito abbiamo incominciato a fucilare i Preti ed uomini quanti capitava, indi il soldato saccheggiava, ed infine abbiamo dato l’incendio al paese, abitato da circa 4.500 abitanti. Quale desolazione, non si poteva stare d’intorno per il gran calore, e quale rumore facevano quei poveri diavoli che la sorte era di morire abbrustoliti, e chi sotto le rovine delle case. Noi invece durante l’incendio avevamo di tutto: pollastri, pane, vino e capponi, niente mancava, ma che fare non si poteva mangiare per la gran stanchezza della marcia di 13 ore.”

 

Sempre Giuseppe Ferrari nel dibattito del 29 aprile 1862, affermava:

“Non potete negare che intere famiglie vengono arrestate senza il minimo pretesto; che vi sono, in quelle province, degli uomini assolti dai giudici e che sono ancora in carcere. Si è introdotta una nuova legge in base alla quale ogni uomo preso con le armi in pugno viene fucilato. Questa si chiama guerra barbarica, guerra senza quartiere. Se la vostra coscienza non vi dice che state sguazzando nel sangue, non so più come esprimermi”.

 

La lotta al brigantaggio (10) divenne tema di dibattito anche Camera dei Comuni britannica, nel dibattito dell’8 maggio 1863. Mr. Cavendish Bentinck disse:

“Il brigantaggio è una guerra civile, uno spontaneo movimento popolare contro l’occupazione straniera, simile a quello avvenuto nel regno delle Due Sicilie dal 1799 al 1812, quando il grande Nelson, sir John Stuart e altri comandanti inglesi non si vergognarono di allearsi ai briganti di allora, e il loro capo, il cardinale Ruffo, allo scopo di scacciare gli invasori francesi”.

 

Nel corso della stessa seduta, Disraeli si domandò:

“Desidero sapere in base a quale principio discutiamo sulle condizioni della Polonia e non ci è permesso di discutere su quelle del Meridione italiano. È vero che in un Paese gl’insorti sono chiamati briganti e nell’altro patrioti, ma, al di là di questo, non ho appreso da questo dibattito nessuna altra differenza fra i due movimenti”.

 

A proposito della classe politica meridionale che governò il Sud dopo lo sbarco di Garibaldi, leggiamo cosa riporta il Pedio:

È stato un errore, si sostiene nel 1862 in una memoria… avere affidato il governo napoletano a quei patrioti che, emigrati al cominciare della reazione del 1849, rimasero fuori dalla province Napoletane sino al 1860… Sebbene essi siano per ingegno, dottrina e amor patrio la migliore parte di quella eletta schiera di liberali Napoletani, sono i meno adatti a svolgere le mansioni loro affidate dal governo di Torino sia per la poca conoscenza che hanno degli interessi di queste province, da cui sono stati per molti anni assenti, sia per quella passione… mista di vendetta e di disprezzo, di cui sono sempre dominati quelli che dopo un lungo e doloroso esilio ritornano potenti in patria.

Rientrati a Napoli come proconsoli piemontesi, hanno falsato agli occhi del Governo centrale i fabbisogni del paese e hanno consentito che questo venisse ammisserito e spogliato… da estranei a queste provincie… venuti con lo spirito di conquista che non si addice a chi doveva spargervi la luce e il progresso. A causa della loro incapacità a governare, l’amministrazione cade in mano di persone che non sapevano un’acca e non avevano altro merito se non di godere delle grazie della consorteria.”

Tommaso Pedio, Brigantaggio Meridionale, Capone, 1997, pag. 57

 

Interessante conoscere un’altra delle tante soluzioni che si idearono per debellare l’opposizione armata nel Sud, quando i prigionieri cominciarono ad essere decine di migliaia e i campi di concentramento al Nord – Fenestrelle, Alessandria, San Maurizio – non bastavano più:

“Un ulteriore passo avanti nella studio di questa fase poco “chiara” del post unificazione è stato fatto recentemente, quando un ricercatore trovò dei documenti presso l’Archivio Storico del Ministero degli Esteri attestanti che, nel 1869, il governo italiano voleva acquistare un’isola dall’Argentina per relegarvi i soldati napoletani prigionieri, quindi dovevano essere ancora tanti . Questi uomini del Sud finirono i loro giorni in terra straniera ed ostile, certamente con il commosso ricordo e la struggente nostalgia della Patria lontana. Molti di loro erano poco più che ragazzi . Era la politica della criminalizzazione del dissenso, il rifiuto di ammettere l’esistenza di valori diversi dai propri, il rifiuto di negare ai “liberati” di credere ancora nei valori in cui avevano creduto. I combattenti delle Due Sicilie, i soldati dell’ex esercito borbonico ed i tanti civili detenuti nei “lager dei Savoia”, uomini in gran parte anonimi per la pallida memoria che ne è giunta fino a noi, vissero un eroismo fatto di gesti concreti, ed in molti casi ordinari, a cui non è estraneo chiunque sia capace di adempiere fedelmente il proprio compito fino in fondo, sapendo opporsi ai tentativi sovvertitori, con la libertà interiore di chi non si lascia asservire dallo “spirito del tempo”.”

Il Sud cancellato dalla Storia – https://www.cellamare.org/

 

 

L’origine del disastro meridionale

 

Mentre si svolgeva la prima e più sanguinosa guerra civile della storia d’Italia, il mondo degli affari – anche quello meridionale – non si fermava.

Per una trattazione più esauriente del “disastro meridionale” da un punto di vista storico-economico, rimandiamo al testo di Nicola Zitara L’unità truffaldina, disponibile su questo sito in formato elettronico.

Noi vogliamo solo riportare alcuni fatti che riguardano l’aspetto economico-finanziario per dare l’idea di un periodo complesso e difficilmente decifrabile perché mancano le fonti oppure sono di parte, in quanto non vi una vera opposizione da parte della rappresentanza meridionale nei confronti di coloro i quali ebbero un ruolo decisionale. Magari ne sapremo di più quando saranno resi accessibili a tutti gli archivi dello USSME inerenti il brigantaggio fra il 1860 e il 1870 (11). E magari non sapremo nulla di nuovo, come sostiene qualcuno, tanto dai rapporti militari non emergerebbe niente di più rispetto a quanto già si conosca.

I fatti di cui parlavamo dianzi, riguardano la chiusura delle fabbriche meridionali e le commesse statali. Sulla chiusura delle fabbriche meridionali, riportiamo due testimonianze:

“Caro Amico, le teorie sono belle ed incantano, i fatti però, che vediamo, e tocchiamo sono brutti, e schifosi. L’altro giorno furono licenziati nell’arsenale di Castellammare 500 operai, i capi dell’Arsenale dovettero salvarsi in barchetta per l’ammutinamento di essi, che li dicevano causa del loro danno, bisognò mostrargli che gli ordini venivano da Torino”.

Alessandro Sur Yelon, conte de la Ville, ad A. Ranieri – Torre Annunziata, 20 aprile 1861, C. R. 32/65 (12)

 

“Le industrie che oggi fioriscono in questa parte meridionale d’Italia non sono di piccola considerazione anzi, avuto rispetto alle condizioni infelici in cui sono stati questi popoli, può dirsi che il suo progresso industriale sia stato grande, come quello che non è secondo a molti Stati d’Europa, e forse molti ne avanza.

E però non senza un forte rincrescimento noi della meridionale Italia abbiamo inteso dal seno del nostro Parlamento con leggerezza, e quasi disprezzo farsi nessuna ragione di queste industrie nostrali, anzi averle quasi in dispregio, come cosa vile o da poco.

Questa Giunta di Commercio adempirebbe male il suo ufficio, né risponderebbe al nobile intento, cui deve mirare, se all’occasione di dover rilevare e mettere in chiaro aspetto lo stato vero di queste industrie, mancasse di esporre al Ministero quei giusti reclami che oggi si fanno per l’abbandono e la noncuranza in cui sono avute. “

Delle principali industrie che sono nell’Italia meridionale
Relazione della Giunta provvisoria di commercio di Napoli – 1861 (13)

 

Sulla commesse statali e sulla loro assegnazione – argomento di grande interesse – riportiamo un brano di una lettera che fa parte del Carteggio Ranieri (14), carteggio su cui presso l’università di Napoli è stata presentata una tesi di laurea disponibile su internet in formato pdf:

“La vostra lettera […] mi ha messo in un orgasmo diabolico! Il primo scopo delle nostre trattative fu quello di ammettere i soli panni rublij che tenevo confezionati, rivolgendone il colore a verde per uso delle Finanze, di cui il Ministro deve darmi un appalto ad ordine […]. Ora colla vostra mi dichiarate esser necessario […] doverne vestire tutte le guardie dell’Italia Meridionale.”

Che nel decennio 1860-1870 il Sud sia stato messo in ginocchio, perché l’apparato economico-militare fu dominato – con l’alibi della lotta al brigantaggio – dal Piemonte ovvero dal Nord, per noi è cosa indiscutibile, ma non possiamo credere e affermare che un paese di nove milioni di anime sia stato bloccato in tutto e per tutto. In altre parole, alcune fette della popolazione meridionale, pur nelle difficoltà di non riuscire ad avere una rappresentanza politica all’altezza della importanza che un territorio così vasto avrebbe dovuto e potuto avere, riuscirono a trovare degli spazi di trattativa, ad ottenere quindi qualche commessa e qualche appalto.

Nonostante fosse stata sfavorita dall’abolizione dei dazi doganali di cui godeva in epoca borbonica, l’industria campana, per esempio, agli inizi del novecento non era in una situazione così disastrosa come si potrebbe credere:

All’inizio del secolo, quando il processo di industrializzazione dell’area nord-occidentale era ancora agli inizi, il divario non presentava i caratteri marcati che avrebbe assunto nei decenni successivi. Per lo meno le aree meridionali di antica industrializzazione, malgrado i rovesci subiti nei decenni postunitari, conservavano le loro strutture portanti.

La provincia di Napoli, ad esempio, nel 1903, con una popolazione che costituiva il 5% dell’intero Regno, vantava un numero di opifici industriale che rappresentava il 5% del totale nazionale.

In questo ambito essa era preceduta solo dalla provincia di Milano, che aveva un numero lievemente superiore di imprese, una maggiore potenza installata (88 000 HP contro i 52 000 di Napoli) e una più consistente massa di addetti (163 000 fra operai e impiegati contro gli 84 000 di Napoli).

Anche la provincia di Firenze, per la verità, precedeva di poco quella di Napoli solo per numero di addetti, ma quest’ultima precedeva ancora quella di Genova e di Torino.

Nell’area napoletana, d’altra parte, importanti processi di concentrazione industriale avevano fatto progredire alcune fra le più importanti manifatture di antico insediamento”.

Breve storia dell’Italia meridionale: dall’Ottocento a oggi – Piero Bevilacqua – Donzelli 1993-2005

 

Se la situazione era questa, sarebbe interessante capire come è andata con le commesse della prima guerra mondiale, e l’uso che è stato fatto delle rimesse degli emigrati.

Il buon Bevilacqua, dopo aver fatto il confronto che abbiamo riportato se ne esce con una affermazione buttata lì sostenendo che, però, sostenere che il Nord si sia industrializzato a spese del Sud non regge storicamente.

Noi ci domandiamo, questo si può affermare solo perché l’industria campana agli inizi del ‘900 era ancora viva e vegeta?

Allora ci dobbiamo chiedere cosa è accaduto durante il fascismo al Nord e cosa è accaduto con gli aiuti del piano Marshall sempre al Nord! E ritorniamo al nostro assunto primario: il Sud ha avuto un ruolo importante nell’unificazione ma le redini del potere economico-militare sono state saldamente nelle mani prima di Cavour e poi dei suoi epigoni.

Tuttora.

Elea di Zenone

fonte

eleaml.org

 

Note

1 “Innumerevoli sono i documenti che dimostrano la rivoluzione italiana essere stata opera di gente straniera, e i nostri popoli averla soltanto subìta. Per dir solo dei Napoletani, basti fin d’ora ricordare la confessione fattane dall’infelice Bixio in pubblica Camera di Torino, nella tornata 9 dicembre 1863, e la dichiarazione solenne di Garibaldi nel pomposo ricevimento fattogli in Inghilterra nell’aprile del 1864, dove, innanzi a 30.000 spettatori, Ministri, membri del Parlamento e Lordi, ebbe a dire: “Napoli sarebbe ancora dei Borboni senza l’aiuto di Palmerston; e senza la flotta inglese io non avrei potuto passare giammai lo stretto di Messina”. Parole autorevolmente terribili, le quali provano che, se Re Francesco II poteva combattere e vincere la insurrezione suscitata da una mano di filibustieri, avrebbe poi necessariamente soccombuto, non ostante l’amore del popolo e il valore dell’esercito, dovendo […] tener fronte alla mal velata guerra del Governo Britannico e all’aperta aggressione del Sardo, sostenuto da Napoleone III e dalla potenza della Francia, che grande era a quel tempo; doveva in una parola difendersi dai rivoluzionarii di tutto il mondo, e dagl’interni tradimenti procurati da essi.” Paolo Mencacci, in Storia della rivoluzione italiana

«L’Impèratrice eut une idèe sublime; elle fit metre des lunnettes à l’un des ènvites et lui dit: vous serez Mr. de Cavour qui est le Gargantua des temps modernes. On vint me demander la permission que je m’empressai à accorder et on dressa la table devant V.E. On comança a porter du stracchino, puis du parmesan, puis de la mortadelle de Bologne. V.E. aceptait toujours, trovait tout excellent et avalait tout de la meilleurs grace du monde. On porta ensuite de l’aleatico, que V.E. trouva dèlicieux; et ensuite des oranges de Sicile qu’elle a ancore acceptès et mangès au millieu des applaudicements et des acclamations de l’Assemblèe. Enfin on lui a offert des maccaroni. Mais vous avez rèpondu: “C’est assez pour aujourd’hui. Gardez-moi cela pour domain”». Lettera di C. Nigra – Fontainebleau, giugno 1860 – Riportata in La meridionalizzazione antimeridionale di Pietro Craveri – Ideazione – 01/1998

2 “Garibaldi da Soveria andò a Napoli coi cavalli di posta.” Si legge ne: La camicia rossa di Alberto Mario – potete scaricare il testo dal sito www.liberliber.it.

3 Si tratta di un “felice” neologismo inventato da un giovane amico che ha uno spazio su Youtube – non vogliamo prenderci un merito che non è nostro: Garibaldi oltre all’assonanza con Garibaldi si può leggere anche staccato, alla napoletana, Cca-ribalto che esprime bene cosa accadde nel Sud in quel fatidico 1860. Un ribaltone a cui presero parte tante manine, nostrane e straniere.

4 La concessione della costituzione da parte di Francesco II fu – secondo noi – tardiva e inopportuna. Scrive Antonio PAGANO – Direttore della rivista DUE SICILIE: “A Napoli, il Re Francesco II, fraudolentemente consigliato, decretò a Portici il 25 giugno il ripristino della Costituzione del 1848, con ampia amnistia. […] Ma la concessione della costituzione fu veramente inopportuna in quel frangente, perché contribuì a creare ancora più disordine, in quanto permise a molti pericolosissimi fuoriusciti di rientrare nel Regno e di occupare molti incarichi importanti nell’amministrazione del governo. In quei frangenti l’avvocato Liborio Romano s’incontrò a Napoli nel Palazzo Salza, alla Riviera, con il conte Brenier console francese a Napoli. Il 26 giugno, ancora su consiglio del suo governo, il giovane re Francesco II stabilì, inoltre, che la nuova bandiera nazionale fosse quella tricolore, rossa, bianca e verde, conservando nel mezzo le armi della dinastia borbonica.”

5 Il ruolo degli uomini della camorra viene analizzato meglio di quanto potremmo fare noi in alcuni siti internet (ormai lo si scrive finanche nel sito dei Carabinieri!) e nelle monografie di Giuseppe Ressa, un dottore prestato alla storia, del quale vi consigliamo.di leggere: IL SUD E L’UNITÀ D’ITALIA dalla storiografia ufficiale alla realtà dei fatti.

6 Grossi bastoni con la parte superiore grossa e arrotondata.

7 “L’esercito garibaldino, lurido, bieco, famelico, disordinato, male armato, entra nella città. Si spandono per le case, pei paesi e per le ville; sono i padroni di tutto, derubatori d’ogni arnese, calpestatori d’ogni monumento, insultatori d’ogni grandezza. Napoli, che i Vandali non vide mai, vide i garibaldini.” La conquista del Sud – Carlo Alianello

8 Dobbiamo riconoscere che recentemente un tentativo è stato fatto, da Roberto Martucci, in un libro da \leggere, L’invenzione dell’Italia unita. 1855-1864 Sansoni 1999 – 2007 pag 287

9 A proposito di Villari, segnaliamo una curiosità: vi sono le lettere del 1861 e quelle del 1876. Ebbene in più d’una occasione – parliamo di persone che hanno frequentato l’università – ci è capitato di notare che mentre quelle del 1876 sono stracitate, praticamente non esiste bibliografia che si rispetti che non le contenga, quelle invece del 1861 sono state dimenticate, sono pressoché sconosciute. Nelle lettere del 1876 Villari parla dei soliti mali “endemici” del Sud, mafia, camorra e miseria, gli stessi mali di cui si parla ancora oggi sui giornali, nei libri e nelle aule parlamentari

10 La “questione dell’insorgenza” è stata sempre tenuta nell’ombra dalla storiografia risorgimentale. Nascoste o sottovalutate le gravi colpe dell’invasore piemontese. Prima fra tutte la famigerata azione dell’assedio di Gaeta, nella cui circostanza i soldati borbonici si comportarono da eroi: per oltre tre mesi, in condizioni disumane, sostennero l’assalto delle granate piemontesi. Ma anziché avere l’onore delle armi, i soldati borbonici furono inviati nei campi di concentramento di Fenestrelle e San Maurizio Canavese. Vincenzo Pezzolet – https://www.carabinieri.it/

11 La CIA declassifica i propri documenti ogni 20 anni, da noi si potrebbero mettere finalmente online quelli di 150 anni fa! o no?

12 Testo riportato in “La crisi delle industrie del Mezzogiorno – Storia di una rete. Famiglia, professione e politica nel Carteggio di Antonio Ranieri (1855-1865) – Tonia Romano Dottorato di ricerca in storia – Dottoranda Tonia Romano – Tutor Prof. Paolo Macry – Università Federico II”.

13 Relazione della Giunta provvisoria di commercio di Napoli, in risposta a quesiti proposti dal ministero Agricoltura, industria e commercio con foglio del 6 marzo 1861, approvata nella seduta del 12 giugno 1861 (Verbali delle deliberazioni, in Archivio della Camera di commercio di Napoli) – riportata in IL MEZZOGIORNO NELLA CRISI DELL’UNIFICAZIONE 1860-1861, Alfonso Scirocco, 1981 – Edizione sen – pag. 366-374

14 Testo riportato in “La crisi delle industrie del Mezzogiorno – Storia di una rete. Famiglia, professione e politica nel Carteggio di Antonio Ranieri (1855-1865) – Tonia Romano Dottorato di ricerca in storia – Dottoranda Tonia Romano – Tutor Prof. Paolo Macry – Università Federico II”.

 

 

 

 

 

Submit a Comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.